Storia di Angelo Motta, metallizzatore

History of Angelo Motta

Giuseppe Amadei (1854-1919) è stato uno psichiatra che ha diretto il manicomio provinciale di Cremona per più di trent’anni, fra la fine Ottocento e l’inizio del Novecento1. Amadei è stato sempre fedele al verbo di Cesare Lombroso e, in particolare, si è occupato per tutta la vita di un ambito di ricerca ai confini tra antropologia e medicina: quello dei cosiddetti mattoidi e, più in generale, dei rapporti fra creatività, genialità e malattia mentale. Amadei è stato anche un collezionista degli scritti – editi e inediti – dei mattoidi, facendo un lavoro simile a quello che, più o meno negli stessi anni, fece uno scrittore come Carlo Dossi2. Oggi, alla Biblioteca Classense di Ravenna, è disponibile un fondo con tutte quelle opere3, frutto di scoperte eccentriche o di idee assurde, che Amadei raccolse in decenni di ricerche, attingendo sia a giornali e periodici sia ai propri contatti nella rete dei manicomi italiani, grazie alle segnalazioni dei colleghi4.

Prima di concentrarci sulla storia di Angelo Motta, una misteriosa figura di scienziato autodidatta, nato a Cremona e vissuto fra gli anni Venti e gli anni Ottanta dell’Ottocento, di cui Amadei si occupò diffusamente, dobbiamo necessariamente spendere qualche parola su chi fossero, per la psichiatria italiana dell’epoca, i mattoidi. Anche nel linguaggio comune è rimasta traccia di questa particolare figura, che corrisponde a una persona sicuramente fuori della norma, bizzarra, imprevedibile, ma che, al contempo, presenta aspetti che possono far pensare, se non a una vera e propria genialità, a grande intelligenza e originalità. Il mattoide, che riesce di solito a vivere bene in società, rimanendone semmai un po’ ai margini, si troverebbe dunque in una specie di “zona grigia”, a metà fra follia e normalità. È stato soprattutto Cesare Lombroso con il suo tentativo, tanto colossale quanto ingenuo, di classificare e spiegare ogni anomalia umana, a proporre e diffondere la nozione di mattoide. Per Lombroso il mattoide non rappresentava solo un tipo di irregolare, ma un vero e proprio malato: inserendolo infatti nel più ampio discorso dedicato al rapporto fra genialità e follia, il mattoide aveva sempre una anomalia mentale tale da renderlo invariabilmente schiavo di un’idea, del bisogno di realizzare scoperti epocali, di risolvere problemi vecchi di secoli e comunque insolubili (il moto perpetuo, la fabbricazione dell’oro e così via).

Questa varietà psichiatrica [il mattoide] «forma l’anello di passaggio tra i pazzi di genio, i sani ed i pazzi propriamente detti» e proprio per questo assume un’importanza non tanto clinica, quanto politica e sociale. Il termine […] rende bene l’idea dell’anomalia che caratterizza questi eccentrici personaggi, strettamente legati all’ambiente sociale in cui vivono e capaci di influire sulla folle ma distanti dal genio vero, di cui anzi costituiscono il rovescio5.

Da un certo punto di vista, la sorte del mattoide è peggiore persino di quella del folle vero e proprio. Pur vivendo libero in mezzo agli uomini e venendo magari da alcuni riconosciuto come uomo di valore o di genio, questo “mezzo matto” è costretto a sopportare tutte le conseguenze di questa vocazione assoluta alla conoscenza e a un vero sempre però irraggiungibile. Come se fossero tanti Sisifo, i mattoidi sono interamente dominati dal bisogno di veder trionfare la propria idea. Si tratta, sempre secondo la prospettiva lombrosiana, di una vera e propria fissazione che fa dimenticare tutto il resto: niente famiglia, niente guadagni, niente distrazioni: tutta l’esistenza è spesa per il prossimo (la scienza, la patria, l’umanità). Così scriveva Amadei nel 1908:

Un carattere essenziale dei mattoidi lombrosiani è l’altruismo, la preoccupazione del benessere degli altri, della patria, dell’umanità: preoccupazione che a volte è spontanea e diretta, a volta suscitata a dimostrazione della grandezza dell’idea o della scoperta mattoide, ma non manca, e distingue ed eleva questa categoria speciale dalla turba dei paranoici comuni, che sono essenzialmente egoisti, preoccupati dell’integrità personale, dell’onore, degli interessi di loro stessi e non degli altri6.

