Differenze fra paesi in Europa: scarti e convergenze in una prospettiva di genere, di generazione, di classe

Differences between countries in Europe: gaps and convergences from a gender, generation and class perspective

In apertura: «Donne votiamo per l’Europa. Prima elezione europea: 10 giugno 1979», manifesto, Archivio Udi Bologna.

1. Esistono in Europa delle aree culturali?

Con questo articolo vorrei contribuire a una riflessione su quanto l’unificazione europea abbia rafforzato la condivisione di una identità comune ai paesi membri, sotto il versante degli stili e delle chances di vita. La letteratura sull’identità europea condivide, pur con sfumature mutevoli, una lettura della cultura europea basata dell’idea di fondo di un’unità fra diversi, nella quale si compongono orientamenti plurimi sul terreno culturale e politico1.

In questa stessa prospettiva si è mosso un libro non recente, che ha offerto un contributo importante a una definizione più concreta delle diverse tradizioni, riassumendo la riflessione etnografica sul tema e utilizzandola per tracciare linee di distinzione fra aree diverse. La ricostruzione in chiave etnografica delle fratture etniche, culturali, che hanno attraversato nel passato il mondo europeo, creando modi diversi di stare insieme, e che ancora contribuiscono a definirne le articolazioni interne, è stata oggetto della riflessione dei due sociologi Olivier Galland e Yannick Lemel, che hanno dato una risposta analitica e positiva alla domanda sulle diversità culturali2. Il racconto antropologico degli autori parte dalle società premoderne, necessariamente mutate negli ultimi due secoli. Le caratteristiche etniche sembrano tuttavia aver mantenuto un’influenza sui tratti attuali delle società europee, confermate dagli studi sui regimi di welfare.

Lo studio dei due autori individua alcune aree dotate di un buon grado di omogeneità interna, geograficamente contigue ma non sempre: anzitutto un’area mediterranea, le cui élites preindustriali, prevalentemente urbane, hanno avuto un ruolo importante nel frenare l’industrializzazione. La tessitura sociale dei flussi di fiducia, e quindi delle negoziazioni sociali, si appoggiava sull’onore personale dei capi delle famiglie, garantito peraltro dalla castità e dalla subordinazione delle donne. Anche le iniziative economiche si plasmavano lungo le linee parentali ascritte; di qui un’architettura relazionale gerarchica, che bloccava, sia da un punto di vista di classe che in termini di genere, lo sviluppo di relazioni fluide, aperte, fondate su una base paritaria e universalistica, capaci di evolvere lungo nuove linee, basate sulle competenze, la stima, la condivisione delle idee; tali tratti frenavano il costituirsi delle basi morali necessarie all’industrializzazione e alla nascita di società socialmente mobili.

I tratti antichi si evolvevano con il mutamento sociale novecentesco, che tuttavia integrava alcuni di questi aspetti, destinati a tornare in primo piano negli studi degli anni Novanta sui regimi di welfare. Questi avevano identificato nel carattere familista, gerarchico, particolarista dei sistemi sociali delle società mediterranee, da quella iberica alla Grecia e all’Italia, lineamenti che si perpetuavano nella costruzione dei sistemi di welfare, impedendo lo sviluppo di sistemi di assistenza e solidarietà universalistici. Gli autori descrivono inoltre una seconda area, definita dagli antropologi “germanica”, localizzata a Sud del Baltico, costituita dai germani dell’Europa centrale, che avevano popolato anche la Francia; e infine una terza area, quella “scandinava”, formata dai germani del Nord. Se l’area germanica centrale appariva caratterizzata dalla subordinazione e dalla fedeltà della comunità al capo, in quella scandinava le rigide condizioni climatiche avevano prodotto una solidarietà comunitaria forte ma più orizzontale, che si esprimeva nella costruzione di società ordinate, attivistiche e produttive, basate su obbligazioni di fedeltà al gruppo, sulla lealtà nel dare il proprio contributo all’impegno collettivo, con cui ciascuno, per meritare l’inclusione, raccordava il proprio percorso individuale. Senso del dovere e senso civico, enfatizzati dalla svolta religiosa luterana, costituivano le basi delle società scandinave.

In che misura i dati che raccoglieremo in queste pagine riflettono ancora questi tratti originari? Quali elementi accelerano e frenano i processi di convergenza verso una più profonda unità dei valori europei? Come hanno giocato le fasi di sviluppo economico e i momenti di regressione, di crisi e di trasformazione, a partire dalla riaffermazione dell’egemonia liberista nelle politiche europee, scandita dalle politiche anglosassoni degli anni Settanta, dalla caduta del muro di Berlino, e le recessioni del nuovo secolo?

La mia riflessione utilizza soprattutto informazioni quantitative basate sui dati Eurostat e OCSE, e per questo è necessario riconoscerne la parzialità. Credo però che una cornice statistica comparativa, abituale nei report delle istituzioni statistiche, debba superare questi confini per favorire una riflessione scientifica più ampia e condivisa. Ci chiediamo dunque in queste pagine in quale grado, in presenza di tratti originari distinti, la costruzione europea abbia contribuito a omogeneizzare i modi di vivere, costruendo valori e simboli comuni, incorporati in direttive, norme, politiche. Guarderemo in particolare ad alcuni paesi europei, significativi per una tipizzazione e un confronto. Su questo sfondo metteremo in evidenza lo specifico percorso italiano.

2. Culture della famiglia e trasformazioni: Europa e Italia

Una dimensione importante delle differenze culturali è costituita dai modi di fare famiglia. La centralità dei legami familiari come forme coesive che si oppongono all’individualizzazione tipica della modernità occidentale è un topos classico nelle scienze sociali, soprattutto con riferimento ai percorsi lenti e parziali dei paesi mediterranei3. Nelle pagine che seguono getteremo uno sguardo al cambiamento, lungo il susseguirsi di fasi di sviluppo e di crisi economica che hanno caratterizzato l’Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale.

L’istituzionalizzazione della famiglia coniugale, in Europa, ha raggiunto livelli inediti negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, che rappresentarono l’età d’oro del matrimonio. L’età media al primo matrimonio, dal secondo dopoguerra ai primi anni Settanta, declinò, come è stato documentato dagli studi demografici4. Nel 1960 il tasso lordo di matrimonio (numero di matrimoni pesato sulla popolazione) mostrava percentuali di nuzialità elevate, fra il 6 e l’11%5. Le culture autoritarie e sessiste dei regimi fascisti, sconfitti nella guerra mondiale, rallentarono nei paesi coinvolti (Spagna, Germania e Italia) l’accesso a valori individualistici: ancora nel 1972, l’Italia, nella graduatoria europea, si trovava in una posizione superiore a quella di Germania e Svezia. Anche i paesi del blocco sovietico, Polonia e Romania, avevano una nuzialità elevata. In Italia questa fu una stagione di declino della partecipazione al lavoro delle donne, soprattutto se sposate, dovuto all’esodo rurale e al passaggio delle contadine dal lavoro agricolo a una condizione di domesticità nel mondo suburbano. Lo scarto fra le loro competenze e i caratteri della domanda di lavoro cittadina si accompagnava a una diffusa adesione ai modelli di domesticità proposti dalla Chiesa e dal partito cattolico6.

