L’uso “politico” del corpo femminile. La legge Merlin 60 anni dopo. Intervista a Liliosa Azara

Liliosa Azara è ricercatrice di Storia contemporanea e insegna Storia delle donne e Storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre. Ha recentemente pubblicato per Carocci il libro L’uso “politico” del corpo femminile. La legge Merlin tra nostalgia, moralismo ed emancipazione (Roma 2017). L’intervista è a cura di Eloisa Betti.

Puoi illustrarci la figura di Lina Merlin, Costituente e paladina a tutto tondo dei diritti delle donne?

Il grande impegno di Lina Merlin per il riconoscimento dei diritti delle donne si manifesta già in seno alla Costitutente, dove è eletta tra le 21 e inclusa tra i 75 cui è affidato di scrivere la Carta costituzionale. È in prima linea nella lotta per l’affermazione dei diritti delle donne in un’epoca in cui non erano riconosciuti neanche quelli primari, civili e politici. Si batte per l’inserimento dell’espressione “senza distinzione di sesso” nella formula dell’articolo 3 della redigenda Costituzione. Nel 1948 è una delle quattro donne elette al Senato, su 369 senatori, insieme con le comuniste Adele Bei Ciufoli e Rita Montagnana Togliatti e la compagna di partito, la socialista, Giuseppina Palumbo. Nella II legislatura Lina Merlin è la sola senatrice di un’Assemblea che ha 267 membri. All’avvio della I legislatura repubblicana, nell’agosto del 1948, presenta la proposta di legge che condurrà dieci anni più tardi, all’abolizione della regolamentazione della prostituzione, in vigore nel nostro Paese dal 1859. In verità, come la stessa Lina Merlin dichiarerà in un’intervista a Enzo Biagi, nel 1969, all’origine della proposta di legge c’è un uomo, il deputato democristiano Beniamino De Maria, il quale aveva più volte espresso la necessità che un Parlamento democratico abolisse le “case chiuse”. Ma è solo a seguito di una visita di una delegazione dell’Alleanza femminile internazionale che chiede di poter interloquire con l’allora Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi per sottoporgli la necessità ormai inderogabile di abolire il sistema regolamentare che Lina Merlin si consulta con il senatore Umberto Terracini,  il quale la sollecita a presentare una legge, ritenendo che si trattasse di una questione eminentemente femminile. A partire da questo episodio l’impegno della senatrice sarà rivolto a studiare il fenomeno, documentandosi su fonti italiane e straniere, guardando soprattutto all’esempio della Francia che grazie all’azione di Marthe Richard, aveva provveduto ad abolire la regolamentazione nel 1946. Il principio ispiratore che muove l’iniziativa di Lina Merlin risiede nella convinzione profonda che il mantenimento di tante donne nelle case chiuse in una condizione di sfruttamento economico, di limitazione della libertà e di mortificazione della dignità personale, con l’assenso e la complicità dello Stato che codifica il doppio dispositivo di controllo, amministrativo-poliziesco e igienico-sanitario, costituisca una contraddizione evidente con lo spirito e la lettera della Costituzione e, in particolare, con l’articolo 3, per il quale si era tanto battuta. Il decennale iter legislativo è una lunga battaglia, quasi isolata, in cui Lina Merlin deve confrontarsi con forze e gruppi di pressione interni al Paese che esercitano una indubbia influenza sulla pubblica opinione, divisa tra regolamentasti e abolizionisti. Basti ricordare l’azione svolta dall’Aneca (Associazione nazionale esercenti case autorizzate), una sorta di comitato di sostegno alle “case chiuse”, con una sede a Milano, in un grande palazzo di Corso Vittorio Veneto, che associa, nel 1949, 400 imprenditori con un giro d’affari di 14 miliardi l’anno e, soprattutto, capace di stanziare ingenti somme per le spese di propaganda. Anna Garofalo, definì il disegno di legge Merlin come “la prima bomba che scoppia in Parlamento, lanciata da mani femminili”. La proposta sancisce che la registrazione negli elenchi della polizia costituisce una degradazione della dignità femminile, perché né la registrazione né le conseguenze gravano mai sul partner della prostituta, ma solo sulla donna e i suoi familiari. L’abolizione del dispositivo regolamentare, quindi, fa cessare una vera e propria forma di schiavitù. Solo l’Italia, insieme con l’Austria e il Portogallo, conservava una regolamentazione statale.

