Fantozzi: ovvero la nuova e ignara schiavitù della modernità consumista

La dipartita di Paolo Villaggio ha fatto inevitabilmente esplodere una ridda di articoli, che quasi indistintamente si sono affollati nel ricordare la malcelata genialità di un artista capace di creare una autentica maschera nazional-popolare: il rag. Ugo Fantozzi, le cui patetiche, e sempre sofferenti, gesta sono entrate nel vocabolario nostrano quali sineddoche di una cronica inadeguatezza alla spietatezza crescentemente cibernetica del mondo moderno.

Pur tuttavia, malgrado il volume degli scritti, la qualità è rimasta generalmente molto bassa e il livello dell’interpretazione ha raramente incrinato la superficie del luogo comune. Molte analisi, per prescia e imperizia, si sono addirittura avviluppate in abbagli clamorosi: come l’assurda pretesa di accomunare il comico genovese e il “principe” Antonio de Curtis in una medesima dissociazione uomo/personaggio. In tal modo confondendo una trasfigurazione – ovvero una proiezione attoriale assoluta che conserva le sue caratteristiche fondamentali a prescindere dal contesto filmico, adattandosi a tutti i registri, dal macchiettistico al poetico – come quella di Totò e dei suoi vari alias (Ferdinando Esposito in Guardie e Ladri, Gennaro Vaccariello ne Il Coraggio, Felice Sciosciammocca in Miseria e nobiltà, ecc.); con una lacerazione eminentemente artistica che, invece, vede Fantozzi fagocitare inesorabilmente, e contro ogni volontà, il resto della non risibile produzione di Paolo Villaggio, costruita con Fellini, Ferreri, Olmi, Monicelli, Loy, Wertmüller, Salvatores (per una esperienza che, in questo senso, si avvicina molto più al morboso rapporto instauratosi fra Charlot ed il suo creatore, Charlie Chaplin).

Ma ancor più fuorvianti risultano le conclusioni avanzate da taluni altri commentatori, che hanno inteso le vicissitudini “fantozziane” come una dissacrazione dell’impiego pubblico, misconoscendo incredibilmente che il ragioniere lavora in una azienda privatissima e dai tratti assolutamente padronali. La questione non è affatto di poco conto, poiché il solco fondamentale dividente lo “statale” italiano dal resto dei “dipendenti” suoi compatrioti è storicamente determinato proprio dall’assenza della “licenziabilità”: ovvero di quella spada di Damocle che invece mantiene Fantozzi e tutti gli altri salariati dell’elefantiaca Megaditta

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in una costante sottomissione disumanizzante. Non a caso, il riflesso incondizionato del vocabolario fantozziano di fronte ai vituperi dei potenti e alle angherie dei più forti risulta essere masochisticamente: «com’è umano, Lei!». In definitiva, una postuma versione dell’atavica dialettica signore/servo, ormai derubricata a mero giogo sociale perché depauperata di qualsivoglia fattore intrinseco di potenziale emancipazione.

Ecco, nella capacità di descrivere (e scarnificare) una subalternità lavorativa attualizzata all’alienazione metropolitana e consumerista del post-miracolo economico italiano, sta la più grande condizione di merito della satira di Villaggio.

Si fa qui riferimento ai primi due episodi della saga (Fantozzi, 1975 e Il secondo tragico Fantozzi, 1976), non a caso gli unici diretti da un maestro della commedia grottesca come Luciano Salce, prima che la palla passasse a un semplice mestierante del botteghino, quale è Neri Parenti: parliamo dei soli film tratti integralmente dai romanzi e dei soli in grado di vivificarne in termini visuali l’analisi dissacrante e costantemente “politica”, senza cedere – come invece accadrà da Fantozzi contro tutti (1980) in poi – alla lusinga del demenziale e dei tormentoni alla moda.

 

Allo specchio con Pasolini: la prefigurazione della nuova barbarie

Non una metafora (basata su un’analogia puramente semantica fra idea e materia), né un’allegoria (mossa dall’attribuzione arbitraria di un valore simbolico nell’oggetto del discorso), ma una “rappresentazione figurale” (ovvero la descrizione prospettica di un “adempimento storico” legato alla natura stessa del soggetto narrato) incentrata sul ceto che più intensamente riproduce le trasformazioni del boom e dell’occidentalizzazione tardonovecentesca in Italia: la piccola borghesia urbana.