C’è sempre qualcosa di ascetico e persino di mistico nei mattoidi, siano essi letterati, filosofi, inventori o teologi. Umili, votati a essere vilipesi e perseguitati (e, in ciò, sono veri paranoici) perché il mondo non li apprezza e non li sostiene, il loro altruismo è, però, assai sospetto: una sorta di «modestia paradossa». Pur dicendosi consacrati al bene universale, non dimenticano mai di farlo notare. Ecco che i mattoidi sono assai spesso dei grafomani: pubblicano a ripetizione, e quasi sempre a proprie spese, opere verbose e ridondanti, scritte con uno stile enfatico. In alternativa – ed è questo il caso di Angelo Motta – cercano continuamente di far parlare di sé, cercando apostoli del proprio verbo, come se fossero stati investiti di una missione divina. Altro aspetto su cui torneremo, spesso i mattoidi sanno essere figure carismatiche e sanno attorniarsi di una piccola folla di fedeli: «Talora, specie tra gli apostoli riformatori, la sobrietà arriva anche all’eccesso, come in Bosisio, Lazzaretti, Cianchettini, Passanante. Ciò li avvicina a certi geni del bene, agli asceti, ai grandi pensatori, e guadagli loro la simpatia delle folle»7.

Ciò che, in sintesi, colpisce nei mattoidi è l’incapacità di accorgersi dei propri limiti. Prede di un vero e proprio «daltonismo intellettuale», essi non si rendono conto di non avere gli strumenti (logici e culturali) per affrontare questioni ingarbugliate o enormi. In particolare, i mattoidi interessati alle scienze rappresentavano il vero e proprio opposto del metodo positivo, allora dominante: «Essi non si inducono mai – scriveva sempre Amadei – a spogliarsi della loro idea, delle loro passioni per constatare di fatto come sono le cose. Per loro la forza del pensiero è tutto, genera e muove le cose. Il mattoidismo scientifico è la sistematica antitesi del positivismo»8.

Nell’epoca del positivismo trionfante, povere figure di autodidatti improvvisati (avvocati che si occupano di meccanica, artigiani di poesia o di teologia ecc. ecc.), senza titoli né cattedre dovevano necessariamente far pensare a megalomani affetti da delirio di grandezza, a rappresentanti di una mentalità sorpassata e magica, dominata dal mistero e dall’occulto9. Per Amadei, la quantità di mattoidi in circolazione, che egli distingueva fra umanitari e scienziati, doveva essere notevole: «Il numero dei mattoidi in generale deve essere enorme, se quello solo delle invenzioni pazzesche è tanto ragguardevole. Ne può dare un’idea il numero delle domande di brevetti. Accanto a poche trovate ragionevoli e utili e a pochissime geniali, la immensa mole è rappresentata da aborti di menti squilibrate»10.

