Il movimento mezzadrile nella Toscana del ‘900: una riflessione storiografica tra passato e presente

Per secoli, la mezzadria è stata il segno prevalente delle campagne e dell’agricoltura in Toscana. Un universo culturale in senso pieno e un sistema di conduzione della terra che garantiva stabilità e controllo sociale. Tuttavia, con l’approssimarsi del XX secolo, profondi cambiamenti stavano erodendo i suoi assetti tradizionali, riverberandosi sulle famiglie e incrinando in maniera irreversibile quel modello e quel mondo. Ne scaturiva un’esperienza inedita ed impensabile fino ad allora, il “movimento mezzadrile”, che è stato l’elemento veramente caratterizzante della mezzadria nel ‘900 e uno dei motori della democratizzazione italiana. Le lotte dei mezzadri toscani attivarono un numero incalcolabile di persone, da sempre escluse dalla vita politica, confinate nei loro “remoti” poderi, senza mezzi di trasporto e strumenti di comunicazione, che riuscirono a mettere in campo una proposta di sviluppo economico e di cambiamento dell’agricoltura, accompagnata dalla costruzione di forme associazionistiche come i sindacati che, se furono comuni a tanti altri strati sociali, vennero declinate ed inserite dentro alle specificità dell’ambiente rurale, con leghe che organizzavano i lavoratori su base territoriale, come le Camere del lavoro, e Consigli di fattoria che tentavano di riportare le esperienze del settore industriale dentro alle forme più strutturate di produzione agricola, con compiti di contrattazione e di condirezione1. Non ne furono estranee nemmeno le donne, che attraverso questa strada trovarono uno dei modi per rompere gli equilibri della famiglia patriarcale.

 

Le ragioni storiche

Si è discusso molto sulle origini e sul significato del movimento mezzadrile, sui motivi che portarono i “pacifici” mezzadri a “ribellarsi”. I primi, timidi e non generalizzati, tentativi di modernizzazione dell’agricoltura ne avevano acuito il malessere, caricando sulle loro spalle la partecipazione alle spese e nuovi, sgraditi, obblighi lavorativi. Questi interventi intaccavano l’arrotondamento del reddito mezzadrile attraverso la pluritattività, strappavano tempo al lavoro a domicilio delle ragazze e delle donne, con i proprietari che iniziavano a inserire nuove clausole nei patti in cui si proibiva di svolgere lavori diversi rispetto a quelli del podere. Certo i mezzadri potevano continuare a consolarsi attraverso il confronto con la situazione peggiore di pigionali, avventizi, braccianti, o con l’aumentata povertà dei piccoli proprietari coltivatori diretti, ma le “increspature”, come le ha definite Giorgio Mori, restavano. Inoltre aumentavano gli elementi vessatori sul lato economico-sociale e su quello civile e personale derivanti dalla dipendenza dal concedente2. Per Mori ebbero un ruolo non secondario gli stimoli esterni, dall’emergere delle organizzazioni dei lavoratori e del movimento socialista all’industrializzazione fino al mutare, lento ma inesorabile, dei confronti con le altre classi lavoratrici impiegate nei settori trainanti, che avvantaggiavano la loro condizione mentre i mezzadri no. Un movimento nato a partire dal peggioramento sia oggettivo che relativo delle condizioni di vita e su basi “imitative”, secondo questa lettura, che metteva nel conto anche il disgregarsi della vita parrocchiale con la nascita delle case del popolo e un incipiente diffusione di atteggiamenti atei.