Sta in questa Weltanschauung tutta ancorata sui ceti medi, un lavoro per contrasto rispetto alla coeva visione pasoliniana che, di contro, si rivolge esclusivamente alle due estreme dello spettro sociale “repubblicano”, nella convinzione che solo nelle classi altissime e bassissime si rintracci la purezza d’una cultura propria e “non eterodiretta”. Di una attitudine e d’un “porsi al mondo” – vale a dire – non (ancora) corrotti dalla massificazione autoritaria e consumistica del neocapitalismo: esattamente il processo abbrutente che Villaggio intende “rappresentare” attraverso la “figura” di Fantozzi, esorcismo di un potenziale futuro prossimo all’adempimento, nel quale aristocrazia e proletariato paiono sopravvivere solo in piccole e autosufficienti monadi esistenziali, mentre il resto del mondo – sempre più spietato, metropolitano, meccanizzato e ingolfato di merci – evolve in “istituzione totale” dell’anomia borghese.

Un repertorio retorico particolarissimo – d’ispirazione dantesca e sin lì tentato solo da certo cinema autoriale (Il Boom di V. De Sica, Lo scopone scientifico di L. Comencini, In nome del popolo italiano di D. Risi) – che complica il solito castigare ridendo mores tipico della prevalente commedia italica, con la proiezione di spettri distopici sullo sfondo di una narrazione che, malgrado le deformazioni grottesche, resta sempre agganciata alle evoluzioni reali della vita moderna.

Dietro la risata impudente scatenata dalla gragnuola di colpi, botte, cadute, lisci, strafalcioni, spaventi, nuvole terroriste e assurdi ferimenti che perseguitano lo sfortunatissimo ragioniere, si erge infatti una “crisi sistemica” in palese istituzionalizzazione, alimentata dall’annichilimento feroce delle magnifiche sorti e progressive balenate dal “miracolo” economico italiano (1958-1963): Ugo Fantozzi è al contempo parte organica e vittima smarrita di un contesto di austerità recessiva, d’inefficienza amministrativa, d’ingiustizia generalizzata, di degradazione ecologica, di sfaldamento valoriale e di depauperamento culturale. La sua miserrima quotidianità si dipana allora fra immobilismo gerontocratico, vuoti formalismi comportamentali, iper-sfruttamento e precarizzazione lavorativa, violenze gratuite, corruzione nepotistico-clientelare: è, in questo senso, uomo del suo tempo, perché raccoglie ed esprime l’interezza della faccia oscura degli anni ’70; di quel coacervo di malgoverno, sperequazione sociale e assistenzialismo predatorio, in sintesi, che ha finito per infragilire da allora a oggi la piena fruizione collettiva delle enormi conquiste civili strappate proprio in quello stesso decennio (Statuto dei lavoratori, divorzio, aborto, sistema sanitario gratuito e universale, democratizzazione e rappresentanza scolare), e con essa la futuribilità delle generazioni successive.

 

La borghesia piccola piccola: la forza debole di una nazione gattopardesca

Una crisi del sistema-Paese evidentemente multiforme: che s’impernia tuttavia – almeno secondo la rappresentazione data dalla “figura” del rag. Ugo Fantozzi – su due processi fondamentali. La completa mercificazione del vivere e la rigenerazione in chiave neocapitalista del feudalesimo sociale.