Ed eccoci ad Angelo Motta, omonimo di un celebre pasticcere milanese, ma che consacrò la propria vita alla galvanoplastica o, meglio, alla metallizzazione. Egli nacque a Cremona attorno al 1826. Figlio di un pittore, fin da giovanissimo fu instradato all’arte degli orefici e dei cesellatori. Era sicuramente un artigiano abile e apprezzato, se pensiamo che ricevette anche diversi premi, fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, per delle opere in oro e in zinco. Nella prima metà degli anni Sessanta, Motta prese la sua decisione: si sarebbe dedicato anima e corpo a realizzare una sua idea, ossia raggiungere la completa metallizzazione di qualsiasi oggetto, organico o inorganico, e di qualsiasi dimensione. Nello specifico, ça va sans dire, il suo obiettivo era quello di arrivare a metallizzare i corpi umani. Motta era partito dalla galvanoplastica ovvero da quel processo elettrochimico che permette di rivestire gli oggetti con un sottile strato metallico, ma, a un certo punto, egli affermò di essere riuscito, attraverso l’uso della pila e di soluzioni da lui predisposte, ad andare ben oltre, ovvero ad arrivare a una totale sostituzione del metallo rispetto ai materiali di partenza, pur conservando, anche microscopicamente, la struttura interna degli stessi oggetti metallizzati. Che fosse una piuma, la testa di un bambino o un animale, il risultato non cambiava. E ben presto la stampa locale, come il “Corriere cremonese”, iniziò a interessarsi di questo strano artigiano, il quale, ammantandosi di mistero, asseriva di aver scoperto quasi per caso il modo per trasformare in rame braccia e crani, conservandone in modo perfetto la forma. In altri termini, Motta fu uno dei tanti che, più o meno estemporaneamente, tentarono di coniugare la modernità e il meraviglioso:

Nel suo presentarsi e autolegittimarsi Motta è ambiguo, o molto abile. Se da un lato insiste sulla scientificità della propria scoperta, sulla pubblica utilità, sulla propria appartenenza alla schiera del positivismo che penetra le particelle più piccole della materia, dall’altro rimanda ad una scoperta che ha del misterioso e del sacro. L’immagine inscalfibile del sapere scientifico è impiegata da Motta per costruire la credibilità del proprio procedimento e del proprio personaggio. Per trovare credito presso il pubblico moderno, l’alchimista non poteva più far sbuffare i propri alambicchi seguendo complesse formule cabalistiche11.

Il sogno di Motta non era certo nuovo: era lo stesso di tanti altri scienziati, che avevano lottato e lottavano tuttora contro la decomposizione dei cadaveri. In particolare, il nostro metallizzatore sembrava voler portare a compimento quanto, anni prima, aveva fatto Gerolamo Segato, l’inventore (assai discusso) della cosiddetta «pietrificazione dei corpi»12. Anche Segato, che aveva anche studiato le tecniche di mummificazione in Egitto, aveva sempre mantenuto un profilo anomalo, si era ritagliato l’immagine di scienziato esoterico e si era portato nella tomba il presunto segreto della sua arte.

Se reale, la scoperta di Motta avrebbe permesso di conservare all’infinito, in una specie di immortalità metallica, anche i corpi umani. Per più di vent’anni, l’orafo cremonese tenne per sé il segreto della metallizzazione, non rivelandolo nemmeno nel testamento. Ben presto egli cercò di presentare comunque a studiosi e accademici il proprio procedimento, vantandone i grandi guadagni che potevano venirne, tanto per i singoli quanto per la collettività:

Quanto ai vantaggi della metallizzazione, Motta ricorda, da un lato, quelli privati legati alla conservazione del corpo di un uomo illustre, di un caro animale, del «primo fiore che la fidanzata pudica presentava allo sposo promesso»; dall’altro, quelli pubblici, relativi agli «studi di anatomia descrittiva, di anatomia dei tessuti morbosi e delle tante anomalie e mostruosità dei processi delle conformazioni organiche»13.

Il problema è che le evidenze scientifiche dei suoi risultati non ci furono mai. Ad ogni modo, in tanti, e anche fra uomini di scienza, diedero credito a Motta, il quale a un certo punto decise di trasferirsi a Torino, così da ampliare il mercato per le sue metallizzazioni: «E gli fu là naturalmente più facile trovar conoscenze, lodi, appoggi. Il suo gabinetto, che ne’ primi anni si chiamava ancora di galvanoplastica, era molto frequentato, oltreché dai curiosi soliti, anche da persone distinte, a vero dire, non per competenza speciale a giudicare ed apprezzare i suoi lavori»14.