I socialisti all’epoca ne dettero una lettura che ha avuto grande fortuna – ripresa successivamente da Emilio Sereni e da Giorgio Giorgetti – ovverosia la “proletarizzazione” di un ceto mezzadrile progressivamente pauperizzato da una rapida trasformazione capitalistica. Come ha scritto Carlo Pazzagli, si leggeva: «una tendenza crescente alla subordinazione del lavoro al capitale per la quale il contratto di mezzadria nonostante l’assenza di modificazioni apparenti, di fatto avrebbe finito col mascherare un puro e semplice contratto di lavoro. Conseguentemente il mezzadro sarebbe stato sottoposto ad un irreversibile processo di espropriazione e di proletarizzazione in seguito al quale, pur conservando esteriormente i tratti tradizionali, egli avrebbe assunto sempre più connotati nella sostanza simili a quelli del puro salariato»3. Se è vero che i mezzadri mal digerivano i nuovi carichi di lavoro che li appesantivano senza nessun corrispettivo, sembrerebbe che comunque i loro redditi non fossero in discesa, trainati dall’aumento della produttività4, e che la stessa trasformazione in senso capitalista sia stata molto più lenta e comunque non generalizzata, e quindi sopravvalutata. Per contro, l’altra faccia di questa lettura ha fatto leggere i luoghi in cui non si manifestarono agitazioni come dominati da una mezzadria più ricca e con maggiore influenza cattolica, dapprima della Chiesa e poi del movimento politico e sindacale cristiano democratico, senza però tener conto delle differenze che potevano nascere da una diversa configurazione della proprietà – rispetto al modello della grande fattoria – nel favorire o ostacolare l’associazionismo nelle leghe e le proteste. Sergio Anselmi ha rimesso in discussione l’assunto di una Toscana dominata solo dalla grande proprietà nobiliare, evidenziando una frammentazione proprietaria più ampia, con la presenza di numerosi strati urbani proprietari di poderi, o addirittura di mezzadri che possedevano un altro podere da cui ottenevano un di più in rendita agricola5. Un fenomeno, quest’ultimo, che per quanto paradossale era nondimeno reale.

Idomeneo Barbadoro, nella sua storia della Federterra, ha enumerato più fattori che spingevano pro o contro l’insorgere di un’agitazione mezzadrile. A favore: la penetrazione di idee nuove; gli echi del primo movimento sindacale; il crescente sfruttamento; le dure condizioni di lavoro. Contro: il coincidere dell’unità produttiva con la famiglia; gli aspetti societari del patto con l’illusione dell’intesa tra proprietà e lavoro; la dispersione geografica dei coloni nelle case sparse; il permanere di una cultura, il «cosmo contadino», che frenava la maturazione di una coscienza di classe; la speranza di un mutamento attraverso un evento provvidenziale; la ricerca della soluzione individuale; la subordinazione al proprietario e ai suoi ricatti; le differenze interne alla categoria dei mezzadri con una stratificazione su più livelli reddituali; la difficoltà di individuare un gruppo omogeneo di rivendicazioni6. Tra i socialisti vi fu anche chi pensò all’utilità, come primo strumento di penetrazione, delle cooperative di consumo agricole più che alle leghe, ma alla fine l’opzione fu quella sindacale che, secondo Barbadoro, permise di mettere in moto il movimento mezzadrile attraverso un grande sforzo “organizzativo”.

Un’interpretazione “militante” di parte cattolica, data a suo tempo da Luciano Radi, evidenziava come i patti apparissero ormai ingiusti ai contadini, anche in ragione dei maggiori aggravi, per cui il movimento socialista iniziava la sua azione in un ambiente pronto ad accogliere la sua denuncia. I mezzadri ancora accettavano il paternalismo, ma questo era incrinato dall’intensificarsi dei contatti con il mondo cittadino in rapida evoluzione e più emancipato, dalle novità politiche, dal maturare di una coscienza dei diritti dell’uomo e di una «coscienza di classe come motore della lotta per l’elevazione degli umili». Per Radi all’origine della disponibilità dei mezzadri a mettersi in moto ci fu il peggioramento delle loro condizioni dettato dall’ingordigia e dall’egoismo padronale, l’aspirazione a conquistare un miglior contratto ed un miglior tenore di vita, ed i socialisti seppero cogliere questo stato d’animo e provarono a indirizzarlo. In pratica, sulle spiegazioni convergeva sulle stesse tesi dei socialisti, che però venivano accusati di aver voluto strumentalizzare il movimento7.

