Alessandro Cuccu è archivista presso l’Archivio storico minerario Igea, che si trova in località Monteponi, nel Comune di Iglesias. L’intervista, a cura di Liliosa Azara ed Eloisa Betti, è stata realizzata nel settembre 2017, nell’ambito del progetto promosso dal Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre “Storie di Vita e di Lavoro nel parco geominerario della Sardegna tra archivi e memoria. Un approccio di genere”.
Come è nata l’idea di creare un archivio storico nella ex-miniera di Monteponi?
Il primo interesse per questo archivio nasce nel 1973. In quell’anno la Società Sogersa assorbe la Società mineraria Monteponi-Montevecchio e gli importanti siti minerari da lei gestiti a Monteponi (Iglesias), Montevecchio (Guspini) e in altre località del Sulcis-Iglesiente. In quell’anno sono stati effettuati i primi sopralluoghi della Sovrintendenza Archivistica della Sardegna nella persona di Giovanni Todde. Ci si rese conto immediatamente che il patrimonio archivistico di società minerarie come la Monteponi-Montevecchio era immenso e molto importante.
Successivamente, nel 1979, avvennero le prime operazioni di scarto e di sfoltimento della documentazione. Le vicissitudini di questi archivi, tuttavia, sono state condizionate dall’alternarsi delle varie società minerarie, che cambiarono denominazione e proprietà durante il processo di crisi e successiva dismissione del comparto minerario. Quindi, nuove società acquisirono azioni di società pre-esistenti e il susseguirsi di attività e di società fece passare di mano in mano, tra gli anni Settanta e Ottanta, anche la documentazione archivistica e il patrimonio storico.
Negli anni Novanta si sviluppò un primo interesse nei confronti di questi archivi, ma non tanto da parte delle società minerarie che ne erano proprietarie, bensì da parte dei comuni circostanti e delle persone che lavoravano, o avevano lavorato, per quelle stesse società. Una parte della documentazione mineraria, infatti, la troviamo negli archivi dei comuni. È il caso, ad esempio, del Comune di Iglesias che alla fine degli anni Ottanta-inizio anni Novanta, recuperò dai depositi una parte della documentazione della società Monteponi-Montevecchio e della società Pertusola, per conservarla presso il proprio archivio storico.
Nel 1994, la Sovrintendenza decide di effettuare un nuovo sopralluogo nei depositi archivistici delle società minerarie e dichiara gli archivi della Monteponi e della Montevecchio, della Samin, della Sim e della Sogersa (le tre società che si erano alternate negli anni alla Monteponi-Montevecchio), di notevole interesse storico. Dal 1998 il processo di tutela e conservazione di questi archivi passa sotto la gestione di Igea, la società partecipata dalla Regione Sardegna a cui viene affidata tutta la gestione del comparto minerario e delle attività di bonifica connessa alla chiusura dei siti minerari.
Igea tra il 1998 e il 1999 prende la decisione di creare un vero e proprio archivio storico. Nasce, così, il primo nucleo di concentrazione della documentazione nell’area di Campo Pisano presso i locali di Pozzo 2. È in quel momento che l’allora responsabile per l’archivio di Igea decide, insieme ad altri operai, di riunire in un unico archivio tutta la documentazione dei moltissimi depositi ancora collocati nelle miniere circostanti.
E quindi gli ex-minatori, coloro che lavoravano nella miniera, sono stati la forza propulsiva nella creazione di questo archivio e nel salvataggio delle carte?
Tra le persone coinvolte nel primo salvataggio delle carte ricordiamo il vecchio responsabile dell’archivio Igea, Pietro Tocco, che era un perito minerario, ma anche ex-minatori e impiegati. In quegli stessi anni, c’era stata la crisi del comparto che aveva portato alla chiusura delle miniere circostanti. Con la chiusura di Pozzo Sella e di vari altri pozzi, molti lavoratori stavano lottando per mantenere il posto di lavoro, che rischiavano di perdere da un giorno all’altro. Proprio loro hanno avuto l’intuizione che forse l’ancora di salvezza, ma anche il nuovo principio aggregativo, potesse essere la tutela della loro storia e della loro memoria.
Così è partita con entusiasmo un’azione di recupero della documentazione archivistica, che si trovava in depositi ormai abbandonati a loro stessi da anni. Il Signor Gianpaolo Pusceddu, che tra il personale dell’archivio è quello che ha maggiori ricordi dei recuperi, mi ha raccontato più volte che la documentazione spesso si trovava in vere e proprie pozze d’acqua. Talvolta, hanno dovuto utilizzare gli stessi faldoni che galleggiavano nell’acqua come ponte, per arrivare a recuperare alcuni documenti. A poco a poco questo patrimonio archivistico è stato riportato alla luce dal fango, dalla polvere, dal degrado.
In alcuni casi, infatti, gli edifici abbandonati erano divenuti luogo di ritrovo per tossicodipendenti e altre persone allo sbando, che bruciavano questi faldoni per riscaldarsi. In altri casi, come per la documentazione dei vecchi depositi della Monteponi, è stato necessario utilizzare carrucole arrivando addirittura ad arrampicarsi attraverso le finestre per poter entrare, perché alcuni stabili erano stati murati per evitare spoliazioni del patrimonio da parte di estranei.
Questi recuperi sono stati fatti, quindi, in maniera avventurosa, passando intere giornate nei depositi per salvare la documentazione dai cosiddetti “predatori d’archivio”. Qui nella zona mineraria, infatti, sono moltissimi i privati che si sono creati piccoli archivi personali.
