Musei universitari come patrimonio culturale delle città. Intervista a Roberto Balzani

Roberto Balzani, professore ordinario di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna, dirige dal 2015 il Sistema Museale d’Ateneo (SMA) dell’Alma Mater e dal 2017 è Presidente dell’Istituto dei Beni Artistici, Culturali e Naturali (IBC) della Regione Emilia-Romagna. L’intervista è a cura di Eloisa Betti e Carlo De Maria.

Qual è il ruolo dei Musei universitari nel più ampio sistema museale cittadino, che funzione hanno per il territorio e quale per l’Università? 

Sono convinto che i Musei tendano ad essere delle monadi, nel senso che sono delle istituzioni che tendono all’auto-referenzialità, mentre gli oggetti sono nomadi, entrano in una sfera e vanno in un’altra: cambiano i tempi e le narrazioni, le semantiche, il senso stesso. Noi dobbiamo rendere il Museo meno monade e più legato al nomadismo degli oggetti, perché solo in questa maniera si riesce a disegnare il senso di un percorso plurisecolare della città.

Come strumento ci siamo dati un bilancio sociale realistico, che crediamo rappresenti una tappa per misurare i progetti e i programmi futuri, come deve fare qualunque seria istituzione. Oltre all’Università di Bologna, che ha il suo bilancio sociale, lo SMA è l’unica altra istituzione dell’Università ad avere un proprio bilancio sociale con il quale intende disegnare alcuni scenari. Questi scenari potrebbero essere, da un lato, il compattamento di alcune collezioni: 14 collezioni aperte al pubblico sono troppe, evidentemente. Dall’altra, però, esiste la necessità di non togliere senso ai percorsi di accumulo delle collezioni: abbiamo, quindi, bisogno di depositi. Un sistema museale che si rispetti richiede un deposito attrezzato di tipo moderno. Il deposito è la base di un museo e spero di riuscire a realizzarlo entro quest’anno, per collocarvi una parte delle collezioni che decidiamo di studiare e non esporre al pubblico, in una fase in cui le riconfiguriamo.

Oltre a questo, dobbiamo dedicare un’attenzione maggiore all’esposizione degli oggetti di tipo fisico e scientifico di Palazzo Poggi, che oggi sono difficili da comunicare. Si impone, quindi, l’esigenza di un riallestimento di Palazzo Poggi, così come la necessità di ripensare Via Selmi, che è un grande museo di storia naturale, che convive però con diversi dipartimenti ed è oggi troppo disorganico per essere davvero fruito in maniera corretta. Lì ci sarà davvero bisogno di un intervento di più lungo respiro per fare un unico museo dell’evoluzione o di storia naturale dell’Università di Bologna. Per fare questo ci vogliono molte risorse e quello che stiamo cercando di fare è ampliare lo spettro della funzione sociale del Museo per avere maggiori risorse dall’esterno e riuscire a giustificare maggiori investimenti da parte dell’Ateneo. 

Quali sono stati i principali cambiamenti introdotti negli ultimi anni e le trasformazioni più significative?

Ci siamo impegnati a istituire dei meccanismi di controllo delle funzioni, cioè non soltanto per quello che riguardava il monitoraggio delle collezioni e dei visitatori, ma anche per quanto concerne la professionalità degli addetti. Dentro il Sistema Museale di Ateneo lavorano addetti identificati sulla base delle due categorie “amministrativa” e “tecnica”, ma in realtà ci sono delle professionalità specifiche che oggi non sono più riconosciute, come invece avveniva un tempo. La mia idea è stata quella di cercare di aumentare il tasso di professionalità degli addetti, quindi consentire loro di andare fuori, in giro per l’Europa, per rendersi conto di come si realizzano catalogazioni, allestimenti e interventi di restauro. Sono riuscito così a professionalizzare il mio piccolo corpo di tecnici e amministrativi, che costituisce ora una specie di “piccola sovrintendenza” dell’Ateneo: tutti i dipartimenti che hanno un oggetto sanno che esiste un centro che si può occupare specificamente di dargli un senso, catalogandolo, custodendolo e valorizzandolo. E questo è, secondo me, un grande obiettivo raggiunto perché significa aver reso consapevoli del patrimonio tutti gli attori: non si stratta più di beni che fanno capo a filiere di settori disciplinari, ma sono oggetti che sono fuoriusciti da questi settori disciplinari e sono andati a costituire un grande patrimonio, un “deposito di senso”, che in parte dipende dalla ricerca e in parte è diventato qualcos’altro.

Mi sono impegnato altresì per fare in modo che i referenti scientifici fossero tutti professori in attività e non professori in pensione, come un tempo. E questo perché i referenti scientifici, che sono il collegamento con i dipartimenti, devono portare dentro le collezioni e i musei gli studenti, i ricercatori, i tesisti e quindi devono far vivere le collezioni. Persone che sono fuori dall’attività ordinaria evidentemente non hanno più questa possibilità. Si è trattato di un passaggio non semplice e che per realizzarsi ha dovuto superare molte resistenze, come si può immaginare.