Altre letture, come quella di Giovanni Contini, hanno insistito sulla rottura della coppia paternalismo-deferenza, sul cambiamento dei codici culturali e  dei modelli comportamentali da parte tanto dei proprietari che dei mezzadri, con le prime forme di resistenza attiva alla violazione delle pratiche consuetudinarie già attestate alla metà dell’800 per quanto riguardava le ripartizioni delle spese e i nuovi patti più vantaggiosi per i concedenti, preludio a quanto inizierà ad avvenire su scala più vasta alla fine del XIX secolo e segno di un’insofferenza profonda verso questi cambiamenti8. La rottura dell’economia morale ci pare un’ipotesi convincente, se utilizzata per leggere in profondità tante piccole relazioni quotidiane legate in vario modo ai fenomeni indicati da Carlo Pazzagli. Questi individua le molle che innescarono il movimento mezzadrile nel peggioramento relativo – in termini di paragone – delle condizioni di vita dei mezzadri rispetto al dinamismo cittadino, con una agricoltura che perdeva il suo ruolo centrale di fronte all’industria, insieme all’incompatibilità – segnalata da Mori – di una società come quella mezzadrile con la “conflittualità istituzionalizzata” portata dalle nuove correnti politiche e dalla presenza dei sindacati. Un incompatibilità che, negando spazi alle moderne forme di negoziazione, si risolveva in un’attivazione delle figure più deboli di quella società, i mezzadri, che puntavano allora sia a guadagnare questi spazi che a superare la mezzadria.

Infatti, la rottura dell’equilibrio sociale tra le figure preminenti dell’ancien régime nel mondo rurale – contadino, proprietario e parroco – innescò un sistema imitativo di quanto avveniva altrove che troverà un’espressione “politica” sua propria, di genuina derivazione contadina, formulata nelle stesse rivendicazioni sindacali dei mezzadri. Emerse allora una sorta di “doppia posizione”, tesa a combinare richieste di maggiori retribuzioni da lavoro, che accentuavano il carattere di salariato, insieme a quelle di accesso alla proprietà e alla direzione aziendale, che sottolineavano invece il carattere imprenditoriale della famiglia mezzadrile. Una “doppia posizione” solo apparente, tale se letta con i canoni della società dell’industria e del terziario, in quanto espressione originale di un mondo contadino plurisecolare ed in posizione intermedia, né coltivatore diretto né dipendente in senso pieno, che pose il superamento della mezzadria senza puntare né alla trasformazione in grande industria capitalista dell’agricoltura, né semplicemente alla retribuzione per mezzo salariale del lavoro agricolo, ma costruendo una posizione politica autonoma che vedeva l’emancipazione come risultato della conquista della terra9.

La Federterra prima del fascismo e la Federmezzadri nel secondo dopoguerra – quando se ne renderanno conto – cercarono allora di coniugare questa aspirazione con gli assunti marxisti, declinandola verso un mondo solidale di associazionismo proprietario piccolo contadino e cooperativistico, inteso come un’alternativa “di sistema” allo sviluppo capitalistico. Un percorso leggibile in maniera molto nitida osservando la storia del movimento mezzadrile e delle culture politiche che vi operarono, quella cristiano democratica e quella socialista e poi comunista, che partite da posizioni di grande distanza ideologica nell’impostazione dei problemi, trovarono nel corso del secolo forme di sintesi, in cui continuarono a pesare le differenze di partenza ma si evidenziavano le convergenze verso uno sbocco originale.

Un percorso che però fu spiazzato dalla Storia, che negli stessi anni in cui maturava vedeva all’opposto l’inizio di una fuga dalle campagne che al culmine, negli anni del miracolo economico, svuoterà il mondo rurale e trasformerà radicalmente gli asseti sociali, produttivi e paesaggistici italiani. Un esito probabilmente inevitabile, ma le cui forme finali sono state determinate anche da altri fattori. Al crollo degli strumenti regolativi informali del conflitto di ancien régime non si riuscirà mai a sostituire – come detto – una nuova struttura istituzionalizzata in grado di stabilire forme di mediazione, a causa di una proprietà arroccata sulla conservazione che impedirà ai mezzadri la via della contrattazione per modificare le loro condizioni e quindi prefigurare un diverso sviluppo per questo tramite. In aggiunta, la dinamica politica dell’Italia nel secondo ‘900 ha fatto sì che quella della mezzadria sia stata una delle tante, per dirla con Guido Crainz, riforme mancate.

