Stadi d’Italia. La storia del calcio italiano attraverso i suoi templi. Intervista a Sandro Solinas

Da alcuni mesi è stata data alle stampe la nuova edizione di Stadi d’Italia un volume già da diversi anni conosciuto e apprezzato dagli appassionati di calcio ed ora ampliato con oltre duecento impianti, alcuni celeberrimi altri quasi sconosciuti. Un viaggio appassionante attraverso un aspetto poco narrato della storia dello sport più amato in Italia. Abbiamo posto qualche domanda all’autore Sandro Solinas. L’intervista è a cura di Matteo Troilo.

Come nasce l’idea di scrivere un libro di questo tipo?

Fin da bambino ho sempre avvertito forte il fascino degli spalti, il richiamo di tribune e gradinate, a partire da quelle dell’Arena Garibaldi che fissavo mentre Pisa e Livorno se le davano di santa ragione sul campo. Seguivo gli spostamenti di mio padre, allora pilota militare, e finivo per affezionarmi non alle squadre, ma agli stadi. “Girovago come un calciatore, appassionato di stadi come un ultrà. Senza essere né l’uno né l’altro, la vita di Sandro Solinas sembra persino essere stata scritta in funzione del suo libro”. Così dieci anni fa riportava un articolo di presentazione ed è una descrizione in cui mi riconosco in buona parte. La storia degli stadi è una gran bella storia, perché non raccontarla? “Il mondo è fatto per finire in un bel libro” diceva Mallarmé, ed è proprio così. Una storia molto italiana, forse segnata da errori, sprechi, degrado, eccessi ed approssimazione, ma anche ricca di gloria e talento. La loro storia, la nostra storia.

Per quanto tempo vi hai lavorato e quali fonti hai utilizzato?

Sei lunghi anni per la prima edizione del 2008 pubblicata dall’editore Bonanno di Acireale, poi ho continuato ad aggiornare i contenuti dando vita ad altre edizioni, come quella del 2012 pubblicata da Goalbook Edizioni di Pisa e per l’appunto quella uscita da poco. Un lavoro di ricerca reso difficile dalla quasi totale assenza di documenti di riferimento, estremamente lacunosi e frammentari. La rete mi ha aiutato molto, prima dell’avvento dei social network la tribù del calcio si incontrava (e scontrava) nei forum e sulle tante pagine web delle tifoserie; poi moltissimi libri sulla storia delle squadre, qui la letteratura abbonda, i documenti degli uffici tecnici comunali, le note inviatemi dagli addetti stampa delle società. Il lavoro più duro è stato proprio verificare e rendere omogeneo il contenuto della documentazione, proveniente da un numero assai consistente di fonti, tutte regolarmente citate, quando necessario. È stato inoltre interessante recuperare anche l’antica tradizione orale, ascoltando le memorie dei tifosi più attempati, recuperando così aneddoti, a volte davvero improbabili, costruiti su memorie sempre più lontane aiutate – temo – da immaginazione e fantasiose ricostruzioni. Per le immagini (l’apparato iconografico è veramente notevole, ndr), in particolare quelle d’epoca, ho invece chiesto aiuto ad alcuni collezionisti di cartoline.

Dal libro vengono fuori cose inaspettate come il fatto che molti campi sportivi delle origini poggiano letteralmente sulle rovine di vecchie piazze d’armi.

