Storia di Ettore Guatelli, fondatore di un museo

Balzac, nell’introduzione a Il cugino Pons (1847) scrive:

Nessuna noia, nessuno spleen resiste alla gioia che si posa sull’anima quando ci si abbandona a una mania. Voi tutti che non potete più brindare a quanto in tutti i tempi è stato definito “la coppa del piacere”, sforzatevi di collezionare qualsiasi cosa (si collezionano anche manifesti!), e ritroverete il prezioso lingotto della felicità ridotto in moneta spicciola. Una mania non è che il piacere sublimato allo stato di idea!1

Queste parole, dedicate alla figura di un collezionista maniaco dell’arte, per molti versi di adattano bene anche al caso di Ettore Guatelli (1921-2000), di cui ci occupiamo questa volta. Guatelli è stato un raccoglitore, un collezionista, un allestitore, un maestro, un inventore e un narratore; ed è stato tutto ciò essendo soprattutto un contadino. Ha frequentato per una vita rigattieri e discariche, cantine e case di montagna ormai abbandonate. Dalla sua mania di ri-cercatore è nato un museo, davvero unico nel suo genere, appunto il Museo Ettore Guatelli, un museo dell’ovvio e del quotidiano2. Vediamo di spiegare meglio.

Ettore Guatelli è nato e vissuto in una casa di campagna, a Ozzano Taro, sulle colline in provincia di Parma. Nella casa della sua famiglia, una famiglia di contadini, dopo la Seconda guerra mondiale ha iniziato ad accumulare, spinto da una curiosità irrefrenabile e da un’ansia vorace, oggetti umili o anche solo frammenti di oggetti: vecchi attrezzi agricoli, barattoli, scatole, vetri, ceramiche, orologi e, in particolare, tutto ciò che proveniva da una produzione preindustriale. Guatelli ha girato per decenni, in una ricerca onnivora di tutto ciò che era possibile recuperare e stivare negli spazi liberi della sua casa. Tutto quell’ammasso indistinto di cose si è poi trasformato con gli anni in un vero e proprio “esperimento”: creare una esposizione, mai conclusa e mai definitiva, di un mondo, povero e marginale come quello contadino, con i suoi bisogni e con le soluzioni ai problemi concreti della vita e del lavoro. Gli oggetti per Guatelli sono stati anzitutto dei testimoni di una cultura che, nella seconda metà del Novecento, è rapidamente tramontata, fino a scomparire. Da contadino – e senza avere lo stile del “ricercatore metodico”, egli ha cercato di strappare all’oblio il maggior numero possibile di tracce di un passato che era la sua vita:

Guatelli, partendo dalla sua posizione di subalternità al mondo delle campagne e a quello borghese, mantenne sempre vivo in sé, per prima cosa, lo stupore, la capacità di meravigliarsi, di ascoltare racconti e conservarne memoria, perciò gli oggetti dalla parola venivano vivificati e resi di nuovo utili3.

Si è trattato di una accumulazione sempre meno caotica e sempre più ordinata. Oggi possiamo visitare quel luogo, coinvolgente e inquietante a un tempo, che è il Museo Guatelli. La struttura, di proprietà della Provincia di Parma, è stata riaperta nel 2004, dopo la creazione di una Fondazione per la tutela di quello strano, sterminato patrimonio (si parla di 60.000 pezzi, ma nessuno sa con precisione il numero di oggetti che vi si trovano).

L’accumulo ben ordinato di oggetti, che sin da subito affolla ogni parete, ha il valore di una dichiarazione, quasi un voler stabilire, senza mezzi termini, un patto con il visitatore. […] Fedele a un’intuizione originale, quando altri, e i più, intendevano il pubblico quale mero visitatore da informare e, nella migliore delle ipotesi, da educare, Ettore Guatelli nel suo esperimento di museo, ammetteva e gradiva, nella provocazione di incontri mai scontati, mai “preparati”, solo un pubblico disposto a rispondere e ad accettare la sfida del viaggio fra le cose e le storie partecipando ai dialoghi ispirati e promossi da un autore sempre teso alla ricerca di nuove storie e “cronache della e dalla materialità”4.