Ma, nel volgere di pochi anni, la scolarizzazione condusse le generazioni femminili più giovani ad accedere a modelli di vita più individuali, in un processo coronato nel biennio 1968-1969 dalla partecipazione delle giovani di ceto medio ai movimenti studenteschi, e negli anni Settanta dalla formazione di ampi gruppi femministi, non solo borghesi e intermedi ma di classe operaia, grazie all’esperienza del femminismo sindacale7. La riforma del diritto di famiglia del 1975 e la legge di parità nel lavoro del 1977 segnarono una svolta, con il superamento giuridico della minorità femminile e il passaggio da un assetto patriarcale ad una società post-patriarcale8.

I comportamenti familiari e il rapporto col lavoro iniziarono a mutare. L’età al matrimonio crebbe in tutta Europa, in sincronia con l’aumento della partecipazione femminile al lavoro: una inversione che raggiunse consistenza e visibilità in Italia solo dopo il 1973. Dal 1960 calava in tutti i paesi qui considerati il tasso lordo di matrimonio, più rapidamente in quelli latini come Francia, Spagna e Italia, che, nel pieno della crisi economica iniziata nel 2008, ripiegarono su posizioni inferiori a quelle di Svezia e Germania, con uno scarto che mostrava ormai la maggior propensione alle nozze nei paesi più ricchi e meno toccati dalle crisi. L’Italia, che nel 1960 aveva un tasso superiore a quello svedese, nel 2020 giunge allo scalino più basso d’Europa, con un tasso di matrimonio dell’1,6%.

Fig. 1. Tasso lordo di matrimonio. Intervalli quadriennali. 1960-2018. Fonte: Eurostat.

Il processo di individualizzazione italiano, segnalato dal declino della coppia coniugale, avveniva dunque in un contesto di inedita insicurezza economica. Esso si associò ad un’accelerazione del processo di secolarizzazione, resa eloquente dalla curva dei matrimoni celebrati con rito civile. La curva dei matrimoni civili, disponibile dal 1930, mostra una diminuzione iniziale, successiva al Concordato, che restituì un valore civile al matrimonio religioso. Vi fu poi un ventennio di stabilità, dal 1948 al 1967, quando il matrimonio religioso divenne comportamento comune. La quota dei matrimoni civili, anzi, scese dopo la guerra di qualche punto. Il rito religioso declinò dopo il 1968 e, con un gradiente più intenso, dalla fine degli anni Novanta: non in una fase di sviluppo dell’economia e dell’occupazione femminile ma, al contrario, in una stagione critica, di rallentamento, di cui tuttora non vediamo la fine. Il 2018 ha segnato per la prima volta un lieve sorpasso del rito civile, con il 50,1%, su quello religioso (fig. 3). Ma nel 2020 i matrimoni civili sono divenuti una larga maggioranza, con un valore percentuale del 71,1%.

Fig. 2. Matrimoni celebrati con rito civile. Percentuale sul totale. Serie storica 1930-2018 (valori assoluti e composizioni percentuali). Fonte: Istat. Nota: i dati nulli degli anni 1942-1946 sono in realtà dati mancanti nella fonte.

Fig. 3. Divorzi per 100 matrimoni in alcuni paesi europei. Serie storica 1960-2018. Fonte: Eurostat.

La comparazione fra gli andamenti nazionali dei divorzi completa il quadro9. Osteggiato con forza dalla Chiesa, il divorzio, introdotto nel 1970, superò lo scoglio del referendum abrogativo ma tardò ad estendersi alla maggior parte della popolazione, proprio per l’influenza del cattolicesimo sui modelli familiari. La distanza fra la bassa percentuale italiana e quella dei paesi non cattolici era altissima durante gli anni Settanta e Ottanta. Rimasta a lungo in una posizione bassa, la curva italiana salì lentamente e si impennò dopo il 2008, in piena crisi economica.

La storia recente della famiglia europea, alla luce delle scelte coniugali, ci parla di processi di secolarizzazione e deistituzionalizzazione diversi nella cronologia. L’indebolimento della coppia tradizionale, sposata indissolubilmente con rito religioso, avviene nei paesi non cattolici, e in particolare in Svezia, negli anni Settanta, cioè nel ciclo di modernizzazione e individualizzazione immediatamente successivo alla fase di crescita più intensa. Più progressivo il percorso della Germania.

La famiglia italiana resta a lungo poco permeabile a questo cambiamento ma la curva si impenna sotto la pressione della stagnazione e della recessione, convergendo con quella dei paesi secolarizzati da più tempo. Si tratta di un andamento controintuitivo, in contrasto con la diffusa idea che i processi di individualizzazione e di deistituzionalizzazione della famiglia si rafforzino in sincronia con lo sviluppo economico, e rallentino in tempo di crisi. Possiamo introdurre l’ipotesi che processi di individualizzazione e secolarizzazione siano stati rallentati in Italia dalla Chiesa attraverso il canale del partito di governo cattolico, la Democrazia Cristiana, e accelerati a fine Novecento, con una significativa sincronia con la scomparsa di tale partito.

Ma il declino della stabilità della coppia convive in Italia con un rafforzamento della protezione dei genitori verso i figli: i paesi più poveri e periferici (a Sud e a Est) rispetto al nucleo forte nordico e tedesco dell’Europa sono quelli nei quali anche in passato i giovani maschi lasciavano tardi (o mai) la casa dei genitori, mentre nei paesi nordici lo facevano presto per studiare o andare al servizio in casa d’altri; una ulteriore dilatazione del fenomeno si delinea negli anni successivi alla crisi del 2008 e all’emergenza pandemica. L’Italia, da sempre in cima alla graduatoria, sviluppa ulteriormente il fenomeno, seguita da Spagna, Polonia, Romania: paesi cattolici o ortodossi, di cui due ex sovietici, protagonisti di storie di sviluppo economico a basso tasso di individualismo.

Fig. 4. Percentuale di giovani adulti in età 18-34 anni che vivono con i genitori in alcuni paesi europei. Serie storica. Anni scelti. Fonte: Eurostat.

