La cucina provenzale: mito e realtà

I lettori della bella trilogia noir marsigliese di Jean Claude Izzo (Total Khéops, Chourmo, Soléa, pubblicati in Italia da e/o) trovano in qualche rara occasione il tormentato protagonista Fabio Montale concedersi un po’ di pace nel porticciolo di Les Goudes – magari in compagnia degli amici Fonfon e Honorine – e ricrearsi con una semplice cucina mediterranea a base di pesce, verdure fresche e olio di oliva.

Il viaggiatore italiano digiuno di letteratura, che vede nel proprio paese il pesto e la focaccia e in Provenza il pistou e la fougasse, visitando una splendida regione costellata di castelli e villaggi medievali, campi di lavanda, rovine romane, macchia mediterranea – il mare e il suol di verdiana memoria – finisce per condividere la suggestione gastronomica prodotta dall’efficace scrittura di Izzo e si lancia alla ricerca di trattorie provenzali autentiche e di genuini prodotti del territorio.

Questa aspirazione, però, è destinata a infrangersi contro una realtà molto diversa. Lo scarso olio della regione costa, in media, più del doppio dell’equivalente prodotto nostrano e lo si vende, addirittura, in recipienti con curiosi spruzzatori a mo’ di Chanel numero 5 che ha un prezzo forse non molto più elevato. La fougasse, per chi riesce a trovarne una dal fornaio sotto a cumuli di onnipresenti quiches lorenesi, è dura e stopposa, poco simile alle sue sorelle liguri (non parliamo di quella di Recco) e anche il pistou, senza pinoli e formaggio, non è saporito come il suo cugino italiano.

I ristoranti regionali propriamente detti sono introvabili e chi non si rassegna a bretoni crêpes, lontano dall’Atlantico e dalle maree, non riesce a evitare una cucina piatta e standardizzata: panceltici croque monsieur, cioè toast, insalate con formaggio di capra e vinaigrette, uguali dalla Garonna al canale della Manica, hamburger con patate, orate di allevamento surgelate.

Tutto ciò, tuttavia, per quanto terribile, nondum erit finis, non è ancora il peggio. Le suggestioni mediterranee di cui sopra e la vicinanza al nostro paese hanno prodotto in Provenza alcuni orripilanti e purtroppo frequenti esperimenti di koiné culinaria meridionale ispirati alle specialità italiane. Capita così, purtroppo, di imbattersi – a due o tre centinaia di chilometri da Ventimiglia – in disgustose pizze emmenthal e olive oppure alla crème fraîche, ripugnanti piatti di pasta sciapa e scondita con un monolite di burrata pugliese in cima, pesto (genovese) sbattuto a sproposito ovunque, risotti sepolti da foreste di rucola.

In questo contesto poco confortante, pare esserci soltanto un rimedio: abbandonare definitivamente qualunque miraggio di ristorante rustico e accettare di spendere somme decisamente più elevate. Non si sarà mai del tutto al riparo da cocenti delusioni, ma appariranno finalmente qua e là, sia pur isolati all’interno di menù generalisti e nouvelle cuisine con discutibili contaminazioni, alcuni superstiti tesori della gastronomia tradizionale. Il primo e incontournable è la bouillabaisse dal provenzale boui abaisso, zuppa di pesce che “bolle in basso” sulla brace o – forse meglio – da “bollire e abbassare”. L’origine del piatto è la più popolare possibile: si tratta di un brodo con aglio, pepe, sale e zafferano in cui cuociono i pezzi di pesce de roche, di scoglio, che i pescatori/pescivendoli non sono riusciti a smerciare, il tutto con crostini su cui si spalma la rouille una specie di mayonnaise agliosa particolarmente saporita. Pare che una delle migliori si serva da Gilbert nel delizioso porto di Cassis, ma il costo è tale da scoraggiare anche i più motivati, specie coloro che già conoscono il brodetto di pesce di Fano e il livornese Caciucco. Più accettabile il rapporto qualità/prezzo nel centrale e storico ristorante Les arcenaulx nel vecchio porto di Marsiglia (a cui si riferisce l’immagine che apre l’articolo).