La costituzione in associazione da parte dei tenutari è anche la risposta alla circolare che Mario Scelba adotta nel giugno del 1948. Una circolare che eliminava un atto che fino ad allora costituiva una vera e propria investitura nella “carriera di un tenutario”: il cittadino italiano che intendeva aprire un locale di prostituzione doveva farne richiesta alla sua questura. Al momento di ottenere l’autorizzazione, il nuovo tenutario firmava una dichiarazione, “atto di sottomissione”. Perdeva i diritti elettorali attivi e passivi e pagava una tassa di concessione governativa di 200.000 lire l’anno. Alla morte del concessionario, l’autorizzazione non si trasferiva ai suoi eredi. La disposizione di Mario Scelba, che vietava alle questure, su tutto il territorio nazionale, di concedere nuove autorizzazioni per l’apertura di case di tolleranza, aveva inaugurato un percorso che sia pure con grande lentezza, avrebbe condotto naturalmente verso la scomparsa delle case chiuse.

Qual è la percezione della donna (e della prostituta) nell’Italia degli anni Cinquanta?

Negli anni Cinquanta, in diversi considerano le case chiuse necessarie a “regolare” gli insopprimibili istinti maschili. Sono gli stessi a cui, nel corso del dibattito parlamentare, ormai giunto alle sue ultime battute, siamo nel gennaio del 1958, la deputata democristiana Gigliola Valandro replica che “è vero che l’istinto è forte, ma siamo convinti che non tutto il genere umano sia un gregge di porci”. Per spiegare la questione morale, occorre chiedersi quale sia la condizione della donna in questi stessi anni. Non la si può spiegare se non in relazione alla percezione che il genere maschile ha della donna. In questi stessi anni in cui si discute la legge Merlin, si sostiene a gran voce che l’educazione impartita ai figli maschi si informa a due principi apparentemente contraddittori: da un lato si insegna la prepotenza perché la donna, si dice, capisce e ama solo la forza, non desidera essere convinta ma comandata, è schiava per natura, rispetta solo la mano che la percuote. Evitare ogni segno di debolezza è essenziale e anche l’amore offerto dall’uomo deve essere di carattere concessivo. Dall’altro lato i ragazzi erano educati alla timidezza. La donna era qualcosa di complicato, di misterioso, diverso, con bisogni diversi, tra i quali, però, non era certamente contemplato il bisogno di soddisfare i propri istinti sessuali.  Un’indagine sul comportamento amoroso dei giovani, nel 1958, affronta il problema dell’educazione sessuale dei giovani italiani dai 12 ai 20 anni. Grazie ad un confronto con giovani americani, inglesi, scandinavi e francesi, si vuole capire la ragione di alcune anomalie, se non addirittura devianze che si riscontrano nelle prime esperienze erotico-sentimentali dei giovani italiani. Si delinea l’immagine di una realtà complessa e contraddittoria che sta cambiando, in cui è vero che esistono seduttori, rapitori di ragazze, giovanotti che infastidiscono ogni ragazza che incontrano sola per strada, dando vita al noto fenomeno del pappagallismo, ma esiste anche l’impiegato che vive nella grande città del Nord, lo studente, il giovane professionista, la dattilografa, l’operaio e il contadino più evoluto. Molti di questi giovani, attraverso viaggi all’estero, letture, film, conoscono atteggiamenti meno inibiti e si liberano lentamente di molti tabù che in passato condizionavano il loto comportamento sessuale e sentimentale. La strutture sociali diverse, la diversità da regione a regione di tradizioni e di cultura hanno reso impossibile una rivoluzione del costume simile a quella di altri paesi occidentali. Anche se dall’indagine che ho citato prima, emerge un’Italia che in cui le differenze regionali hanno minore rilievo, i giovani siciliani sembrano essere molto più vicini a quelli piemontesi di quanto non avvenisse in passato. L’educazione sessuale, tuttavia, si sviluppa in modo contraddittorio: da un lato l’atteggiamento agnostico dei genitori, dall’altro, le difficoltà dei giovani a risolvere le questioni di natura sessuale e sentimentale facendo ricorso alla tradizione. Il contributo delle madri italiane si esaurisce nell’ambito religioso, in cui sesso e peccato si equivalgono. Al maschio, invece, è riconosciuto una sorta di diritto acquisito a trovare il piacere sessuale. Dove è più facile. Una ricerca che spesso si indirizza alla sfera delle amicizie familiari, spesso si affida al caso o all’avventura, ma sempre meno fa ricorso alla frequentazione delle case chiuse. Viene, dunque, meno, in questa prospettiva il mito della casa chiusa come tempio della virilità maschile in cui avviene l’iniziazione sessuale dei giovani italiani che mostrano ormai una forma di indifferenza, se non addirittura di disprezzo verso le case di tolleranza. 