3. Istruzione e cultura: l’Italia in Europa

Il mutamento culturale italiano, visibile nei comportamenti familiari, si è svolto in parziale sincronia con la trasformazione dei livelli e dei modelli della scolarizzazione, con accelerazioni nei livelli medi e alti di istruzione nei tardi anni Sessanta e dagli anni Novanta. La frequenza della scuola secondaria di secondo grado è cresciuta lentamente nei primi decenni postbellici: le italiane che conseguivano quel titolo di studio superavano appena il 20% del totale nei primi anni Sessanta. Da allora il numero delle diplomate di scuola secondaria superiore è aumentato fino a coinvolgere, alla fine degli anni Settanta, quasi la metà delle italiane, pur in presenza di un temporaneo allargamento del gender gap a loro sfavore.

Nel periodo successivo si registra un processo di convergenza, più intensa nel caso italiano che in quello spagnolo (fig. 10). Il confronto con l’Europa è possibile solo a partire dagli anni Novanta. Una quota più alta di diplomati e diplomate delle secondarie caratterizza i paesi più industrializzati e meno terziarizzati in termini di occupazione: Italia e Germania si sovrappongono nel caso dei giovani e sono molto vicine in quello delle giovani. Francia Germania e Svezia mostrano un declino che registra la crescita dei laureati, fenomeno che non si verifica nei due paesi mediterranei, dove la tenuta e l’aumento della frequenza della secondaria si svolgono riducendo la quota dell’istruzione secondaria inferiore. La percentuale italiana è al maschile intorno al 50% alla fine del processo, inferiore solo a quella dei paesi ex sovietici, orientati dal dopoguerra a rendere universale il diploma secondario.

Fig. 5a. Percentuale di giovani di 25-34 anni con istruzione secondaria superiore per genere. Serie storica 1992-2021. Anni scelti. Maschi. Fonte: Eurostat.

Fig. 5b. Percentuale di giovani di 25-34 anni con istruzione secondaria superiore per genere. Serie storica 1992-2021. Anni scelti. Femmine. Fonte: Eurostat.

La convergenza europea nei livelli di istruzione secondaria si associa a quella dei tassi di abbandono scolastico, un processo stimolato dalla politica europea, che per il 2030 ha posto l’obiettivo di un livello massimo del 9%. Il traguardo è più vicino in Italia per le donne che per gli uomini, con un gap di 4 punti. I livelli italiani sono comunque elevati rispetto a quelli dei paesi più ricchi, Germania e Svezia, che registrano però un aumento degli abbandoni. Il caso rumeno emerge per l’alto livello di abbandono femminile.

Il fenomeno della sovra-educazione femminile è trasversale alle società terziarizzate, ma in Italia ha una torsione particolare, che combina un’istruzione terziaria femminile non elevata con un forte gap di genere a favore delle donne, conseguente ad una percentuale particolarmente bassa di giovani maschi laureati. In termini di istruzione terziaria, tuttavia, anche le donne sono decisamente svantaggiate, nelle due economie più industrializzate (Italia e Germania), rispetto a quelle delle società più specializzate nei servizi. Lo svantaggio italiano è dunque trasversale ai generi, ed è dovuto anche alla circostanza che l’Italia, come i due paesi ex sovietici, la più ricca Polonia e la fragile Romania, ha contratto nel 2021 il suo numero di laureati e laureate, rivelando un’incertezza diffusa sul valore assunto dalla laurea in tempi di crisi e di emergenza pandemica.

Fig. 6a. Percentuale di giovani di 18-24 anni che hanno abbandonato gli studi. Serie storica 1992-2021. Anni scelti. Maschi. Fonte: Eurostat.

Fig. 6b. Percentuale di giovani di 18-24 anni che hanno abbandonato gli studi. Serie storica 1992-2021. Anni scelti. Femmine. Fonte: Eurostat.

Il processo di terziarizzazione e l’innalzamento dell’istruzione femminile si alimentano reciprocamente in un circolo virtuoso, che in Italia è tuttavia compresso dal perdurare degli stereotipi di genere e dai limiti dell’occupazione terziaria. Questo fenomeno si declina in forme acute nel Sud Italia, dove peraltro la femminilizzazione dei lavori più stabili e sicuri, come quelli del pubblico impiego, è particolarmente lenta, per un effetto di razionamento del lavoro a favore degli uomini. L’ideologia della domesticità e il ritardo nei processi di istruzione si rafforzano nei contesti dove c’è poca occupazione per gli uomini. La questione dei livelli di istruzione incrocia, oltre al tema della dimensione quantitativa del terziario, quello della sua qualità e della sua struttura. Il terziario italiano, non soltanto nel Meridione, appare sbilanciato verso servizi privati dequalificati e spesso svolti in nero, dal turismo ai servizi privati, dalle pulizie alle lavanderie, alle forme più precarie di lavoro autonomo. Tutti questi aspetti retroagiscono a loro volta in modo negativo sulla domanda di istruzione10.

Fig. 7a. Percentuale di giovani di 25-34 anni con istruzione terziaria. Serie storica 1992-2021. Anni scelti. Maschi. Fonte: Eurostat.

Fig. 7b. Percentuale di giovani di 25-34 anni con istruzione terziaria. Serie storica 1992-2021. Anni scelti. Femmine. Fonte: Eurostat.

La distanza fra paesi in termini di istruzione terziaria è cresciuta negli anni Novanta, contraddicendo le prospettive di convergenza che l’Europa, almeno sulla carta, auspica da tempo ma che il recupero successivo non è riuscito a compensare. Il deficit di istruzione dei giovani italiani è un elemento negativo e preoccupante per la sua influenza su numerose variabili, fra le quali emergono la partecipazione culturale e la fiducia nel sistema politico e negli altri. La partecipazione culturale dei giovani italiani e delle giovani italiane appare decisamente meno intensa di quella dei cittadini nordici, e dunque coerente con livelli di istruzione secondaria superiore e terziaria contenuti dei giovani e delle giovani. Nell’ambito di un quadro di bassa partecipazione emerge in particolare la scarsa frequentazione di musei e siti culturali, non dissimile da quella dei giovani spagnoli, e decisamente distante da quella, elevata, dei coetanei svedesi. I profili di genere si differenziano in quasi tutti i paesi nella direzione di una maggior frequentazione da parte degli uomini di spettacoli cinematografici e di un maggior interesse delle donne per siti culturali e musei. Ma i casi della Svezia e della Francia mostrano gradienti più paritari o favorevoli alle donne. La consueta eccezione nordica si accompagna all’esempio francese di emancipazione e vivacità femminile.