 

I nodi

I punti cruciali su cui ruotò per tutto il secolo il movimento mezzadrile furono tre, la riforma del contratto di mezzadria, la questione della proprietà e l’imprenditorialità contadina, con soluzioni continuamente riemergenti, scambi di posizione tra la cultura sindacale socialista e comunista e quella cattolica, convergenze e rotture. La Federterra, aderente alla CGdL, iniziò a mobilitare i mezzadri intorno ad un’attività di contrattazione tesa a ottenere la modifica dei patti colonici, avendo come riferimento l’idea di una trasformazione dei mezzadri in salariati, in proletari, passando poi progressivamente a porsi il problema della proprietà in forme cooperative e collettive, magari con dei passaggi transitori sotto la forma dell’affittanza, meglio se collettiva, chiedendo contemporaneamente un nuovo riparto in base agli apporti (di lavoro e di capitale), che lasciava aperta l’opzione della trasformazione in salariati. Nasceva qui quella che abbiamo definito la “doppia posizione”. Il movimento cattolico dapprima si orientò sulla trasformazione dei mezzadri in coltivatori diretti proprietari, trascurando la riforma dei contratti e quindi la remunerazione del valore del lavoro mezzadrile e tutti i problemi legati ai guasti del patto che si erano andati stratificando nel corso dei secoli. Fu solo nel primo dopoguerra che le leghe bianche raggiunsero quelle socialiste su questi temi. Sugli aspetti economici e lavorativi immediati i programmi cattolici e socialisti tesero a convergere a quel tempo: giusta causa per le disdette; patti scritti e collettivi; effettiva partecipazione del mezzadro alla direzione tecnica e colturale del podere su cui viveva e lavorava.

Le differenze erano ai livelli più alti, dove entravano in gioco le diverse culture politiche, oppure sul riconoscimento o meno del sistema di mezzadria come valido in quanto tale ed adatto allo sviluppo dell’agricoltura. Per i cattolici era una forma di collaborazione interclassista di per sé non da rigettare ma da correggere nelle sue storture, per i socialisti era ovviamente un’espressione del dominio dell’uomo sull’uomo da abbattere. Sullo sviluppo dell’agricoltura ci si differenziava ulteriormente in prospettiva, con i socialisti indirizzati verso forme di tipo cooperativistico, se non collettiviste. I cattolici furono i primi, già nel primo dopoguerra, ad arrivare a una strategia di trasformazione dei contratti di mezzadria per via legislativa. I socialisti invece elaborarono per primi l’idea della trasformazione in affitto, come fase transitoria, accolta dai cattolici nel 1919. L’avvento del fascismo interruppe violentemente questi sviluppi, instaurando nelle campagne una vera e propria reazione che riportava la sostanza dei patti colonici agli assetti ottocenteschi.

Nel secondo dopoguerra, la Federmezzadri nacque come organizzazione unitaria di socialisti, cattolici e comunisti, ma fu un’esperienza di breve durata. Nella seconda metà degli anni ’40 la lotta dei mezzadri si concentrò sugli aspetti contrattuali, con richieste che investivano i riparti, le disdette, la condirezione, mentre la questione della proprietà della terra, passata la “grande speranza” coltivata sull’onda della Resistenza e presente nell’immaginario dei mezzadri come orizzonte verso cui tendere, rimase sullo sfondo. Il movimento anche in questa fase mancò i suoi obiettivi, pur spuntando alcuni interventi come il Lodo De Gasperi del ’46 e la Tregua mezzadrile del ’47, che erano comunque assai lontani dalle aspirazioni mezzadrili.