Sì, i pionieri del calcio – non solo in Italia – si dovettero arrangiare con i pochi spazi offerti dalle città a cavallo del Novecento. Gli spazi aperti erano numerosi, ma quasi inesistenti risultavano le aree attrezzate per un’attività ludico-sportiva di fatto sconosciuta. La piazza d’Armi, luogo extra civico di antica memoria romana da destinarsi alle esercitazioni militari, era la scelta più comoda. In alternativa, il più delle volte, si giocava al foro boario, con tutti i limiti del caso. Anche a Genova e Torino, dove di fatto nacque il nostro foot-ball, i primi calci furono tirati sulla piazza d’armi. Nel capoluogo ligure si trovava al Campasso, dove i marinai delle navi inglesi ormeggiate in porto erano soliti ritrovarsi, nel tratto di Via Walter Fillak verso la Certosa più o meno corrispondente all’attuale ponte sopraelevato dell’autostrada; a Torino lo spiazzo militare cambiò più volte ubicazione e dimensioni, all’epoca rimaneva situato tra i corsi Galileo Ferraris e Umberto I (oggi Duca degli Abruzzi). Qui si esibirono inizialmente la Juventus e le tre società torinesi (Internazionale F.C., Società Ginnastica Torinese, F.C. Torinese) che contesero inutilmente al Genoa il primo titolo nazionale, assegnato dopo un torneo disputato nel capoluogo piemontese in un’unica giornata l’8 maggio 1898. Le gare furono tuttavia giocate sul terreno del vicino Velodromo Umberto I, posto in prossimità dell’attuale ospedale Mauriziano del quartiere Crocetta, lungo l’omonimo corso.

Un periodo fondamentale è il ventennio fascista, a quell’epoca risalgono molti impianti storici ancora funzionanti.

Attraverso le grandi opere lo Stato, nelle sue diverse forme politiche, ha sempre celebrato la sua forza rendendola visibile all’esterno. Ovunque ma in particolare in Italia dove il regime di Mussolini cercò di riprendere l’ideale futurista che esaltava l’educazione fisica formando l’idea di uno Stato nuovo, energico e contrapposto all’ammuffito modello liberale. Il contenuto virile dello sport si accostava all’attività militare e all’esaltazione dei valori nazionalistici, caratteristiche irrinunciabili per l’Italiano Nuovo voluto dal regime. Lo sport divenne parte integrante della formazione politica delle masse, anche per il conseguimento ed il rafforzamento del consenso. Alla diffusione dello sport faceva tuttavia riscontro una carenza di impianti sportivi di base. Tra il 1927 e il 1929 vi fu così un’alacre attività costruttiva, 2.400 campi (il 15% della spesa in opere pubbliche) utile anche per alleviare la crisi derivante dalla forte rivalutazione della lira. La costruzione di campi sportivi operò come intervento anticongiunturale. Poi, sul finire degli anni Venti, si presentò la necessità di poter contare su affermati campioni dello sport ammirati dalle masse. Così lo sforzo edilizio fascista si spostò dagli impianti di base alle grandi arene, nelle loro svariate forme; non solo stadi, anche velodromi, autodromi, piscine, palazzi dello sport, istituti di educazione fisica e medicina sportiva. Le arene fasciste, con la loro grandiosità monumentale, venivano concepite come parte integrante della liturgia fascista che non si limitava ai riti politici, ma abbracciava altre dimensioni della vita collettiva, tra cui appunto lo sport. Caduto il fascismo, l’edilizia e la politica non portarono avanti un progetto sistematico sugli stadi, dal dopoguerra in poi gli interventi furono indipendenti tra loro e si svilupparono in differenti direzioni generando un’ampia varietà ma dimostrando sempre ben poca attenzione per le infrastrutture, per mancanza di visione e per l’incapacità di valorizzare gli impianti esistenti.

Altro momento chiave è Italia 90, che però nonostante i tanti soldi spesi ha portato ad alcuni pessimi risultati come il San Nicola di Bari e il Delle Alpi di Torino, ma anche restyling discutibili come il Dall’Ara di Bologna.

È così, lo sciagurato Mondiale del ’90 è ricordato ancora per gli impianti nati già vecchi, lo sperpero di denaro pubblico e la scarsa lungimiranza per la fase post-evento. E da allora è cambiato ben poco, sostanzialmente interventi per la messa in sicurezza, a colpi di decreto e deroghe del prefetto, quasi sempre sull’onda emotiva di fatti incresciosi, come l’omicidio dell’ispettore Raciti del 2007. Qualcosa ora si muove, però.

Come sarà secondo te lo stadio del futuro?