Un altro aspetto delle differenze fra paesi nell’istruzione è il livello di fiducia dei cittadini nelle istituzioni politiche e negli altri. La tabella 1 e la figura 13 evidenziano forti differenze fra i cittadini dei diversi paesi europei per quanto riguarda la fiducia nei sistemi politici. In questo caso alla differenza di genere subentra una forte condivisione. Alla consueta scala da Sud a Nord si intreccia come in altri casi la logica specifica Ovest Est che vede i paesi ex sovietici in posizioni di significativa fiducia nel sistema politico, effetto forse, almeno in parte, di una condivisione del nazionalismo antisovietico. In Italia la fiducia, scoraggiata anche dalle strategie discorsive di forze antipolitiche, è notoriamente bassa e anzi, come notiamo in questi dati riferiti al 2013, la più bassa. La fiducia negli altri è più omogenea, nonostante i livelli più bassi della Francia e della Germania. Il caso italiano presenta qui un grado di fiducia quasi allineato con la media europea, e dunque una imprevista tendenza alla coesione sociale orizzontale, a contrasto con un disincanto politico particolarmente spinto.

La limitata istruzione di italiani e italiane è una concausa della scarsa fiducia nel sistema politico? È un fatto che, come mostrano la tabella 1 e il grafico con l’esempio dei giovani maschi, la fiducia aumenta in generale con il progredire dei livelli d’istruzione (tab. 1 e fig. 13).

Fig. 8. Frequenza della partecipazione culturale dei giovani dai 16 ai 29 anni negli ultimi 12 mesi (anno 2015). Fonte: Eurostat.


Tutti i livelli di istruzione

Fiducia nel sistema politico Maschi

Fiducia nel sistema politico Femmine

Fiducia
negli altri Maschi

Fiducia
negli altri Femmine

Spain

1,8

1,7

6,4

6,3

Italy

2,2

2,1

5,7

5,7

France

2,9

3,2

4,9

5,0

European Union

3,4

3,5

5,8

5,8

Poland

3,4

3,5

5,9

6,1

Germany

4,8

4,8

5,3

5,3

Romania

5,0

5,0

6,4

6,5

Sweden

5,5

5,7

6,6

6,7

Istruzione terziaria

Spain

2,1

1,7

6,6

6,6

Italy

2,4

2,2

6,0

6,2

France

3,5

3,6

5,5

5,4

Poland

3,8

3,9

6,0

6,2

Romania

5,0

5,3

6,5

6,8

Germany

5,8

5,5

5,9

6,0

Sweden

6,5

6,2

7,1

7,3

Tab. 1. Grado di fiducia nel sistema politico e negli altri di tutti i giovani di 25-34 e dei laureati istruzione e genere in alcuni paesi europei (anno 2013). Fonte: Eurostat.

Anche se lo scarto italiano fra giovani con tutti i livelli di istruzione e giovani con titoli terziari è di soli due centesimi di punto, il fattore “minore istruzione” gioca un ruolo in questa sfera.

Fig. 9. Grado di fiducia nel sistema politico di tutti i giovani di 25-34 e dei laureati istruzione e genere in alcuni paesi europei (anno 2013). Fonte: Eurostat.

4. Le donne e il lavoro nei paesi europei

A questo tema possiamo guardare in una prospettiva storica più lunga. Il primo indicatore disponibile, in senso temporale, del tasso di attività femminile nei paesi europei si riferisce al 1960, anno centrale del miracolo economico italiano e di una fase espansiva in tutta Europa. In questa data i tassi di attività femminili dell’Italia e dei grandi paesi continentali e nordici (Germania, Francia, Svezia) non erano troppo distanti. In Italia si rafforzava l’impiego femminile nei servizi privati ma era ancora il mondo agricolo a impegnare la gran parte dell’occupazione femminile. Solo più tardi, nel corso degli anni Sessanta, le curve si distanziarono: uscite dal mondo agricolo, molte italiane non trovarono, nei servizi privati in espansione e nell’industria, un contrappeso adeguato, e il tasso di occupazione si staccò da quello dei paesi economicamente più forti e moderni. Al maschile, nei decenni dal 1951 al 1971 il declino delle economie familiari contadine fu bilanciato al maschile da una più forte crescita dell’occupazione in edilizia e nell’industria, che in parte compensò la caduta del tasso di attività legata al declino agricolo, all’aumento dell’istruzione, ai pensionamenti.

La Spagna era nel 1960 in una posizione anche più bassa di quella italiana rispetto al gruppo dei paesi continentali e nordici, presumibilmente per un livello di occupazione femminile contenuto anche in agricoltura. In Italia la presenza femminile era storicamente elevata ma svalorizzata11. Nel mondo rurale nordico, invece, il contratto di genere fra i coniugi era meno asimmetrico e squilibrato12.

La curva tedesca era più elevata ma simile a quella italiana, con un tasso di attività femminile ancora decrescente fino al 1968; Svezia e Francia videro invece crescere la partecipazione in relazione a un aumento della domanda di lavoro femminile nei servizi che sostenne anche le remunerazioni13. In Svezia il settore pubblico crebbe in anticipo, attraendo un gran numero di lavoratrici14.

La graduatoria fra i paesi europei del 1960 rifletteva dimensioni e struttura della domanda di lavoro femminile, legate al peso del terziario nelle singole economie e al grado di apertura alle lavoratrici dei lavori urbani, industriali e terziari (fig. 1). Le scelte di sviluppo non erano tuttavia neutre dal punto di vista politico. La crescita delle industrie pesanti e dell’edilizia, poco femminilizzate, si accompagnò in Italia a un’espansione degli impieghi privati nei servizi, mentre la femminilizzazione della pubblica amministrazione fu tardiva15. I limiti della femminilizzazione dei servizi e la compressione del terziario pubblico erano anche il frutto dell’ideologia politica cattolica, che difendeva la famiglia tradizionale. Questi indirizzi si stringevano in un circolo vizioso con la lenta crescita dei livelli di istruzione femminile16. I caratteri della domanda si intrecciavano dunque con quelli dell’offerta, plasmate ambedue dai modelli culturali e dalle ideologie politiche dei diversi paesi, con gradi diversi di asimmetria di genere nei livelli di istruzione, nella divisione sessuale del lavoro, nell’apertura alle donne dello spazio pubblico.