In generale, Motta rimase sempre in bilico fra il successo e lo smacco. Per parte sua, egli anzi insisteva spesso sulla cecità dell’accademia e del governo, che non sapevano riconoscergli il dovuto sostegno. Fra alti e bassi, comunque, Motta riuscì a tirare avanti, sempre rimandando il momento in cui avrebbe finalmente resto manifesto il segreto della metallizzazione. Cercando di affermare il proprio “mito” di uomo geniale e perseguitato, egli poté godere sulla stampa anche dell’appoggio di autorevoli scienziati. Furono soprattutto due persone, Gioacchino Stampacchia (un medico onorario della Real Casa) e Paolo Gorini (un matematico e scienziato, anch’egli alla ricerca di un rimedio alla decomposizione dei corpi)15 a propagandare il lavoro di Motta. In particolare, Gorini scrisse nel 1880 una presentazione elogiativa della nuova metallizzazione, anche se non sciolse ogni riserva sul significato scientifico da attribuirle. Anche Gorini avrebbe preferito che Motta abbandonasse ogni ambiguità: «Che se poi quando il Motta ce lo farà palese [il suo metodo], sarà trovato anche più semplice di quanto si credeva, si dovrà darne al Motta una lode maggiore poiché i processi naturali sono tanto più fecondi di utili applicazioni quanto più sono semplici, ed è anche noto che le cose semplici sono le più difficili a discoprirsi»16. Comunque Motta aveva davvero abbandonato le strade note della galvanoplastica e non poteva essere liquidato come un ciarlatano. Al contrario, Gorini invitava a sostenerlo: «Si ponga il Motta in grado di poter riprendere i suoi lavori e lo vedremo operar grandi cose. La prima ispezione della nuova via da lui scoperta deve essere a lui riservata; e si può affermare che se anche non troverà la soluzione del problema in discorso, la scienza farà per suo mezzo acquisti non meno preziosi»17.

Sempre nel 1880 Motta riuscì a essere a ricevuto a Roma da Umberto I, il quale si mostrò convinto che quell’artigiano dimesso avesse avuto realmente una intuizione geniale, perché gli conferì la Croce dei Cavalieri dell’Ordine Mauriziano. Eppure, proprio in quello stesso anno, Motta subì invece un colpo durissimo alla propria immagine. Il Ministero della Pubblica Istruzione, infatti, nominò una Commissione di esperti, presieduta da Jacob Moleschott, la quale esaminò alcuni oggetti metallizzati da Motta, fra cui un vaso di fiori. La relazione finale, pubblicata in marzo, fu assolutamente categorica: Motta non era riuscito a sostituire il rame a tessuti e fibre. In sintesi, «la metallizzazione esaminata da persone delle cui competenza e rettitudine non si poteva dubitare, si riduceva a un presso che inutile “sistema d’imitazione delle grosse forme organiche”»18.

Lo stesso Motta in un primo tempo accusò il colpo, ammettendo che la completa metallizzazione non era che una fantasia e dando in sostanza ragione alla commissione ministeriale. Ben presto, però, si rimangiò la confessione:

Egli ammette che quanto la commissione ha trovato, che i gambi sono coperti colla galvanoplastica, che fili di rame fan da picciuoli e da nervature, che le foglie sono coperte con strato galvanoplastico, che gli stami sono lavorati artificialmente. Ma dice che questo è dipeso dall’esser stato preso alla sprovvista e perché per economia non ha voluto questa volta spingere tanto addentro la metallizzazione e occuparsi troppo delle parti secondarie19.

Grazie all’appoggio di alcuni giornalisti, Motta ricominciò a lavorare come se niente fosse avvenuto e anche negli ultimi anni di vita – morì in miseria a Torino nel 1888 – si fece, vestendo quasi abiti sacerdotali, paladino di un sapere “popolare” e ribelle contro i pregiudizi degli accademici e dei governanti.