Dunque, in quelle stanze, organizzati dallo stesso Guatelli per temi, in un lavoro di continuo aggiornamento che soltanto la morte ha fermato, gli oggetti, banali, trascurabili, sorpassati, “esplodono” con la loro presenza5. Si tratta di un “collezionismo povero” senza dubbio, dedicato non però a una cultura particolare – non è, in altre parole, uno dei tanti musei della civiltà contadina che troviamo nella Valle Padana – ma proprio al mondo degli oggetti. La “voracità” di Guatelli, al tempo stesso metodica e sregolata, ha fatto nascere un museo da una casa quasi spontaneamente, ma senza che nascesse poi una “casa-museo”.

L’esposizione non ha una data di nascita sicura. La passione di Guatelli iniziò a interessare studiosi, collezionisti e curiosi verso la metà degli anni Settanta, ma è stato soltanto con la seconda metà degli anni Ottanta che questo progetto ha cominciato a godere di una vera popolarità:

Non c’è dubbio che tra il 1977 e il 1987 sia la comunità locale sia l’amministrazione provinciale di Parma sia gli studi universitari hanno deluso l’attesa di Guatelli di vedere valorizzato il suo lavoro. I suoi scritti di museografia hanno traccia di una polemica sia contro la cultura accademica sia contro il disinteresse delle amministrazioni pubbliche e degli stessi ex contadini verso la ricerca di Guatelli, un disinteresse che lo isola, e fa sì ch’egli venga “scoperto” in quegli anni, da varie “antenne”, piuttosto come un personaggio originale, un antico saggio contadino6.

Guatelli ha dovuto passare lunghi anni di frustrazione e di delusione: la sua “utopia” (salvare dalla morte le cose dei poveri, i loro strumenti, la loro quotidianità, la loro fantasia) ha fatto molta fatica ad essere compresa e, specialmente, proprio da parte di coloro che appartenevano (o erano appartenuti) a quel mondo. Così scrisse lo stesso Guatelli nel 1986:

Già adesso i visitatori (da tutta Italia e dal mondo, pochi da Parma e pochissime dalle nostre parti) salvo poche eccezioni non sono in genere coloro che questi oggetti han costruito e usato (né loro figli o nipoti), ma studiosi, gente di cultura diversa, persone di altri ceti e di altre classi. Perché? È come se si avesse paura di doversi vergognare a rispecchiarsi in un passato che riporti al ricordo di condizioni così diverse da quelle di oggi7.

La passione di Guatelli non ha avuto vita facile a casa sua. Gli oggetti raccolti hanno dovuto “conquistarsi” il proprio spazio, contendendolo in qualche modo alla vita quotidiana degli altri familiari (i genitori e poi i fratelli di Ettore, che lavoravano la terra). Occorre ora considerare un aspetto non semplice della vita di Guatelli. Egli, pur appartenendo a una famiglia di contadini, non poté mai fare il contadino, a causa di precarie condizioni di salute (soffrì di tubercolosi ossea, trascorrendo lunghi periodi in sanatorio) e di una costituzione fisica assai fragile. La vita di Guatelli è stata segnata da questa diversità, da questa incapacità a lavorare come gli altri (e come gli altri si aspettavano da lui): da ciò derivò un radicale senso di non-appartenenza e, di conseguenza, di solitudine8. Guatelli patì senza dubbio un disagio che lo spinse a cercare altrove nuove possibilità di realizzazione. Questa passione per gli oggetti, che lo accompagnò fin da giovane, conquistò col tempo sempre più senso e giustificazione:

Il collezionare sembra, in conclusione, un’attività frutto dello sviluppo che non termina con l’età adulta e prosegue tutta la vita. Forse determinata dal bisogno di riflettersi in un universo concreto e palpabile per non smarrire la propria identità; forse caricata da bisogni infantili, da affetti frustrati e da fantasie magiche; forse mossa dalla pulsione narcisistica di esibirsi insieme o accanto alle cose, e per questa via sentirsi ammirati; forse manifestazione di una creatività che non ha potuto esprimersi in altre vicende della vita9.