L’inversione degli anni Settanta è particolarmente visibile in Italia e in secondo luogo in Germania. In Svezia l’aumento del tasso di attività precedeva gli anni Sessanta; in Francia era anticipato e in Spagna ritardato agli anni successivi alla caduta del regime di Francisco Franco. Successivamente il dato spagnolo ebbe una vistosa accelerazione che lo condusse a posizioni più elevate di quelle di Italia e Francia. Ma il tratto che caratterizzava l’Italia era, ancora, la lentezza del processo.

I grafici di più breve periodo sull’occupazione per genere mostrano la grave esposizione dell’Italia alle crisi del nuovo secolo. La curva maschile, come quella del caso spagnolo, parte nel 2006 da una posizione intermedia, si abbassa drasticamente con la crisi del 2008, converge poi con quella della Spagna e della Romania, che sembra poi meno colpita dalla crisi pandemica. Quella femminile è dal 2015 la più bassa d’Europa, e cresce poi lentamente, con una brusca inversione negativa nel corso della pandemia. Si delinea in quest’ambito, come in altri analizzati in precedenza, una vicinanza inedita fra i profili dell’Europa mediterranea e quelli dei paesi ex sovietici, con particolare riferimento al più arretrato fra quelli qui studiati, la Romania. Si osserva in ogni caso, soprattutto al maschile, una tendenziale divergenza della curva rispetto a quelle dei paesi più forti.

Fig. 10. Tassi di attività femminili in alcuni paesi europei. Serie storica 1960-2008 (anni scelti). Fonte: Elaborazioni su Emilio Reyneri, Tabella 2.1, Sociologia del mercato del lavoro, p. 44.

L’aspetto culturale e politico dei livelli di occupazione femminile emerge dalla figura 12, che evidenzia il netto orientamento nord-sud e occidente-oriente dell’affidamento dei bambini agli asili nido e il peso delle tradizioni di sostegno alla famiglia di Francia e Svezia, la prima orientata inizialmente da valori nazionalisti e natalisti, la seconda che, nonostante l’indebolimento della politica socialdemocratica, evidenzia il persistente radicamento di una cultura dell’emancipazione femminile. Lo sviluppo del telelavoro, alimentato dalla pandemia, mostra profili coerenti con questi per genere e paese (figura 13). Sia i paesi mediterranei, sia i paesi ex sovietici, hanno un impegno in questo senso limitato rispetto, in primo luogo, alla Svezia, in secondo luogo alla Francia e alla Germania. In Spagna e in Polonia, e anche più in Italia, il ruolo femminile è divenendo prevalente rispetto a quello maschile, prospettando un discrimine di genere non più basato sui tipi di lavoro e di competenza, ma sulla tradizionale divisione dei ruoli sessuali, con un richiamo delle donne a un tipo di lavoro conciliabile con le attività domestiche e di cura.

Le curve europee dell’occupazione giovanile, e in particolare quelle femminili, appaiono fluttuanti e sensibili alle crisi, a dimostrazione del carattere periferico di questa quota del lavoro, non stabilizzata e intrappolata in una lunga fase di accesso al lavoro. Guardando ai percorsi femminili notiamo per l’appunto che l’unica linea stabile è quella tedesca, mentre sul versante opposto, la volatilità si dilata nei casi di Italia e Spagna. Quello che colpisce è il processo di tendenziale divergenza fra i paesi europei, orientata in senso opposto rispetto agli obiettivi prospettati dall’Unione europea in molte occasioni, a partire dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000.

Fig. 11a. Tasso di occupazione della popolazione residente tra i 20 ai 64 anni per genere. Serie storica 2009-2021. Maschi. Fonte: Eurostat.

Fig. 11b. Tasso di occupazione della popolazione residente tra i 20 ai 64 anni per genere. Serie storica 2009-2021. Femmine. Fonte: Eurostat.

Fig. 12. Bambini in età inferiore ai 3 anni che ricevano assistenza formale nei servizi per l’infanzia. 2020. Fonte: Eurostat.

Fig. 13. Percentuale di occupati e occupate fra i 20 e i 49 anni che lavorano a casa. 2019 e 2020. Fonte: Eurostat.

5. La divergenza europea nel lavoro: più grave fra i giovani e le giovani

Dai percorsi dell’intera popolazione in età di lavoro isoliamo ora quelli sui soli giovani; questi esprimono effetti legati all’età, ma anche effetti di coorte, che potranno svilupparsi con la maturazione anagrafica delle generazioni. Questa seconda lettura getta una luce drammatica sul caso italiano. Tutte le curve europee dell’occupazione giovanile, e in particolare quelle femminili, appaiono fluttuanti e sensibili alle crisi, a dimostrazione del carattere periferico di questa quota del lavoro, non stabilizzata e intrappolata in una lunga fase di accesso al lavoro.

Più stabili le curve maschili, che tuttavia descrivono in modo particolarmente chiaro il declino italiano, inserito in un quadro di divergenza, disegnato anche dai percorsi di crescita dell’occupazione giovanile nei paesi ex sovietici, che superano alla fine i tassi di occupazione, pur elevati, di Germania e Svezia. Il tasso di occupazione maschile resta più alto di quello delle coetanee, ma si osserva un processo di convergenza che suggerisce l’idea di una “uguaglianza verso il basso.

Fig. 14a. Tasso di occupazione dei giovani e delle giovani di 25.29 anni. Serie storica 1992-2021. Anni scelti. Maschi. Fonte: Eurostat.

Fig. 14b. Tasso di occupazione dei giovani e delle giovani di 25.29 anni. Serie storica 1992-2021. Anni scelti. Femmine. Fonte: Eurostat.

Il declino italiano si esprime anche in termini di qualità dei contratti di lavoro, e anche questo deficit riguarda soprattutto i giovani e le giovani. La figura 17 mostra, negli anni iniziali, la forte vocazione al lavoro a tempo pieno condivisa da Italia, Germania, Romania e Polonia, paesi accomunati da una specializzazione economica industriale. Con l’andare del tempo solo i paesi ex sovietici mantengono tale propensione al tempo pieno, mentre la Germania, e soprattutto l’Italia, forte di una apertura giuridica a questo tipo di contratto (pensiamo al pacchetto Treu del 1997) estendono dal 2000 questa forma contrattuale. L’Italia quadruplica e oltre il suo dato: passa dal 13 al 44% ed è nel 2021 il terzo paese, fra quelli qui studiati, in termini di contratti part time giovanili.

Sul versante opposto la Svezia, che usa nella storia recente il contratto part-time soprattutto per il primo impiego, in relazione a un ampio ventaglio di opportunità che si offrono ai giovani nei servizi. Ma il punto che qualifica negativamente i lavori part-time delle giovani e delle giovani è il loro involontario intrappolamento in questa posizione, dovuto all’impossibilità di trasformarlo o di trovare un lavoro a tempo pieno. Ed è qui che vediamo la fragilità dell’Italia, seguita dalla Spagna (che mostra tuttavia un declino del fenomeno) e dalla Romania (che però ha poco part-time), e la forza della Germania, della Polonia e della Svezia.