I musei universitari hanno una storia importante, spesso poco nota. Quali sono le innovazioni possibili nelle attività di valorizzazione e comunicazione? 

Sulle attività di comunicazione abbiamo potenziato alcuni canali. C’era già un sito discreto, abbiamo aggiunto la newsletter, che è presente in tutti i musei degni di questo nome, e siamo entrati, in accordo con il Comune, all’interno della card dei Musei metropolitani di Bologna, in modo da collocarci stabilmente nella sfera dell’offerta culturale territoriale. Non dobbiamo dimenticare che i Musei universitari e in particolare le Collezioni Aldrovandi e Cospi sono all’origine di tutti i Musei comunali della città, se escludiamo la Pinacoteca, e di conseguenza le corrispondenze sono infinite. Riuscire a fare percorsi didattici che rivelino questa sorta di “grande mappa del senso” che va da Piazza Maggiore fino ai viali e in fondo a Via Zamboni, che cuce tra loro una serie di luoghi e percorsi, secondo me è una delle grandi risorse della città di Bologna, una potenzialità che pochissime città hanno. Qui abbiamo un vero e proprio quartiere dei Musei, nell’arco di poche centinaia di metri. Dobbiamo valorizzarlo e comunicarlo in questa chiave.

In questo senso è fondamentale stabilire un rapporto strutturale con la Biblioteca universitaria, che è un grande Palazzo del Patrimonio, dove portare anche l’Archivio storico dell’Università. Intorno a Palazzo Poggi è possibile riconfigurare questa parte di Via Zamboni 33-35, sempre meno luogo di insegnamento, sempre più luogo di rappresentanza e cittadella dei Musei. Entro il 2018-19, verrà terminato il restauro della Torre della Specola con un’illuminazione particolare che ristabilirà una sorta di verticalità esclamativa dei luoghi dei Musei, rendendolo una specie di pennone del Quartiere museale. Parallelamente stiamo mappando l’entità degli importanti beni dell’Università, ad esempio la Palazzina della Viola, ma ce ne sono moltissimi altri: beni culturali e fondi archivistici fino ad ora non sufficientemente valorizzati e, talvolta, pressoché sconosciuti.

Pensando al futuro, sarà importante intensificare gli scambi e la circolazione di informazioni ed esperienze con i sistemi museali di altri atenei, come Padova, Pavia, Firenze, Torino, Pisa, con i quali abbiamo già ottimi rapporti. La Terza missione sul tema del patrimonio (cioè, la valorizzazione e l’impiego delle conoscenze per contribuire allo sviluppo sociale) spinge queste strutture a collaborare per misurarsi. E visto che noi partecipiamo da alcuni anni al Salone del Restauro e dei Musei di Ferrara, nel 2018 ci proponiamo di fare un convegno proprio sulla scheda della Terza missione per i Musei accademici, chiamando tutti i colleghi a discuterne.

A livello internazionale, infine, un sistema museale d’ateneo di questa rilevanza può consentire all’Università di Bologna di rafforzare la propria immagine nel mondo. Ci sono pochissime università a livello globale che possono permettersi tale lusso. Tra queste Oxford, che ha il museo universitario più importante del mondo, con il quale abbiamo stabilito una convenzione finalizzata allo studio della sostenibilità dei sistemi museali universitari.

E quali eventi/iniziative ritiene importante ricordare tra quelli che hanno visto recentemente protagonista il Sistema Museale?

Tra le cose che mi piace ricordare c’è, ad esempio, la valorizzazione della collezione di stampe giapponesi. Sulla base di una convenzione con la Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, il Museo di Palazzo Poggi è depositario di questa grande collezione che siamo impegnati a rinfrescare ogni tre-quattro mesi. Abbiamo constatato che esiste una grande attenzione per questa forma di espressione, e non solo da parte della comunità giapponese. Ciò mi ha fatto comprendere le possibilità di espansione degli interessi potenziali del Museo, che non sono solo di tipo scientifico ma anche di tipo artistico. Sempre parlando di stampe giapponesi, l’altra cosa che mi è balzata agli occhi sono le relazioni internazionali: le università giapponesi sono interessate a creare scambi con noi, dando vita a una sorta di dialogo tra le collezioni giapponesi e quelle scientifiche.

Sempre sul versante internazionale, stiamo stabilendo relazioni con l’Università Complutense di Madrid in merito al restauro delle cere, per costruire un laboratorio che funzioni sia per i nostri ragazzi che per i loro, naturalmente con l’aiuto dell’Opificio delle pietre dure di Firenze, che è la maggiore struttura statale che si occupa di queste cose. In questo modo, vorremmo anche portare dentro i Musei un’attività di tipo professionale, legata agli aspetti della formazione.