Da una parte, il progressivo e inesorabile svuotamento di ogni affettività nelle interazioni personali, sotto il peso di un “mercato” che ha fagocitato se stesso, elevandosi ad autocrazia del tempo presente. Nell’universo fantozziano, lo stesso paradigma industrialista della “produzione” – assolutamente centrale nella costruzione di quel boom che nel dopoguerra aveva strappato la nazione all’indigenza, arrivando a mettere frigorifero, lavatrice, televisione, Seicento e “figlio dottore” nella casa dell’operaio – è stato sotterrato da una dittatura del bisogno spurio e del consumo indotto. Facendo coro unico con altre lamentazioni artistiche levatesi negli stessi anni – su tutte quella di «Berto morto arruginito in un cimitero di lavatrici» cantata da Fabrizio De André ne La canzone del Padre (Storia di un impiegato, 1973) e quella di Giovanni Vivaldi che deve rassegnarsi a tenere in un deposito-merci la cassa del povero figlio assassinato perché nel «cimitero del Verano, malgrado lo sviluppo intensivo e i cadaveri sparpagliati dappertutto, non c’è posto», narrata da Vincenzo Cerami (Un borghese piccolo piccolo, 1976) – Villaggio fa notare l’isterilimento di tutte le risorse vitali e delle basiche istanze di solidarietà umana, effetto collaterale di un benessere eminentemente quantitativo ed estremamente “sporco”.

La famiglia, per cominciare, che in casa Fantozzi è poco più che mononucleare, con una orrenda e inconcludente figlia unica, e una moglie per nulla emancipata e succube delle corvées domestiche: l’istituzione per eccellenza del tessuto italico atrofizzata in un esercizio vetero-patriarcale di routine spartana (praticamente nessuna amicizia, mai una villeggiatura assieme o una cena fuori, al massimo uno squallido veglione aziendale o una disastrosa serata al circo, per di più in incognito), alimentata più da sopportazione che da amore, scossa solo raramente da patetiche scene di gelosia (causate dall’attrazione di Ugo per la decadente signorina Silvani) e da velleitari slanci di dignità (come per esempio l’improvvida reazione d’orgoglio agli insulti e alle spacconerie dell’avversario, durante la partita di biliardo contro il Gran Maestro dell’ufficio raccomandazioni, l’On. Cav. Conte Diego Catellani).

Una famiglia anonima e involuta, dunque, che pur circondata dagli attributi-cardine della modernità (elettrodomestici, televisore, telefono, un’auto di proprietà, benché sgangherata) si ritrova a vivere in una delle migliaia di celle di cemento armato che infestano le inarrestabili periferie metropolitane, germinate su una natura ormai devastata, i cui ultimi scampoli genuini sono fruibili solo dai ricchi padroni (si pensi agli episodi del “bus preso al volo”, con il cavalcavia della circonvallazione che rasenta i balconi delle civili abitazioni, e del “campeggio” che si trasforma in una trappola quasi mortale per manifesta disabitudine alla vita all’aria aperta).

La stessa mercificazione necrotizzante tocca anche i pochissimi svaghi popolari, naturalmente perseguiti sempre senza moglie e prole, che Fantozzi tenta di concedersi: il calcio, la caccia o il tennis si rivelano allora come esperienze kafkiane e quasi letali, poiché il loro pieno esercizio richiede ormai ossessiva preparazione fisica e ingenti disponibilità pecuniarie, l’assenza delle quali costringe il piccolo borghese a “pratiche di fortuna” (orari follemente antimeridiani, strutture e strumenti inverosimili), a loro volta foriere di esiti “sanguinari” (campagne ridotte a trincea bombardata e campi di gioco degradati in paludi).

Allo stesso modo sembra morire anche la fede nei grandi ideali di giustizia, compresa quella “lotta di classe” che aveva profondamente mobilitato le masse lavoratrici italiane, portandole solo pochi anni prima – nelle more dell’autunno caldo (1969) – a ottenere il più grande miglioramento storico delle proprie condizioni. Così l’incontro fra Fantozzi e l’unico dipendente marxista della Megaditta – la “pecora rossa” Folagra, dalle sembianze garibaldine e ostracizzato da tutti – produrrà nel ragioniere un sussulto di effimera “coscienza”, culminante in un gesto di simbolica rivolta (l’infrazione di una vetrata della sede centrale con un sasso) contro la “gerarchia naturale” della società cui aveva sempre ciecamente creduto: «ma allora m’han sempre preso per il culo! Loro il padronato, le multinazionali… per 20 anni m’han lasciato credere che mi facevano lavorare perché loro sono buoni». Ribellione inaspettata e vana, che verrà infatti immediatamente soffocata dalla semplice apparizione del padrone, al quale basterà solo rivolgere la parola al suo sottoposto, con assurdo fare “francescano”, per decretarne il rientro disciplinato e contrito fra i ranghi della macchina capitalista.