Fig. 15. Percentuale di occupate-part time in età 15-24 anni. Serie storica 1983-2022. Intervalli biennali. Fonte: Eurostat.

Un’altra immagine eloquente di un mercato del lavoro ostile ai giovani riguarda il lavoro temporaneo. Utilizzato soprattutto in Spagna e al contrario limitato in Romania, dove tiene la tradizione dei paesi ex sovietici di un’occupazione prevalentemente a tempo pieno, ha avuto in Italia una fortissima crescita dagli anni Novanta.

Cresciuto per ambedue i generi, in Italia il lavoro temporaneo è aumentato soprattutto al femminile. Nel 2021 un terzo delle giovani donne lavorava, nel mercato del lavoro ufficiale, con questo tipo di contratto, estremamente volatile e destinato a ridursi con il mancato rinnovo soprattutto nei momenti di crisi, come mostrano la stasi seguita alla crisi del 2008 e le flessioni che hanno accompagnato la crisi derivata dalla pandemia.

La divergenza nel lavoro segnala il fallimento di una prospettiva europea condivisa sul punto più importante dell’agenda economica, accrescendo l’emarginazione dei paesi mediterranei e in particolare dell’Italia.

Fig. 16. Percentuale di donne in età 15-29 anni che svolgono un lavoro part-time involontario sul totale delle coetanee occupate part-time. Serie storica 1983-2021. Anni scelti. Fonte: Eurostat.

Fig. 17a. Giovani in età 25-34 anni che lavorano con contratti temporanei in percentuale sul totale degli occupati per genere. Dati storici 1995-2021. Anni scelti. Maschi. Fonte: Eurostat.

Fig. 17b. Giovani in età 25-34 anni che lavorano con contratti temporanei in percentuale sul totale degli occupati per genere. Dati storici 1995-2021. Anni scelti. Femmine. Fonte: Eurostat.

6. Chances di vita, diseguaglianze sociali, povertà

Un confronto fra dati di varia provenienza ci permette, infine, di affrontare nodi relativi alla qualità della vita e alla sua durata, che chiama in causa un intreccio di temi: diseguaglianze, povertà, speranze di vita. Emerge, fra queste dimensioni, una sfasatura temporale.

La vita si è allungata sia al maschile che al femminile. La differenza fra paesi è in parte legata alle vicende del passato, che ha agito sulla consistenza delle coorti. Su questo tema abbiamo allargato il confronto ad alcuni paesi dell’Europa orientale: vi abbiamo inserito, accanto a Polonia e Romania, confluite nell’Unione europea, Russia e Ucraina, due paesi esterni all’Unione. Negli stati occidentali, membri del nucleo fondativo dell’Europa dei 15, con una storia più antica di industrializzazione e di sviluppo sociale, la vita media è più lunga. La crescita delle speranze è più elevata nei paesi dell’Europa occidentale, a partire da una base iniziale che, già significativa nel dopoguerra, è aumentata con ritmi significativi dagli anni Sessanta.

Emerge da un lato, fra i casi nazionali qui raccolti, la Svezia, con il suo retaggio di politiche pubbliche che, prima e dopo i governi socialdemocratici, hanno ridotto la dipendenza dei cittadini dal mercato in tema di occupazione, sanità, istruzione, redditi. Anche da un punto di vista di genere le politiche assistenziali e previdenziali universalistiche, e l’attenzione ai servizi sociali hanno alimentato la parità. Citando Gøsta Esping Andersen possiamo dire che l’azione dello Stato ha demercificato una parte delle risorse vitali, sottraendo i cittadini all’insicurezza del mercato17. Dall’altro lato abbiamo i paesi mediterranei, come Spagna e Italia, dove cittadini e cittadine sono meno protetti, ma accedono comunque a servizi sanitari universalistici18. Questi paesi hanno goduto nel passato, e fino ad anni recenti, di forme di solidarietà affidate alla rete familiare estesa, che riducono la soggezione al mercato sul terreno abitativo e assistenziale: non solo i genitori verso i figli minori, ma tutti i membri, sono tenuti agli alimenti nei confronti di figli, genitori, fratelli, generi e nuore19. La diffusione della casa in proprietà, il prolungarsi della vita in famiglia dei giovani, gli aiuti reciproci fra genitori e figli sono caratteri dei paesi mediterranei che riducono la dipendenza dal mercato. Anche la trasmissione dei beni fra le generazioni è facilitata dalla scarsa consistenza dell’imposta di successione20. L’Italia è ad esempio, all’incrocio fra queste norme, uno dei paesi caratterizzati dal più ampio possesso di una casa in proprietà. Il ruolo antiegualitario della patrimonializzazione delle società, sottolineato da Thomas Piketty, è stato a lungo mitigato, nel caso italiano, dal suo carattere diffuso.

Molto diversa la storia dei paesi dell’Europa orientale, ex sovietici, caratterizzati da un declino dell’industria, e ancora largamente agricoli: qui la curva delle speranze di vita è più bassa, e l’aspettativa di vita, soprattutto maschile, è lontana dai livelli dell’Europa occidentale. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità, gli uomini russi, nonostante un aumento significativo, hanno nel 2020 una speranza di vita ancora bassa, di 68 anni, contro gli 81 di italiani e svedesi. Il declino delle speranze di vita è iniziato negli anni Settanta, per il degrado dei sistemi sanitari interni al mondo sovietico, di cui nella figura 18 osserviamo, ad esempio, i segni nella curva relativa alla Romania.

Un ulteriore passo indietro è avvenuto, negli anni Novanta, con la caduta dei benefici offerti ai lavoratori dalla legislazione comunista, l’ulteriore contrazione dei sistemi sanitari, la crisi del lavoro, e la disgregazione delle famiglie, con il conseguente aumento dei livelli di stress e l’ulteriore ricorso degli uomini al tradizionale abuso di alcol21. La brusca esposizione al mercato ha gettato i paesi dell’Europa orientale in una crisi profonda, da cui si sono ripresi più rapidamente quelli che hanno avuto accesso agli aiuti e al sostegno dell’Unione Europea, come Polonia e Romania.

Fig. 18a. Speranza di vita alla nascita femminili e maschili in alcuni paesi europei. 1965-2019. Anni scelti. Nostre elaborazioni. Maschi. Fonte: Eurostat.