Quali furono i momenti salienti del dibattito sulla legge Merlin tra Parlamento e “paese reale”?

Le discussioni intorno alla legge Merlin affrontano i temi relativi all’abrogazione del regime di tolleranza e allo sfruttamento della prostituzione e quelli relativi alla salute pubblica e ripropongono per gran parte le stesse posizioni assunte circa un secolo prima, che accompagnarono i provvedimenti adottati dai governi postunitari. Le polemiche più accese si scatenano quando si parla di implicazioni igienico-sanitarie, determinate dalla diffusione delle malattie veneree. Il punto di vista è soprattutto maschile. La salute, la dignità, la libertà delle donne che sono i motivi che ispirano il disegno di legge, non sono quasi mai presi in considerazione. È evidente che le ragioni sono da attribuire alla stessa composizione del Senato nel corso della I legislatura. Come ho detto sono solo 4 senatrici, tra queste Lina Merlin che propone la legge. Nessuna delle altre prende la parola in Senato, durante la discussione, fatta eccezione per la socialista Giuseppina Palumbo che interviene in merito alla costituzione di un corpo speciale femminile addetto alla prevenzione della delinquenza minorile e della prostituzione. Nel dopoguerra, in Italia, sono sorte diverse scuole di assistenza sociale, frequentate prevalentemente da ragazze. Le allieve studiano discipline sociali e giuridiche e questo, a giudizio della Palumbo, le rende particolarmente adatte a svolgere le funzioni richieste al corpo di polizia femminile la cui costituzione è prevista da un articolo della legge Merlin. Il disegno di legge Merlin crea una spaccatura non solo tra i partiti, ma anche all’interno dei partiti e soprattutto all’interno del Partito socialista. Il più accanito nemico di Lina Merlin, è il senatore socialdemocratico, Gaetano Pieraccini, medico esperto di igiene sociale che considera la prostituzione alla stregua di una malattia sociale. Il postribolo, sostiene Pieraccini, è un luogo vigilabile, aperto alle autorità sanitarie, grazie al quale il malcostume è sottratto agli occhi della gente perché le donne abitano in case le cui finestre sono chiuse con un lucchetto, se no addirittura murate. Pur dichiarando di non voler assimilare la prostituta al delinquente, la definisce “materiale di scorie sociali”. La casa chiusa, intesa come strumento di difesa sociale che contribuisce a ridurre la seduzione, gli abusi sessuali e gli stupri. La questione morale, in questo caso, è subordinata alle preoccupazioni di carattere igienico-sanitario.    

In seno alla Democrazia cristiana che assume una posizione abolizionista rispetto alla quale la dignità umana e l’autodeterminazione delle donne sono le questioni centrali, alcuni senatori si lasciano sedurre dalle teorie antropologiche positiviste. La prostituzione è un fenomeno inevitabile e Cesare Lombroso una gloria dell’umanità a cui si deve lo studio più importante che ha classificato la donna normale e la donna delinquente.  

Il dibattito in Parlamento si riverbera anche nel “paese reale”, suscitando reazioni dell’opinione pubblica italiana all’ipotesi di abrogazione della regolamentazione. I regolamentisti continuavano a considerare la prostituzione come una necessaria salvaguardia della vita familiare, sostenendo che un rapporto extraconiugale protetto salvasse il matrimonio più che una vera e propria relazione extraconiugale. La casa chiusa è dunque rappresentata come un danno necessario che preserva la “santità del focolare”, in un’Italia in cui, a giudicare, da un’inchiesta del 1951 dal titolo eloquente I vedovi del solleone, il 66 per cento dei mariti italiani frequenta le case chiuse quando la moglie è in vacanza.