Cambiano le forme, cambiano i materiali, ma la funzione dello stadio resta la stessa, sebbene calata in un contesto per molti versi mutato. Come i circhi e gli anfiteatri nell’antichità classica, le arene sono ancora oggi i luoghi urbani deputati ad ospitare gli spettacoli sportivi e le manifestazioni di massa. Ieri il Circo Massimo, oggi l’Olimpico, domani chissà. “Guai a quella città che non trova posto per il tempio”, ammoniva Demostene. Come scrivo nella prefazione “Arriveranno nuovi stadi, si giocherà altrove, forse in un contesto sociale ed urbano del tutto inedito, all’interno di moderne e ardite strutture dove – tra invadenti telecamere e connessioni ultraveloci, confortevoli seggiolini e terreni sintetici di ultima generazione – troveranno spazio le future ambizioni sportive degli atleti italiani e, con esse, nuove emozioni di polvere e sudore destinate per sempre a convivere con i nostri sogni di ieri. Voltarsi un’ultima volta per guardare con fiducia al domani, gettando lo sguardo oltre i tanti problemi che da tempo travagliano i nostri stadi, tra i più vuoti e obsoleti del Continente, eppure affascinanti come pochi altri, forti della storia, della tradizione e dei ricordi che accompagnano. Un irresistibile charme fuori dal tempo, l’acre odore inebriante delle mille sfide infernali che ogni campo polveroso porta con sé, trascinandolo tra gli spalti al centro del cuore di ogni tifoso. L’unica vera arena che conta. Amatela. Rispettatela. Bramatela”.

Cosa c’è di nuovo in questa edizione del libro?

Stadi d’Italia è un lungo viaggio della memoria senza un vero principio e una vera fine. Del resto il libro si apre con le parole di Borges che ci ricordano come ogni volta che un bambino prende qualcosa per la strada lì ricomincia la storia del calcio. Cambiano e si aggiornano i protagonisti di questo lungo racconto, ma non muta lo spirito che da sempre alimenta e dà un senso al libro, il desiderio di vincere l’oblio calato sui nostri stadi, dimenticati senza un vero perché, pur essendo lo scrigno dei ricordi e delle emozioni per intere generazioni di italiani. È un cammino che si rigenera, peraltro, perché ogni edizione viene ampliata con nuove città, nuovi stadi, nuove storie. E le storie dentro ogni storia. Sono oltre cinquanta le città aggiunte in questa nuova edizione del libro; alcune legate all’ingresso, o al ritorno, delle squadre locali nel calcio professionistico (Mestre, Arzachena, Bisceglie, Lentini, Ponsacco, Gavorrano, Santarcangelo di Romagna ecc.), altre inserite come doveroso omaggio al glorioso passato delle loro arene (Torre del Greco, Trani, Gorizia, Seregno, Jesi, ecc.); altre ancora senza un vero perché, se non quello dell’interesse e della curiosità che suscitano in me e – spero – in chi ne leggerà: Sondrio, Montecatini Terme, Oristano… senza dimenticare veri e propri gioielli nascosti, come Terracina, Orbetello e Piombino, poco conosciuti ma estremamente ricchi di storia.

Perché la nuova edizione è autoprodotta?

Già, perché? Da oltre cinque anni il libro non era più in commercio e, di fatto, per molti lettori interessati rimaneva inarrivabile. Dopo la seconda versione del 2012 uscirono alcune eleganti edizioni speciali, curate dal Credito Sportivo nel 2013 e nel 2017, ma vennero riservate a soci e partner dell’istituto passando inosservate tra la tribù del calcio. Così tra ritardi, indecisioni e indifferenza da parte di quegli ambienti che a mio avviso più di altri dovrebbero invece sostenere, promuovere e valorizzare certe ricerche come patrimonio di conoscenza della cultura sportiva italiana, decisi di fare da me, occupandomi in prima persona dell’impaginazione, della stampa, del finanziamento, della promozione, dei pagamenti e dei rapporti con i media. Una faticaccia, ma ne valeva la pena.

Perché secondo te in Italia è calato drasticamente il numero di spettatori negli stadi?