D’altra parte, si trattava di un comportamento che, soprattutto agli inizi, non poteva passare inosservato. In questo senso, il caso di Guatelli è stato avvicinato a una forma di disposofobia, o disturbo di accumulo compulsivo, come viene indicata oggi nei manuali di psichiatria. Si tratta di un disturbo oggi ben conosciuto e non poco diffuso: è stato calcolato che, in forme più o meno accentuate, ne soffra attualmente una quota fra il 2 e il 5% della popolazione degli Stati Uniti. Disposofobia comporta, in estrema sintesi, lo sviluppare un legame con gli oggetti, dai quali diventa impossibile separarsi, un legame che può diventare così forte da pregiudicare il normale svolgimento della vita adulta. Si tratta allora di un accumulare patologico, per cui la propria casa, la propria automobile, il proprio giardino si trasformano in depositi di oggetti all’apparenza inutili, ma di cui è impossibile separarsi, anche se si tratta di rifiuti o quasi, come vecchi giornali, scontrini della spesa, buste di plastica ecc. Non siamo in questo caso davanti a un semplice collezionismo, ovviamente, ma ad una patologia che, senza dubbio, può essere alimentata dallo stile di vita e di consumo dominanti nelle società occidentali, in cui l’acquisto e il possesso degli oggetti è continuamente stimolato, anche se non sono mai mancati casi, in un passato più o meno recente, come quello dei fratelli Collyer10.

Dobbiamo comunque considerare bene le peculiarità del caso di Ettore Guatelli, il quale non si limitò certo ad accumulare cose, ma volle rielaborare in un vero e proprio progetto espositivo la propria “mania”. A differenza del normale accumulatore compulsivo, Guatelli decise di esporre il proprio patrimonio, di renderlo visibile, non isolandosi dal mondo. In altri termini, non si può certo liquidare la storia eccezionale di Guatelli come un caso psichiatrico. Anzi, questa sua volontà di creare un museo e di manifestarsi in un certo qual modo attraverso la sua infinita collezione, mi ha fatto tornare in mente il caso di un altro collezionista, Eduard Fuchs, del quale ha scritto, come è noto, Walter Benjamin. Anche Fuchs si dedicava alla ricerca di oggetti insoliti, desueti, “marginali” e, tutto sommato, disprezzati. E anche Fuchs non era un collezionista “solitario”, non nascondeva il proprio tesoro, ma voleva farlo conoscere11. Nel saggio su Fuchs, ma anche in altri scritti, Benjamin si è occupato della mania propria dei collezionisti. Ad esempio, leggiamo nei passages di Parigi:

Ciò che nel collezionismo è decisivo, è che l’oggetto sia sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto più stretto possibile con gli oggetti a lui simili. Questo rapporto è l’esatto opposto dell’utilità, e stato sotto la singolare categoria della completezza. Cos’è poi questa «completezza»? Un grandioso tentativo di superare l’assoluta irrazionalità della semplice presenza dell’oggetto mediante il suo inserimento in un nuovo ordine storico appositamente creato: la collezione. E per il vero collezionista ogni singola cosa giunge a diventare un’enciclopedia di tutte le scienze dell’epoca, del paesaggio, dell’industria, del proprietario da cui proviene12.

Il fine ultimo di chi colleziona è dunque quello di raggiungere la completezza, ossia di costruire una vera e propria enciclopedia; di più, ambisce a salvaguardare il passato di ogni pezzo, la sua origine, ogni dettaglio, in un vero e proprio “cerchio magico”, a salvaguardare cioè, collezionando, l’incantesimo del singolo oggetto recuperato, dissepolto e fatto rivivere. Il collezionista, ancora secondo Benjamin, «usa la propria passione come la bacchetta del rabdomante, che gli permette di scoprire fonti nuove»13. Infine, ci interessa un’altra notazione di Benjamin a proposito di Guatelli: «Il collezionismo è un fenomeno originario dello studio: lo studente colleziona sapere»14. Come vedremo fra poco, gli oggetti sono stati per Guatelli anche e soprattutto degli strumenti didattici e dei veicoli di conoscenza. L’altra grande passione (e il suo mestiere) è stato infatti l’insegnamento. La vita di Guatelli è stata a lungo “precaria” e, anche per questa ragione, per poter recuperare qualche soldo, iniziò a frequentare rottamai, straccivendoli e rigattieri. Non potendo sopportare la fatica dei lavori agricoli, lavorò da diverse parti e anche, appunto, nel campo dei residuati bellici. Ha raccontato lo stesso Guatelli:

Inizialmente ho raccolto per riutilizzare. Ai contadini fa caso tutto. Dai rigattieri vedevo cose che potevano servire; prendevo ad ogni volta e senza misura: pinze, martelli, congegni… Speravo sempre che l’ultimo fosse il migliore. Era la premessa del museo che allora non sapevo avrei fatto. I nostri vecchi carri avevano le ruote dai cerchioni di ferro: ad andare nei prati con la terra bagnata sprofondavano. Dopo la guerra ho frequentato rottamai per trovare ruote con cui “gommarli”. Ma prendevo sempre anche quello che “mi piaceva”. Cose di poco conto, perché ero sempre senza soldi. E ho continuato anche quando ne ho avute tantissime, da far dire a un docente universitario che avevo un museo. Mi son buttato con fanatismo e ho esteso le mie ricerche ai raccoglitori, a cui ho insegnato a prender su le cose che gli antiquari non prendevano ancora e che potevo permettermi perché ancora a buon mercato15.

Durante la Seconda guerra mondiale conobbe Attilio Bertolucci e il suo circolo. E fu proprio il poeta ad aiutare Guatelli a prepararsi per ottenere la licenza magistrale, che questi ottenne proprio nel 1945. Ma ci vollero più di vent’anni perché potesse passare di ruolo ed avere una cattedra in una scuola elementare. Prima di quel momento, il nostro “collezionista povero” appunto si arrangiò in diversi modi, sia facendo delle supplenze a scuola, sia dirigendo, fra il 1951 e il 1971, delle colonie estive del patronato INCA sull’appennino parmense, sia, come si diceva, cercando di guadagnare qualcosa dalle cose vecchie.

Ero irrimediabilmente contadino, diffidente, pauroso, sicuro soltanto di quel che capivo, che sentivo, che mi piaceva o che “poteva servire”. Almeno in parte. Poi, una volta portato a casa, non mi sentivo più di distaccarmene. Ero diventato quello che prende gli scarti, e quando mi vedevano, tra l’ironico e il canzonatorio, dicevano: “Maestro, ho qui qualcosa che va bene per lei”. Ma in mezzo, col tempo, ho cominciato a trovarci qualcosa di commerciabile. Roba più di gusto che di valore, per gente che si contenta, e che mi ha fatto guadagnare una lira e qualche cliente16

Scapolo, maestro senza un posto, chiamato «al Straser» (lo stracciaio) per la sua passione, Guatelli poté comunque coltivare la propria vocazione pedagogica, dedicandosi a una speciale didattica degli oggetti, per la quale le cose potevano raccontare un mondo e suscitare curiosità: «A scuola mi son sempre trovato di fronte a domande che non si potevano soddisfare. “Come si fa, com’è?”. E quando potevo portavo a far vedere»17. Le cose possono parlare: e Guatelli ha usato in primo luogo la scrittura, sotto diverse forme (racconti, diari, schede) per raccogliere e fissare le storie degli oggetti e dei loro creatori artigiani. Da vero narratore, egli ha iniziato a scrivere (anche su incarico dell’IBC dell’Emilia-Romagna) delle schede (le “schede-racconto”) dedicate a singoli oggetti o a una certa tipologia di essi, spiegandone l’uso (semmai già non più attuale), descrivendone le origini e, da lì, allargando il discorso, senza rispettare sempre un preciso filo logico, alla memoria sociale, alla lingua e così via. «Lo schedario riguarda quindi gli oggetti da molteplici prospettive: informazioni sulla loro vita e il loro nome in zona e altrove, frammenti di storie»18.