Simile, e altrettanto buona, è la bourride: pesce e trito di verdure mescolato alla tradizionale salsa aioli simile alla rouille di cui sopra. Chi, invece, preferisce la carne può godersi, quando la trova, la daube spezzatino marinato nel vino di manzo o agnello e cotto a lungo che tra Arles e Nimes, terre di corride, viene servita anche a base di toro (provatela ad Avignone all’ottimo ristorante La fourchette).

Sembra impossibile spiegarsi come, con piatti gustosi come questi, in Provenza ci si sia ridotti a un panorama gastronomico in generale poco esaltante. Una prima spiegazione la si può trovare nel potere livellatore verso il basso del turismo di massa che nella regione è ben conosciuto da alcuni decenni oppure nella pasoliniana devastazione prodotta dalla società consumistica dello “sviluppo senza progresso”.

La questione, tuttavia, merita un ulteriore approfondimento. Nel 1904 il premio Nobel per la letteratura fu assegnato a Frédéric Mistral, poeta in provenzale il cui capolavoro fu Mireiò (Mireille), opera tra realismo ed epica che racconta la storia d’amore di due giovani di campagna, nel contesto di una regione ricca di fascino e tradizioni. L’umble escoulan dóu grand Oumèro (l’umile scolaro del grande Omero) come si definì, si rese conto fin da bambino che la sua lingua nativa era minacciata di sparizione, relegata a mezzo di comunicazione delle sole classi inferiori e stigmatizzata nelle scuole come idioma rustico.

Mistral, uomo di notevole cultura, dedicò tutta la sua vita a restituire dignità al provenzale: oltre a comporre versi nella lingua dei suoi genitori e di Raimbaut de Vaqueiras, fondò il Museon Arelaten dedicato a usi e costumi locali, elaborò una nuova grafia (detta appunto mistralienne), compose un dizionario franco-provenzale, creò una confraternita poetico-linguistica (non priva di tratti mistici) detta Félibrige. Nella seconda metà dell’Ottocento, sulla scia del risveglio (o invenzione per citare Hobsbawm) delle tradizioni nazionali, Mistral vagheggiò la rinascita della Provenza come entità non indipendente, ma distinta dal resto della Francia centralista e giacobinamente votata all’uniformità, in stretto contatto con i “cugini” della renaixença catalana.

Per tornare a bomba sul tema che qui ci interessa, il nostro poeta si preoccupò anche della cucina della sua amata Provenza, minacciata dall’invasione di specialità nordiche. I suoi gradevoli racconti e contributi sul tema della gastronomia sono raccolti in un bel libro La taulo e l’oustau, contes gourmands a cura di H. Moucadel (edito da Librairie contemporaine 2007) probabilmente introvabile in Italia. Emblematici della sua concezione politico-culinaria sono i versi: Nàutri, li bon Prouvençau/au sufrage universau/voutaren pèr l’oli/e faren l’aiòli (Noi, i buoni Provenzali/al suffragio universale/voteremo per l’olio/e faremo l’aioli): rivendicazione dell’unità di un popolo “eterno” dietro un’immutabile tradizione. Il pur giusto rispetto per la lingua e il buon cibo del territorio rischia, insomma, per Mistral come per altri, di confinare pericolosamente con idealizzazioni etniche intimamente anti-moderne e in definitiva anti-democratiche destinate a rimanere marginali e a venire prima o poi soppiantate da energie nuove e maggiormente inclusive.

E dunque, il turista disperato che voglia mangiar bene, semplicemente e abbondantemente spendendo poco, può rivolgersi – con l’imbarazzo della scelta – a un’altra cultura, di provenienza nordafricana, ma ormai saldamente radicata nella zona. Couscous royal di carne mista oppure al pesce, tajine di verdura o carne, deliziosi dolci alla mandorla o al miele da gustare con tè alla menta (il meglio di tutto questo lo si trova al centrale ristorante algerino Le fémina di Marsiglia).

Lo sforzo di aggrapparsi al passato e alla terra cercando di preservarli intatti dalle contaminazioni, per nobile e poetico che sia, è destinato a perdere nella storia come in cucina.