Fig. 18b. Speranza di vita alla nascita femminili e maschili in alcuni paesi europei. 1965-2019. Anni scelti. Nostre elaborazioni. Femmine. Fonte: Eurostat.

La Germania, come la Russia, ha tardato a riprendersi dalle conseguenze della Seconda guerra mondiale in termini di mortalità maschile, ma oggi, insieme alla Svezia, è uno dei paesi dove gli uomini hanno speranze di vita più vicine a quelle femminili. Il gap a favore delle donne si allenta infatti nei paesi più ricchi, con una maggiore convergenza degli stili di vita e l’accesso degli uomini a lavori meno pesanti e pericolosi.

Come abbiamo premesso, la mappa europea delle speranze di vita non coincide con quella della diseguaglianza e della povertà. In questo caso i paesi mediterranei, invece di configurarsi come un’area privilegiata, appaiono, insieme alle società più deboli dell’ex Unione Sovietica, collocati nella parte della graduatoria più elevata. I dati negativi legati allo scarso dinamismo dell’economia e all’assenza di stati assistenziali universalistici ed efficienti non sembrano mitigati, in Italia e in Spagna, dai legami familiari, dallo scarso sradicamento territoriale, dai buoni stili di alimentazione. La durezza del clima nordico, come mostra il caso della Svezia, sembra compensata, sulla scia di quanto scrivono Roger Galland e Yannick Lemel, da una reazione culturale attivistica, universalistica e comunitaria, a sua volta radicata nella storia. Leggiamo in proposito i dati proposti dall’OCSE per i paesi ex comunisti esterni all’Unione Europea, ad esempio la Russia, che mostrava speranze di vita limitate, sono invece nella graduatoria OCSE in una posizione migliore (benché più bassa) di quella italiana.

Fig. 19. Rischio persistente di povertà in alcuni paesi europei 202022. Fonte: OCSE. Nota: i dati dell’Ucraina mancano nella fonte.

7. Considerazioni conclusive

Tornando alla questione iniziale, la presenza in Europa di aree culturali diverse e la loro vitalità, la nostra esplorazione ci permette di dire che tali differenze antropologiche appaiono per alcuni aspetti confermate e per altri ricomposte. Per quanto riguarda la famiglia, chiave cruciale della differenziazione culturale, dopo una lunga fase di diversità fra paesi mediterranei e paesi nordici vi è stata una tarda ma intensa convergenza nella destabilizzazione della coppia coniugale, associata a una crescita dell’istruzione e dell’individualizzazione femminile. Anche il declino della fecondità ha indebolito la famiglia restringendo la parentela orizzontale (fratelli, cugini). Un improvviso accelerarsi, nel secolo attuale, del processo di secolarizzazione dei paesi mediterranei ha contribuito a destabilizzare la famiglia. La perdita della tradizionale protezione familiare ha però coinciso con una tardiva divergenza fra paesi in termini di opportunità di lavoro, con un rallentamento particolare dell’Italia nell’occupazione maschile, femminile, giovanile, di cui tuttora non vediamo la fine. Questi due fenomeni opposti agiscono insieme delineando, nel Sud Europa, i tratti di una modernizzazione culturale senza sviluppo, di una crescita dei diritti individuali che non riesce a concretizzarsi in effettive chances di vita.

I valori europei si sono apparentemente avvicinati, ma forse sarebbe più corretto affermare che l’Italia ha perso i suoi punti d’appoggio tradizionali e specifici, che avevano sostenuto fra l’altro la stagione dell’industrializzazione familiare di piccola impresa, senza riuscire a rafforzarsi nei valori di attivismo economico e di impegno comunitario dei paesi nordici. Anche il progresso nell’istruzione è stato lento, segno di una rincorsa inefficace dei paesi più ricchi. Sembra dunque di essere di fronte ad un popolo smarrito, che affronta ma non riesce a compiere una dura transizione.

La questione di genere, dirimente sul terreno culturale, è una chiave importante di questo passaggio. Il processo di individualizzazione e di emancipazione delle donne, il vantaggio sugli uomini in termini di istruzione, il raggiungimento della parità nei diritti civili e del lavoro, si scontrano con le scarse opportunità di lavoro. Se dopo la crisi industriale del 2008, con il calo dell’occupazione maschile, si è profilata un’inedita “uguaglianza di genere verso il basso”23, la pandemia ha nuovamente rafforzato la disparità, richiamando le donne alla cura e allontanandole dalla sfera pubblica.

Lo scarto fra valori e opportunità ha contribuito a rafforzare la cultura del risentimento che alimenta i populismi. La scarsissima fiducia di italiani e italiane nel sistema politico si alimenta anche del basso livello di istruzione. E sul terreno specifico dei consumi culturali, con il loro bagaglio educativo limitato, le italiane e gli italiani si impegnano meno di altri paesi europei.

La divergenza economica e quella educativa rimandano ad una diseguaglianza di classe sottovalutata, dato che è l’ampia quota delle persone meno privilegiate o a rischio di povertà a fare la differenza fra paesi. Sotto questo profilo, le differenze culturali originarie fra le aree europee, che vedevano i paesi nordici come società più comunitarie e meno classiste e i paesi mediterranei, ma anche la Germania, come società più gerarchiche, sembrano riproporsi con il ridimensionarsi della fase dello sviluppo industriale. Anche il sistema di istruzione, orientato a una diffusione ampia delle scuole secondarie e a una limitata dell’istruzione terziaria, evidenzia il carattere più discriminatorio della scuola italiana e tedesca. Mentre la Svezia resta più ugualitaria nonostante il declino della socialdemocrazia, manifestando in questo un orientamento culturale radicato e profondo.

Nei paesi mediterranei e orientali la residua cultura patriarcale si esprime, oltre che nella fragilità della parità di genere, nel rapporto fra le generazioni, con la divaricazione delle opportunità di vita di anziani e giovani, questi ultimi penalizzati da istituzioni economiche chiuse e corporative, che ostacolano il ricambio generazionale. Perfino l’evoluzione della solidarietà familiare nella direzione della protezione dei pochi figli adulti implica e maschera il mancato empowerment economico dei figli e delle figlie e un limite dell’individualizzazione italiana. La tenuta e il rafforzamento della protezione dei genitori verso i figli implica inoltre la trasmissione intergenerazionale delle diseguaglianze: i paesi più poveri ed esterni (a Sud e a Est) rispetto al nucleo forte nordico e tedesco sono quelli che hanno avuto storicamente la percentuale più alta di giovani che uscivano tardi dalla casa dei genitori, ma dalla crisi del 2008 emerge un’ulteriore dilatazione del fenomeno. Si trasmettono su questo terreno le culture familiari tradizionali: sono infatti i paesi della famiglia contadina estesa a più generazioni quelli nei quali i percorsi di istruzione conducono solo raramente i giovani fuori dalla casa dei genitori. L’Italia ha sempre condotto questa graduatoria, con gli altri paesi cattolici o ortodossi protagonisti di storie di sviluppo economico a basso tasso di individualismo, ma con il protrarsi della crisi anche i genitori perdono la capacità economica di svolgere questo ruolo.