Quali storie di vita emergono dalle case chiuse degli anni Cinquanta?

Sono le storie delle ragazze e delle donne ospiti nelle case chiuse, molte delle quali decidono di venire allo scoperto negli anni in cui la proposta di legge è in discussione e di denunciare lo sfruttamento a cui sono sottoposte. Rappresentano uno spaccato drammatico dell’Italia del dopoguerra. Sono quelle che verranno definite Voci dietro le persiane, di donne che abitano una città sotterranea dove mantengono bambini, sorelle e vecchi e appagano il desiderio di denaro di sfruttatori.

Le lettere dalle case chiuse costituiscono la prova che non solo le femministe, ma anche le prostitute desiderano la fine della regolamentazione. Si lamentano delle vessazioni che subiscono dalla polizia, non dimentichiamo che si tratta di un duplice dispositivo di sorveglianza: amministrativo e poliziesco, da una parte e sanitario, dall’altra, il tutto contribuisce a definire una sorta di struttura totale e totalizzante all’interno della casa chiusa.

La vita di una prostituta regolare, infatti, inizia con il rilascio della carta di lavoro che è il libretto sanitario, una piccola cartella medica, nella quale sono segnate le visite, le malattie e le cure a cui una donna sia stata sottoposta. Per coloro che sostengono che il postribolo sia uno strumento di difesa sociale che contribuisce a ridurre la seduzione, gli abusi sessuali e gli stupri, il libretto sanitario rappresenta una sorta di certificazione, quasi una garanzia di “merce non avariata” che conferisce loro maggiore attrattiva e un più altro credito sul mercato. Le ragazze si lamentano anche delle tariffe mediche eccessive, delle difficoltà incontrate nel tentativo di farsi cancellare dalle liste di polizia, dell’impossibilità di ottenere un altro tipo di impiego a causa dello stigma della registrazione e degli ostacoli incontrati dai loro fidanzati, anche se agenti di polizia o militari, per ricevere il necessario permesso per sposarsi.  

Queste lettere rafforzano la convinzione di Lina Merlin di aver agito nell’interesse del Paese, proponendo che le leggi dello Stato si adeguino ai principi dell’etica moderna. Le voci delle prostitute narrano storie comuni di miseria, violenza domestica, abbandoni, figli illegittimi, all’origine dell’ingresso nella casa chiusa. In alcune lettere, si denuncia il ritmo di lavoro serrato nelle case: venti-trenta uomini al giorno, in alcuni casi, più di 40 rapporti, in altri casi. Lina Merlin, offre una sua testimonianza diretta che proviene dall’aver condotto un’inchiesta a Modena e Roma, e denuncia lo sfruttamento logorante e il ritmo di lavoro estenuante che costringe le donne a sbrigare cento clienti al giorno, o meglio “cento colloqui”, come preferiva definirli. 

Sono, inoltre, da tenere in conto, gli oneri finanziari a carico delle donne: oltre la tassa di ingresso, la pensione giornaliera, le cure mediche e i medicinali, il sovraprezzo sugli abiti che le donne sono costrette ad acquistare per le serate eleganti, sui prodotti per l’igiene personale e intima, sugli stupefacenti, largamente diffusi, le mance al personale di servizio e spesso il souteneur che non è l’amico del cuore della prostituta, ma l’aguzzino che le prosciuga i guadagni e le accumula i debiti, quello che a Roma, con un linguaggio colorito, sarà definito pappone, magnaccia e ciancica.

Poi ci sono gli orari rigidi che costringono le donne ad uno stato di disponibilità permanente: dalle 10 alle 13, dalle 14 alle 20 e dalle 21 alle 24. Solo il tempo necessario per lavarsi e per mangiare. Mangiano molto poco, in realtà, spesso sono mal nutrite e spesso debbono procurarsi del cibo all’esterno, per nutrirsi a sufficienza. Le ragazze raccontano nelle loro lettere che solo quando è annunciata un’ispezione della pubblica sicurezza, allora i “padroni” provvedono a far cambiare le lenzuola, a riempire la ghiacciaia di carne perché tutto appaia perfetto e non si rischi la sospensione della licenza.  