Dopo la scissione sindacale del 1948, la CISL Terra, poi Federcoltivatori, e la Federmezzadri, tornarono sulle rispettive posizioni del primo dopoguerra. Proprietà e conduzione diretta per i cattolici, che comunque erano molto più presenti fra i piccoli proprietari attraverso la Coldiretti, riforma contrattuale e attuazione dei dispositivi legislativi per la Federmezzadri. Sul finire degli anni ’50 aumentavano le occasioni di collaborazione tra le organizzazioni sindacali, e la Federmezzadri inizio a orientarsi verso la conquista della terra, nel quadro di una riforma agraria generale, con l’impulso alle cooperative di produzione e la prospettiva della proprietà associata, una linea giunta a completa maturazione negli anni ’60. La Federcoltivatori recuperava terreno sul piano contrattuale dopo la Legge del 1964, che vietò nuovi contratti di mezzadria, mantenendo la sua posizione per la trasformazione in proprietari. Con l’ingresso negli anni ’70 l’unità d’azione sindacale veniva raggiunta tramite l’intesa sulla rivendicazione della trasformazione della mezzadria in affitto, fermo restando che per la CGIL l’opzione era ancora la proprietà associata e lo sviluppo delle cooperative, per la CISL l’impresa individuale. Ma ormai della mezzadria restava ben poco, estintasi con la fuga dalle campagne.

Lungo tutto quest’arco temporale, gli unici a non mutare mai posizione furono i proprietari, con la loro organizzazione di categoria arroccata sulla conservazione della mezzadria nelle sue forme storiche, tant’è che fino alla fine rimase in vigore il Contratto di mezzadria del 1928 messo a punto dal fascismo per la Toscana, che i proprietari non erano disposti a mettere in discussione. A tal fine attivarono anche forme di pressione lobbistiche in direzione dei vari Governi e del Parlamento, che non riformarono mai del tutto l’impianto contrattuale, neppure con gli importanti interventi legislativi degli anni ’6010.

L’ultima battaglia, quella per la proprietà contadina, si risolveva anch’essa in una vittoria dell’impresa capitalista, spesso attraverso il denaro dei nuovi ricchi, mentre anche molta della nuova proprietà coltivatrice diretta non era di provenienza mezzadrile11. Il movimento chiudeva i battenti con un bilancio magrissimo, senza essere riuscito, nemmeno in minima parte, ad ottenere il cambiamento dell’agricoltura ricercato, e il contadino era una figura sociale che scompariva. Aveva ad ogni modo contribuito a democratizzare il Paese, tant’è che le ricadute più rilevanti furono al di fuori del suo perimetro. I mezzadri non erano nati comunisti, né tantomeno socialisti, anzi per loro natura erano diffidenti verso le impostazioni ideologiche di questi partiti, ma la capacità dimostrata dalle strutture sindacali delle sinistre di adattarsi e far proprie le rivendicazioni più sentite dei mezzadri, di farsi movimento mezzadrile, ne garantiva un’adesione ed un comportamento elettorale sopravvissuto alla mezzadria stessa, fattosi identità politica, ed elevando tanti mezzadri al rango, inimmaginabile per secoli, di consiglieri comunali, sindaci e assessori, andando a costituire uno dei substrati culturali della Toscana “rossa”.

 

Spunti finali

Le esperienze storiche di sindacalizzazione delle figure intermedie sono cadute nell’oblio all’epoca del trionfo della “centralità operaia” e del sindacalismo industriale. Bollate anzitempo come residuali, le vicende del movimento mezzadrile sono andate in soffitta. Tuttavia proprio un’esperienza come quella del movimento mezzadrile – che lungi dall’essere una reazione alla modernità in senso conservativo si propose di esserne parte attiva con le proprie proposte – è oggi in grado di apportare elementi di grande interesse. Il mezzadro era una figura subordinata e subalterna ma non salariata. Viveva in un ambiente ricco di rivalità e di frammentazione, propendeva a una sua forma di imprenditoria familiare, teneva in gran conto della sua autonomia lavorativa, contrapposta alla dipendenza dei braccianti e – fino a quando non diventarono più ricchi di lui – degli operai. Nonostante tutte le difficoltà, il movimento sindacale dei mezzadri riuscì ad attivare queste figure, superando anche le diffidenze ideologiche della cultura marxista a rappresentarle, individuando un livello di contrattazione ed uno di riforma, conciliando modalità di azione da dipendenti con le loro condizioni particolari (con forme di lotta inedite, come lo sciopero del bestiame)12 in grado di costringere alcuni proprietari al confronto, seppur limitato ad ambiti specifici e locali. Anche oggi, come allora, le figure intermedie pongono non poche difficoltà, sia interpretative che di attivazione, a chi è intenzionato a sindacalizzarle. L’azione sindacale si trova a fare i conti con nuove figure sociali subalterne, portatrici di un incipiente senso di estraneità allo Stato, frammentate ed isolate, il cui status e le cui rivendicazioni e forme di protesta non sono passibili di essere ricondotte a schemi consolidati.