Per tanti motivi. Senz’altro l’oggettiva mancanza di investimenti in infrastrutture e servizi, l’assenza di una visione di lungo periodo e di una dirigenza in grado di comprendere tale situazione hanno comportato una gestione fallimentare degli stadi di calcio italiani che, protrattasi per anni, è divenuta una delle principali cause del vistoso calo di spettatori riscontrato in Italia nell’ultimo decennio. Poi ci sono le grosse responsabilità di chi ha voluto l’overdose di calcio in televisione, ossigeno per i club ma una svolta letale per i tifosi, vincolati sempre di più al divano di casa che non alle gradinate degli spalti. Ma ci sono diversi altri fattori che hanno concorso a svuotare gli stadi, non ultimo il modesto spettacolo offerto dalle squadre sul campo, la sensazione sempre più forte che i risultati siano di fatto decisi altrove, il preoccupante sradicamento delle squadre dal territorio e dalla comunità, tra titoli in vendita, disinvolti trasferimenti, società nomadi, loghi spersonalizzati e cattedrali nel deserto. Ci sono inoltre le molte difficoltà, i costi e le restrizioni per l’acquisto del biglietto. A Londra e a Berlino il tifoso gode di un rispetto e di un trattamento sconosciuto alle nostre latitudini. Non è un potenziale delinquente ma una reale risorsa.

Come ti spieghi che in Italia il calcio è così seguito ma scarsa è l’attenzione per gli stadi?

Perché lo stadio è il terreno sacro della tribù del calcio, che – come ci ricorda un osservatore della società attento e mai banale come Massimo Fini – è luogo lontano anni luce da chi ha svuotato il calcio dei suoi contenuti identitari, rituali, mitici, simbolici, sentimentali che, al di là del gioco e dello spettacolo, hanno fatto la fortuna secolare di questo sport nazional-popolare: il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, nei suoi colori, nelle sue maglie, in certi giocatori-simbolo, nel suo carattere la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone, di padre in figlio, fra gli ‘anziani’ e i giovani del vivaio e della Primavera. Inoltre, ed è forse la cosa più grave, il calcio ha perso la sua funzione sociale, di sport interclassista dove allo stadio si trovavano insieme, fianco a fianco, tutti, l’imprenditore e il suo operaio, il manager e l’impiegato, l’artigiano e il suo ricco cliente. Come ieri al Circo massimo, tra plebe e senatori. Tutti accomunati dal desiderio di assistere a uno spettacolo e prendere parte a un rito collettivo.

Nel Regno Unito ma anche negli Stati Uniti il turismo degli stadi è molto diffuso. Gli appassionati visitano gli stadi e i musei annessi in gran numero. Secondo te c’è un futuro anche da noi?

Non più di tanto, quei pochi che abbiamo sono poca roba e in fondo, nonostante i nostri quattro titoli mondiali, non abbiamo neppure un vero e proprio museo del calcio. Siamo latini, mediterranei, la nostra vita è fatta di mercatini all’aperto, non avveniristici centri commerciali. E così per gli stadi, il bello – che attira tanti Groundhopper stranieri – è legato a quegli elementi, quei dettagli, che oggi non sappiamo più apprezzare e quasi nascondiamo. Quanti conoscono il suggestivo arco d’ingresso del Picco di La Spezia? L’inquietante doppia tribuna del Gabrielli di Rovigo? L’armonioso dinamismo delle scale elicoidali del vecchio stadio fiorentino? Il cupo fascino di certi nebbiosi pomeriggi invernali a San Siro o il bagno di storia dello stadio capitolino, tra marmi e obelischi (che ogni tanto qualcuno vorrebbe tirare giù)? Quanti tifosi possono dire di recarsi allo stadio attraversando un ponte costruito duemila anni fa?

Progetti per il futuro?

Vorrei finalmente terminare un vecchio progetto su cui sto lavorando da anni, Vecchi Spalti, storie di stadi che non sono più tra noi. Ancora stadi, ma in una prospettiva molto diversa, dando spazio a temi e linguaggi narrativi differenti. E poi c’è sempre l’idea di un programma a puntate per la televisione, il primo episodio è già stato realizzato, ma è un discorso impegnativo, difficile da portare avanti senza la collaborazione di chi governa il calcio.