Alla base di questo lavoro c’era – è importante ripeterlo – un preciso significato pedagogico. Verso i bambini, poi, verso il loro sguardo, Guatelli è stato sempre molto attento. Ad esempio, ricavando veri e propri giocattoli da oggetti della sua raccolta – quelli che lui chiamava «fantasiosi aborti», e dando vita a un design spontaneo, in una via di mezzo fra gioco e ricerca estetica, a volte davvero suggestivo. Come sempre, all’origine di questa creatività c’era l’attitudine contadina di non buttare via niente e di applicare la propria manualità per riutilizzare ogni cosa. Così come c’era la stessa attitudine che aveva quando, da ragazzo, cercava di imitare con povere cose i giocattoli dei bambini ricchi.

In conclusione, quello che possiamo considerare – tornando di nuovo a Benjamin – come l’“archivio Guatelli”, può insegnarci molto su un momento molto particolare, davvero epocale e, per certi versi, unico della nostra storia recente: il passaggio da una società contadina a una industrializzata, fondata sull’“usa e getta” e, di conseguenza, sulla produzione in massa di rifiuti. Guatelli infatti ha vissuto (e, per certi versi, ha subito) il repentino passaggio da un mondo all’altro e ha colto tutte le conseguenze dell’abbandono di tradizioni, di una cultura materiale, per non dire di interi paesi da parte di una generazione di ex-contadini in fuga verso le fabbriche e le città. La sua sensibilità per il passare del tempo, in nome senza dubbio di un radicato “conservatorismo contadino”, lo ha portato a reagire davanti alla perdita irreparabile di una intera cultura. Ha scritto Guatelli:

Non è che con una maggiore diffusione della cultura dominante ed un maggior peso politico delle classi popolari le cose siano cambiate. Non si è preso coscienza del valore, dell’importanza di un riscatto da questo “nulla culturale”, attraverso i recuperi, se pure non esaurienti, ma cospicui, di testimonianze materiali e orali. Con queste considerazioni non ci si contrappone alla cultura ufficiale, patrimonio di tutti. Le si chiede di colmare la lacuna di completarsi con la cultura del popolo, e non certamente per farla diventare un altro idolo19.

Questo progetto enciclopedico era evidentemente impossibile da realizzare nella sua interezza. Almeno in parte, però, Guatelli è riuscito a imporre il punto di vista di un contadino, il punto di vista di uomini da sempre ignorati e ormai in gran parte scomparsi. Oggi un lavoro di recupero forsennato come quello di Guatelli non sarebbe nemmeno pensabile. D’altra parte, che senso potrebbe avere nel 2018 l’imperativo del “non buttare via nulla”, su cui si basava la vita della gran parte delle persone solo poche generazioni fa?

Ai contadini, come ai ragazzi, fa caso ogni cosa. Abituati da sempre a farsi tutto da soli, san ricavare attrezzi fantasiosi da cose e da frammenti che “possono sempre venire buoni”. Ed io, venuto tardivamente a scuola in città verso il ’37, sui 16 anni ho cominciato a scoprire gli straccivendoli e i rottamai, e a frugarli da contadino, cercando gli oggetti buttati, anche guasti e “che non venivano niente”: dalle pinze mai avute e sempre sognate, perché viste tanto “furbe” in mano al meccanico, ai simulacri di tenaglie, pur sempre migliori di quelle di casa, fino a un martello senza bava, sbeccato, ma non bombato come il nostro piccolo con cui non si riuscivano a piantare i chiodi, anche se più maneggevole di quello buono, ma grosso, che lo zio ex geniere aveva portato a casa da militare. Tutte quelle cose che il contadino, per mentalità, per timore del costo più che per il prezzo, non azzardava a comprare nuove20.


Note

1 Honoré de Balzac, Il cugino Pons, Frassinelli, Milano 1999.

2 Desidero ringraziare la Fondazione Museo Ettore Guatelli e, in particolare, Jessica Anelli per le informazioni e i materiali ricevuti. La foto del Museo che apre l’articolo è di Mauro Davoli.