Allora forse riflettere sul movimento mezzadrile, sulla storia della più importante esperienza sindacale di una categoria intermedia popolare, che all’epoca della sua maturità aveva conciliato gli approcci opposti della nascita ed individuato due strade per cambiare la condizione dei mezzadri, la riforma legislativa e la contrattazione – assicurandosi una grande adesione – si rivelerà utile per ragionare sui modi del fare sindacato, ieri come oggi, con una maggiore consapevolezza ed un più ricco bagaglio di conoscenze.


Note

1 In merito ai Consigli di fattoria, si è parlato anche di una “lettura operaia” dei contadini. Cfr. Pietro Clemente, Mezzadri in lotta: tra l’effervescenza della ribellione e i tempi lunghi della storia rurale, in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi”, n. 9, 1987, Il mondo a metà. Sondaggi antropologici sulla mezzadria classica, p. 287.

2 Giorgio Mori (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’unità a oggi. La Toscana, Torino, Einaudi, 1986, pp. 206-207 e pp. 212-213. Idomeneo Barbadoro, Storia del sindacalismo italiano. Dalla nascita al fascismo, Vol. I, La Federterra, Firenze, La nuova Italia, 1973 (1977), pp. 260-265.

3 Barbadoro, Storia del sindacalismo, cit., pp. 267. Carlo Pazzagli, Dal paternalismo alla democrazia: il mondo dei mezzadri e la lotta politica in Italia, in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi”, n. 8, 1986, I mezzadri e la democrazia in Italia, p. 21, da cui è tratta la citazione.

4 Patrizia Sabatucci Severini, Il mezzadro pluriattivo dell’Italia centrale, in Pietro Bevilacqua, Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, Vol. II, Uomini e classi, Venezia, Marsilio, 1990, pp. 795-796.

5 Sergio Anselmi, Mezzadri e mezzadrie nell’Italia centrale, in Bevilacqua, Storia dell’agricoltura, cit., pp. 235-236.

6 Barbadoro, Storia del sindacalismo, cit., pp. 266-268.

7 Luciano Radi, I mezzadri (Le lotte contadine dell’Italia centrale), Roma, Cinque lune, 1962, pp. 93-117.

8 Giovanni Contini, Aristocrazia contadina. Sulla complessità della società mezzadrile. Fattorie, famiglie, individui, Pistoia, Gli ori, 2008, p. 101; Id, Mezzadri e democrazia, in A. Esposto (a cura di), Democrazia e contadini in Italia nel XX secolo. Il ruolo dei contadini nella formazione dell’Italia contemporanea, Vol. I, Roma, Robin, 2006, pp. 36-43.

9 Pazzagli, Dal paternalismo alla democrazia, cit., pp. 24-29.

10 Per una storia del sindacalismo mezzadrile Stefano Bartolini, La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione, Pistoia, Settegiorni, 2015.

11 Reginaldo Cianferoni, Zeffiro Ciuffoletti, Pietro Clemente, Crisi della mezzadria e lotte contadine, in Pier Luigi Ballini, Luigi Lotti, Mario G. Rossi (a cura di), La Toscana nel secondo dopoguerra, Milano, Franco Angeli, 1991, pp. 205-210.

12 Un esempio è nella foto di apertura di questo articolo, datata Lamporecchio 1957 (Archivio CGIL Pistoia).