Emergono da questo quadro i termini di una pesante crisi, i cui sviluppi sono imprevedibili, ma estremamente preoccupanti. Un aspetto delicato è quello del rapporto fra impoverimento e speranze di vita. In Italia la posizione bassa nella graduatoria del rischio di povertà si oppone ad una ancora alta in quella delle speranze di vita. Uno scarto che suggerisce una lettura positiva e una negativa, non contraddittorie fra loro, che devono intrecciarsi in una corretta interpretazione: da un lato la speranza di vita misura aspetti non monetizzati del benessere personale, non riconducibili al reddito monetario (legami affettivi, scambio di servizi gratuiti, cura e accudimento, produzione familiare, sistemi di welfare) ma efficaci nel proteggere la vita delle persone; dall’altro vi è il rischio che lo scarto sia destinato a richiudersi in un futuro non lontano. Dopo la severa riduzione congiunturale delle speranze di vita subita da italiani e italiane con il Covid-19, e la parziale ripresa successiva24, la durata della vita potrebbe contrarsi con l’invecchiamento delle generazioni che hanno subito più delle precedenti una condizione di insicurezza e stress legata a bassi redditi, bassi salari, acute diseguaglianze, declino della parentela e della solidarietà di coppia.

Note

1 Furio Cerutti, Enno Rudolf (a cura di), Un’anima per l’Europa. Lessico di un’identità politica, Roma, ETS, 2002; Alberto Martinelli, L’identità europea, in “Quaderni di sociologia”, 2011, n. 55, pp. 41-51.

2 Olivier Galland, Yannick Lemel, Valori e culture in Europa, Bologna, Il Mulino, 2010; fra i molti libri che esplorano la complessità sociologica dell’Europa vedi in particolare Colin Crouch, Sociologia dell’Europa occidentale, Bologna, Il Mulino 2001.

3 Fra tutti Edward C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Bologna, Il Mulino, 2006.

4 Antonio Santini, La fecondità, in Marzio Barbagli, Chiara Saraceno (a cura di), Lo stato delle famiglie in Italia, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 113-121.

5 È pesato sull’intera popolazione e per questo può sembrare basso.

6 Alessandra Pescarolo, Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea, Roma, Viella, 2019.

7 Anna Frisone, Femminismo al lavoro. Come le donne hanno cambiato il sindacato in Italia e in Francia (1968-1983), Roma, Viella, 1920.

8 Göran Therborn, Between Sex and Power: Family in the World 1900-2000, Routledge, London, 2004.

9 L’indicatore misura la percentuale di divorzi sui matrimoni dell’anno in corso, e non la percentuale di matrimoni conclusi da un divorzio; per questo raggiunge un valore così elevato.

10 Confronti regionali e internazionali su questi temi in La condizione lavorativa ed economica delle donne, Rapporto 2011, a cura di Alessandra Pescarolo, IRPET-Regione Toscana, Firenze, 2011; La condizione lavorativa ed economica delle donne, Rapporto 2019, a cura di Natalia Faraoni e Donatella Marinari, Fondo sociale europeo – IRPET – Regione Toscana, Firenze, 2019.

11 Alessandra Pescarolo, Storia della famiglia e storia delle donne: un’attenzione diversa alla modernità, in “Contemporanea”, 2007, vol. 10, n. 3, pp. 527-531.

12 Emilio Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, vol.1, Il mercato del lavoro tra famiglia e welfare, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 4.

13 Riboud, Michelle, An Analysis of Women’s Labor Force Participation in France: Cross-Section Estimates and Time-Series Evidence, in “Journal of Labor Economics”, 1985, vol. 3, n. 1, pp. S177–S200. JSTOR, www.jstor.org/stable/2535002 (ultimo accesso: 15 giugno 2022).

14 Gustaffson Siv, Roger Jacobsson, Trends in Female Labour Force Partecipation in Sweden, “Journal of Labor Economics”, 2020, vol. 3, n. 1, Part 2, pp. S256-S274, www.jstor.org/stable/2535006, ultima consultazione: 15 giugno 2022.

15 Eloisa Betti, Il lavoro femminile nell’industria italiana. Gli anni del boom economico, in “Storicamente”, 2010, n. 6, http://storicamente.org/lavoro_femminile_donne, ultima consultazione: 15 giugno 2022.

16 Pescarolo, Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea, cit., p. 278.

17 Gøsta Esping-Andersen, I fondamenti sociali delle economie postindustriali, Bologna, Il Mulino, 2000.

18 Per una classificazione quadripartita dei paesi europei che incrocia la dimensione della crescita economica con quella della diseguaglianza Carlo Trigilia (a cura di), Capitalismi e democrazie. Si possono conciliare crescita e uguaglianza?, Bologna, Il Mulino, 2021.

19 Manuela Naldini e Chiara Saraceno, Sociologia della famiglia, Bologna, Il Mulino 2021.

20 Una limitata attenzione agli assetti specifici dei paesi di tradizione socialdemocratica, nel quadro delle politiche europee, che mi sembra una sottovalutazione, è presente in Thomas Piketty. Ad esempio in Una breve storia dell’uguaglianza, Milano, La nave di Teseo, 2021. Diversa l’impostazione del gruppo che ha lavorato a Trigilia, Capitalismi e democrazie. Sul welfare scandinavo si vedano anche i numerosi lavori di Paolo Borioni.

21 Giovanni Andrea Cornia, Renato Paniccià (a cura di), La crisi della mortalità nelle economie di transizione, Oxford Scholarship Online, 2011.

22 È il rapporto fra il numero di persone il cui reddito cade sotto la linea di povertà, considerata come la metà della mediana del reddito familiare della popolazione totale e la popolazione totale.

23 Più uguali in recessione? I nuovi dati Istat, in “InGenere”, 3 dicembre 2009, http://www.ingenere.it/articoli/pi%C3%B9-uguali-recessione-i-nuovi-dati-istat, ultima consultazione: 15 giugno 2022.

24 Stefano Mazzuco, Stefano Campostrini, Covid-19: ruolo delle vaccinazioni e durata media della vita 2019-2021: il ruolo delle vaccinazioni, in “Neodemos”, 21 giugno 2022.