3 Marzio Dall’Acqua, “Da non essere mai solo neanche quando non ho nessuno”. Il collezionismo compulsivo di Ettore Guatelli nel “bosco delle cose” di Ozzano Taro, in “I quaderni di PsicoArt”, 2015, volume 6, pp. 47-65, p. 58.

4 Mario Turci, Lo spazio e la parola, in Catia Magni, Mario Turci (a cura di), Il Museo è qui. La natura umana delle cose. Il Museo Ettore Guatelli di Ozzano Taro, Skira, Milano 2005, pp. 17-23, p. 19.

5 «Si percorre così un labirinto di scale, brevi corridoi e stanze che arrivano alle soffitte. Ma quello che rende il museo unico è l’interno; sono i percorsi tra stanze, scale, piccoli ambienti e saloni spaziosi, tutti decorati con oggetti, seppur raggruppati a tema, con una riconoscibilità di ciascun pezzo ed insieme la sua mimetizzazione in un’invenzione decorativa, in un apparato artistico che corre sulle pareti, sui soffitti e negli angoli più riposti» (Dall’Acqua, “Da non essere mai solo neanche quando non ho nessuno”, cit., p. 49).

6 Pietro Clemente, Il museo che non è un museo, in Magni, Turci (a cura di), Il Museo è qui, cit., pp. 35-55, p. 40.

7 Alcuni scritti di Ettore Guatelli, ivi, pp. 219-236, p. 222.

8 Così lo stesso Guatelli: «Anche in casa mia si stava in pena per me. A vedermi portare robaccia da poveri di cui tutti erano felici di disfarsi, per un po’ di tempo si è creduto che non fossi più a posto. […] Non avevo dignità. Passavo con macchine piene di cianfrusaglie arrugginite e polverose con carichi altissimi da far rizzare i capelli anche a carabinieri e polizia stradale che finivano per commuoversi e lasciarmi andare. Ma a passare in paese mi vedevano tutti ed ero diventato una fola, anzi, lo stracciaio» (ivi, pp. 233-234).

9 Rosita Lappi, Collezionismo. La magnifica ossessione, in “Aracne. Rivista d’arte on-line”, 2011, numero 1, pp. 1-25, p. 18.

10 La disposofobia è, infatti, nota anche come “sindrome dei fratelli Collyer”. I fratelli Homer e Langley Collyer morirono entrambi nel 1947 nella loro casa di Harlem, a New York, sepolti sotto tonnellate e tonnellate di oggetti che avevano accumulato per decenni, costruendo un labirinto di tunnel e di trappole per difendersi dalle possibili incursioni di estranei. I due uomini, un ingegnere e un avvocato, vollero vivere isolati dal mondo, puntando a una (impossibile) autosufficienza. Sul loro caso e, più in generale, sulla disposofobia, si può vedere Randy O. Frost, Gail Steketee, Tengo tutto. Perché non si riesce a buttare via niente, Eriksson, Trento 2012.

11 Cfr. Walter Benjamin, Eduard Fuchs, Il collezionista e lo storico, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 2000, pp. 79-123.

12 Walter Benjamin, Il collezionista, in Id., I «passages» di Parigi, 2 volumi, Einaudi, Torino 2002, pp. 212-223, p. 214.

13 Benjamin, Eduard Fuchs, cit., p. 112.

14 Benjamin, Il collezionista, cit., p. 221.

15 Vittorio Feronelli, Flavio Niccoli (a cura di), La coda della gatta. Scritti di Ettore Guatelli: il suo Museo, i suoi racconti (1948-2004), IBC Emilia-Romagna, Bologna 2005, p. 67.

16 Ivi, p. 44.

17 Ivi, p. 45.

18 Clemente, Il museo che non è un museo, cit., pp. 46-47.

19 Alcuni scritti di Ettore Guatelli, cit., p. 221.

20 Feronelli, Niccoli (a cura di), La coda della gatta, cit., pp. 58-59.