Pochi mesi dopo la scomparsa di Motta, Giuseppe Amadei si volle occupare della sua «leggenda» in un paio di pubblicazioni, suscitando anche qualche polemica. Amadei si interessò di Motta solo come esponente del mattoidismo scientifico e si concentrò sulla «struttura mentale» del sedicente scienziato, ritrovandovi i segni certi di una alterazione. La metallizzazione non era un fatto, ma un fenomeno psicologico.

[La ragione di esso] è da cercare nella costituzione psichica di quest’uomo, che era tanto poco curante del danaro e degli agi della vita, e pur così tenero degli onori, della considerazione di persone alto locate, e della nomea popolare; di quest’uomo che pensava e parlava e scriveva di tali onori, e della sua fama, e della grandezza della sua scoperta, come solo a una testa, ambiziosa in dose anormale, è possibile; che si lasciava e faceva dire professore e commendatore; e dava la caccia agli articoli giornalistici laudativi; che favoleggiava di cattedre universitarie offertegli, e da lui rifiutate, e di palate d’oro, esibitegli da inglesi e da americani; che riteneva invidiose e rivali persone colte e buone, che non s’inchinarono innanzi a lui…20

Lusingato dalle lodi e vittima di una specie di «suggestione fatale»21, Motta finì per ignorare le contraddizioni che la realtà stessa gli presentava. Alla base della psiche di Motta, doveva esserci necessariamente una «costituzione paranoica» e un «costituzionale delirio di grandezza»22. Questa patologizzazione della mente di Motta serviva per smascherare una illusione, anche collettiva, che aveva coinvolto anche uomini di scienza. Motta non era, però, né un truffatore né un ciarlatano: nessun professore di scienze naturali e nessuno psichiatra avrebbero potuto convincerlo dell’assurdità delle sue idee.

Il giudizio di Amadei fu criticato già nel 1889 da alcuni difensori del lavoro di Motta, in particolare sul periodico “Cuore e critica”, diretto da Arcangelo Ghisleri. In un articolo firmato da Gaetano Cernuscoli, Amadei viene contestato assieme alla Commissione ministeriale del 1880. In particolare, la critica riguardava il fatto che Amadei avesse stabilito una diagnosi senza aver conosciuto davvero Motta e che, d’altra parte, il presunto mattoidismo di quest’ultimo non escludesse di per sé che egli avesse ragione: «In Angelo Motta adunque un tale infiltrazione mattoidale ci poteva essere, ma ci poteva benissimo essere anche un tal quale genio. Il dott. Amadei quindi per il semplice fatto di aver constatata la prima non mi può certo scientificamente escludere il secondo»23.

Anche Leonida Bissolati, cremonese come Motta, contestò ad Amadei il fatto di aver definito Motta un mattoide e non un ignorante: «Questa serie di fenomeni psichici [in Motta] può rigorosamente dirsi una manifestazione patologica? O invece dato, per dir così, l’ambiente intellettuale del Motta, non è questo uno de’ mille casi di illusione prodotta da insufficienza di coltura?»24. Per Amadei proprio il fatto che Motta non si fosse mai accorto di nulla, non si fosse arrestato davanti a nulla, rappresenterebbe la prova di un suo stato patologico. L’assurdità del progetto di Motta non era dunque nell’idea in sé, ma nell’averla coltivata in quel modo. Amadei fu comunque un facile profeta, quando concluse affermando che la storia della metallizzazione mottiana sarebbe rimasta soltanto nella storia della psichiatria e non in quella di qualche altra scienza.


Note

1 Cfr. Andrea Scartabellati, L’umanità inutile. La “questione follia” in Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento e il caso del Manicomio Provinciale di Cremona, Milano, Franco Angeli, 2001.

2 Cfr. Carlo Dossi, I mattoidi al primo concorso pel monumento in Roma a Vittorio Emanuele II [1884], Milano, Lampi di stampa, 2003.