Alcune case non sono controllate dal medico provinciale che dovrebbe garantire le visite bisettimanali e per le ospiti i queste case le malattie veneree sono considerate quasi malattie di lusso. A chi subisce un contagio non resta altro che affidarsi alle cure costosissime di uno specialista privato. Si rifugge da ospedali e ambulatori per non essere sottoposte a umilianti, pubbliche trafile, a lunghi inquisitori interrogatori, ripetendo più volte davanti a personale diverso, nome, cognome, indirizzo e professione.

Le lettere descrivono il calvario di chi contrae “il terribile male”, a causa dei contatti con i clienti, divenendo vittime di un’assistenza medica privata e clientelare, talvolta al confine con l’illegalità nella somministrazione delle cure: “Per tenerci buono il medico della casa, dobbiamo andare a casa sua dove paghiamo per una sola puntura lire 1000, e questi medici pretendono di persistere nella cura anche quando dovrebbe essere sospesa, intossicandoci e arrecandoci talvolta conseguenze gravi” – scrivono alcune ragazze.  

Un motivo di forte preoccupazione, infine, è l’aver raggiunto la soglia di età tra i 30 e i 35 anni in cui nessuno le vuole più, perché gli uomini preferiscono le ragazze giovani. Raggiunti i 40 anni si precipita verso le case di categoria sempre inferiore, dove anche i guadagni sono nettamente inferiori, e, dunque, prive di mezzi, si rischia di non poterne uscire più. Insomma, sono prigioni libere, come alcune prostitute le definiscono, che spesso hanno rappresentato la spiaggia su cui approdare, dopo vicende personali e familiari drammatiche, e poi gabbie esistenziali da cui non si esce.

Non è un caso che in alcuni messaggi a Lina Merlin – raccolti nel libro Lettere dalle case chiuse, uscito nel 1955 e oggi disponibile sul sito della Fondazione Anna Kuliscioff, le ragazze considerano la senatrice socialista come una salvatrice. Le scrive una di loro: “Mi affido alla vostra grazia perché è l’ultima porta a cui posso bussare…”.

Quale attualità e anacronismo della legge Merlin nel sessantesimo anniversario dell’approvazione?

In un momento in cui paesi come l’Olanda e la Germania – dove da decenni esistono bordelli regolamentati – stanno rivedendo la loro posizione, in Italia si parla di reintrodurre la prostituzione regolamentata. In verità, la legge Merlin, fin da subito, è stata tormentata da proposte di revisione e da emendamenti ai quali Lina Merlin si è opposta fermamente, almeno fino a quando è stata nella posizione di farlo. Sono decine le interrogazioni parlamentari, alcune delle quali rimaste inevase, e sono decine gli esposti anonimi e non, provenienti dalla società civile e dal mondo cattolico che inondano gli uffici della Pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno, con cui si chiedeva di abolire l’abolizione delle case chiuse. Sono ben otto le eccezioni di incostituzionalità sollevate nei decenni intercorsi dall’entrata in vigore della legge ad oggi, l’ultima risale al febbraio 2018.

Si tratta di capire se chi oggi propone una nuova regolamentazione abbia tenuto in conto le profonde trasformazioni intervenute nel mondo della prostituzione, che risalgono già al tempo in cui le case chiuse esistevano. La prostituzione clandestina, infatti, era già di gran lunga maggioritaria quando Lina Merlin propose la legge.

Oggi il fenomeno è riconducibile alla grande piaga della tratta delle donne, che non è come si pensava un tempo, un fenomeno sospeso tra mito e realtà e non è neppure circoscritto a un racket nazionale della prostituzione che irretisce ragazze scritturate per spettacoli teatrali e balletti che fanno capo a scuole di danza da cui non usciranno mai ballerine, come accadeva negli Sessanta. Regolamentare la prostituzione, oggi, significa non solo venire meno ai principi di uno Stato etico la cui ambizione non può essere quella di tornare ad essere uno Stato lenone, ma significa, in qualche modo, legalizzare la tratta e legittimare una delle più grandi violazioni della dignità umana che si traduce in crimine.