Di quella stessa azienda elefantiaca – il calco sulla Montedison nata nel 1966 è fin troppo evidente – di cui nonostante la bulimia settoriale, non si vedono mai gli operai, ma solo e sempre i ceti “improduttivi”, come gli impiegati e i dirigenti. È in questo senso che va interpretata la scelta di effettuare le riprese filmiche principalmente a Roma: metropoli che incarnava, soprattutto all’indomani del boom (si veda, Il padre di famiglia di Nanni Loy, 1967), uno sviluppo edilizio selvaggio e malato (la casa di Fantozzi lambita dalla sopraelevata esiste davvero e si trova sulla via Casilina) e un sistema economico tendenzialmente parassitario, povero in industrie ma forte in burocrazia, speculazione e spesa pubblica (la sede della Megaditta, altro non è se non l’attuale Palazzo della Regione Lazio).

Accanto a questa mercificazione necrotizzante a più dimensioni, opera poi una serafica riaffermazione dell’atavico sistema feudale italiano, che riproduce il suo potere assoluto per “ereditarietà”. Una casta destinata per nascita e cumuli araldici a comandare: Megadirettori Galattici, Clamorosi Duca Conti Ingegneri, Gran Maestri Onorevoli Conti, con cani da guardia di ascendenza zarista («Ivan il Terribile XXXII, discendente diretto di Ivan il Terribile I, appartenuto allo Zar Nicola, leggendario campione di caccia al mugico nella steppa, e fucilato come nemico del popolo durante la Rivoluzione di Ottobre sulla Piazza Rossa»), che hanno trovato nella precarizzazione lavorativa di salariati sempre più assuefatti a un consumismo autistico, il più moderno capestro per una nuova servitù della gleba. Soprattutto borghesi piccoli piccoli – obbligati a darsi costantemente del Lei e ad anteporre sempre ridicoli titoli (ragioniere, geometra… signorina, sic!) alla propria anagrafe per elemosinare un alone d’identità, nella convinzione che “diploma” e “colletto bianco” li abbiano affrancati dallo stigma della manualità rurale – ridotti ad “attendenti al soglio”, a poltrone di pelle umana e a parafulmini. Villaggio dona così fisionomia satirica a quella scissione fra “status sociale” ascendente e “condizione materiale” discendente, che il coevo sociologo Filippo Barbano individuava come primaria forma di depressione e spaesamento dei ceti medi italiani nel post-sessantotto.

Fra i signori di sempre e i nuovi assoggettati non c’è altro che una spaventosamente asimmetrica relazione di sfruttamento: tutto li separa, dall’arte (il film cecoslovacco con i sottotitoli in tedesco che rovina la serata del “rutto libero” di fronte alla partita della nazionale più incredibile di sempre), allo stare a tavola (un Fantozzi in scandaloso completo fuori misura che si umilia, fino al collasso cardiorespiratorio, nel tentativo di mangiare con coltello e forchetta un tordo, durante una cena di gala nella villa dei padroni), fino all’italiano, lingua sempre più corrotta e indebolita da incultura e analfabetismo di ritorno (i mitici congiuntivi condizionali).
La morale tutt’oggi validissima di questa “rappresentazione figurale” della crisi borghese iniziata nel cuore degli anni ’70, con i primi cicli di stagflazione della storia repubblicana, è che la libertà non sta meccanicamente nella fuoriuscita dall’indigenza e nell’ingresso nella società di consumo; che il lavoro continua ad alienare l’uomo anche se si pulisce le mani dal grasso e dal fango, per impugnare un timbro e battere a macchina; che, di nuovo pasolinianamente, lo sviluppo materiale non implica necessariamente il progresso civile, soprattutto nel Paese del gattopardo. «Perché gli ultimi saranno gli ultimi, se i primi sono irraggiungibili» (Frankie hi nrg, Quelli che benpensano, 1997).