3 Cfr. Claudia Foschini, Il fondo Amadei della Biblioteca Classense di Ravenna, in “Studi romagnoli”, 2000, n. 51, pp. 317-331.

4 Cfr. Giuseppe Amadei, I mattoidi scienziati: studi bibliografici, in “Bullettino Medico Cremonese”, 1889, n. 6, pp. 305-314 e 1890, n. 1, pp. 37-50.

5 Delia Frigessi, Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003, p. 277.

6 Giuseppe Amadei, I mattoidi, in L’opera di Cesare Lombroso nella scienza e nelle sue applicazioni, Torino, Bocca, 1906, pp. 82-101, p. 85.

7 Ivi, p. 84.

8 Giuseppe Amadei, Una scoperta mattoide. La metallizzazione dei corpi organici di Angelo Motta, Cremona, Tipografia Ronzi e Signori, 1889, p. 25.

9 «Questa specie di scopritori è rappresentata appunto da cervelli mal equilibrati, sbatacchiati continuamente tra la fede la speranza. Sono cercatori non per vedere come le cose sono, ma per fare le cose secondo l’idea loro, indotti ad ogni momento a credere d’aver trovato, e poi nel dubbio che non cercano però di mai chiarire, accaniti più che mai a cercare. Sono i rappresentanti anacronistici della filosofia ermetica e delle scienze occulte» (P., Recensione a Giuseppe Amadei, Una scoperta mattoide. La metallizzazione dei corpi organici, Cremona, 1889 e Id., Ancora sulla scoperta mattoide della metallizzazione dei corpi organici, Cremona, 1889, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1889, v. XV, pp. 469-472, p. 471).

10 Amadei, I mattoidi, cit., p. 92.

11 Andreas Iacarella, Lo psichiatra e il metallizzatore: genio e follia nel secolo delle meraviglie, in “Nostos”, 2018, n. 3, pp. 209-258, p. 251.

12 Cfr. Ivano Pocchiesa, Mario Fornaro, Girolamo Segato, esploratore dell’ignoto, scienziato, viaggiatore, cartografo. Inventò un metodo di pietrificazione dei cadaveri e portò il suo segreto nella tomba (1792-1836), Belluno, Media Diffusion, 1992.

13 Paolo Albani, Cercatori di Babele, in Gabriele Mina (a cura di), Costruttori di Babele. Sulle tracce di architetture fantastiche e universi irregolari in Italia, Milano, Elèuthera, 2011, pp. 187-188, p. 187.

14 Amadei, Una scoperta mattoide, cit., pp. 7-8.

15 Cfr. Alberto Carli (a cura di), Guida storica alla Collezione Anatomica “Paolo Gorini”, Lodi, Amministrazione comunale, 2008; Idem, Paolo Gorini. La fiaba del mago di Lodi, Novara, Interlinea, 2009.

16 Paolo Gorini, Sulla importanza scientifica del processo di metallizzazione dei corpi organici scoperto dal Signor Angelo Motta, Roma, Stabilimento Tipografico Italiano, 1880, pp. 23-24.

17 Ivi, p. 27.

18 Amadei, Una scoperta mattoide, cit., p. 17.

19 Ivi, p. 19.

20 Giuseppe Amadei, Ancora sulla scoperta mattoide della Metallizzazione dei corpi organici di Angelo Motta, in “Bollettino medico cremonese”, maggio-giugno 1889, pp. 139-159, pp. 151-152.

21 Ivi, p. 157.

22 Ivi, p. 159.

23 Gaetano Cernuscoli, Una scoperta mattoide. La metallizzazione dei corpi organici di Angelo Motta, in “Cuore e critica”, 1889, n. 8, pp. 92-94, p. 94, corsivi nel testo.

24 Leonida Bissolati, Coltura insufficiente, ma mente sana, in “Cuore e critica”, 1889, n. 9, pp. 102-103, p. 103.