Concluse le principali operazioni di recupero, che hanno visto anche la partecipazione di archivisti che hanno lavorato ai traslochi della documentazione, all’inizio degli anni Duemila si è cercata una sede vera e propria per l’archivio. Così è nato il progetto di recuperare i magazzini della Monteponi, trasformandoli in “magazzini della memoria”.
Ci vuoi spiegare l’idea di “magazzini della memoria” e come questo archivio è vissuto dalla comunità?
Questi locali erano magazzini della Monteponi e non esisteva luogo migliore per concentrare la memoria. Il concetto “magazzini della memoria” è stato scelto perché conservano la storia delle miniere. Tra l’altro si tratta di una location di un fascino assoluto: il magazzino era a fianco delle miniere ed è un luogo che trasuda quella storia. All’interno di questi magazzini abbiamo anche delle vere e proprio celle, che ci ricordano come in miniera non hanno lavorato solo uomini liberi, ma anche persone sotto costrizione, i carcerati.
Gli utenti dell’archivio non sono soltanto studiosi che vengono dalle università. Nella comunità scientifica c’è un interesse di livello internazionale per questo archivio, perché come archivio minerario è uno dei più importanti d’Europa. L’archivio è però molto importante anche per le persone che hanno lavorato in questo posto. Ogni giorno arrivano persone che cercano notizie riguardanti i nonni, i genitori oppure per conoscere la loro stessa storia.
Una persona che viene da noi può avere memoria della storia riguardante la propria categoria lavorativa e dei propri parenti. L’operaio per esempio conosce bene la situazione delle gallerie, ma non può conoscere tutto sugli impiegati, che hanno a loro volta una loro storia da raccontare. Allo stesso modo c’è la storia dei vari dirigenti che si sono succeduti spesso provenienti da altre parti dell’Europa, e anche la storia dei passaggi delle competenze e dei poteri che hanno determinato scelte importanti e determinanti per tante persone. Nell’archivio abbiamo rappresentate un alternarsi di generazioni e culture diverse, proprie del mondo minerario, degli ultimi 150 anni.
Il mondo minerario è stato, dal punto di vista storico, il punto di partenza dell’industrializzazione della Sardegna, che non è stata un’industrializzazione compatta e diffusa come nel Nord Italia. La Sardegna è sempre stata una regione dove erano prevalenti l’agricoltura e l’allevamento e l’unica forma di società industriale era proprio quella mineraria. Nel momento in cui le miniere hanno cessato di esistere in un certo senso le persone si sono sentite spaesate, orfane.
La miniera era madre, ma anche matrigna. La gente che ha lavorato qui in zona ci ha perso la salute. Erano persone che dalla miniera guadagnavano il pane, ma a poco a poco davano alla miniera la loro vita. Cominciavano a lavorare in miniera giovani e sani e il più delle volte uscivano dalla miniera ammalati con un’aspettativa di vita di appena 4-5 anni, per via della silicosi e di altre malattie. Tra l’altro era una vita sacrificante, soprattutto nel passato. I minatori entravano in miniera che era ancora buio ed uscivano dalla miniera che era di nuovo buio; anche dentro la miniera era buio e il minatore passava buona parte della giornata senza vedere la luce del sole. Nonostante questo, c’era un amore nei confronti dell’industria mineraria e della miniera, un amore che è ancora parte della comunità e non va disperso.
Quali sono le prospettive di sviluppo e valorizzazione dell’archivio?
Questo archivio, ora come ora, va tutelato e rilanciato, vanno cercati i fondi per renderlo sempre più fruibile e farlo diventare veramente un’eccellenza. Negli anni passati è stata fatta un’azione meritoria da parte delle persone che hanno recuperato la documentazione, però questo è il momento in cui si deve dare un ordine a tutto quanto è stato salvato e a quello che verrà ancora recuperato.
Ciò significa partire con l’inventariazione a tappeto della documentazione che conserviamo. Ci sono circa 6-7 km lineari di carte, concentrati non solo a Monteponi, ma anche in altri depositi esterni, a Lula, a Montevecchio (nel Comune di Guspini) e in altri siti appartenenti a Igea. Già nei primi 6-7 mesi del 2017 abbiamo inventariato circa 200 metri lineari di documentazione, già fruibile per il pubblico. Quello che dobbiamo fare è una valutazione di cosa conservare e pensare, invece, a uno scarto di ciò che non viene ritenuto di valore storico da parte del Ministero dei Beni Culturali.
Una volta che l’archivio sarà completamente riordinato dovremo presentarci all’esterno, far capire che esiste una realtà come questa, che un documento non è solo un pezzo di carta, ma un patrimonio della nostra memoria e della nostra cultura. Gli archivi sono beni culturali e la cultura va diffusa. Questo è patrimonio di tutti, non è patrimonio della singola azienda, della singola persona, del singolo comune.
Quali sono i vostri progetti, come archivio, per promuovere la conoscenza della cultura mineraria?
Uno dei progetti è proprio quello di fare rete e sistema con gli altri archivi che conservano documentazione mineraria, quindi con gli archivi dei comuni circostanti, a partire da Iglesias, Guspini, ma anche con gli archivi delle scuole. La documentazione che parla di miniera possiamo trovarla anche dentro le scuole, gli archivi scolastici sono un’altra importante fonte di conoscenza delle comunità minerarie: tutti i villaggi che ruotavano attorno alle miniere avevano la loro piccola scuola e lì c’è tutta una storia da raccontare per quanto riguarda i bambini.
Il mio tentativo sarà proprio questo: tentare di creare un sistema degli archivi minerari, un coordinamento che non dovrà fermarsi solo alla Sardegna ma dovrà comunicare con il resto d’Italia e d’Europa, perché questi sono degli archivi che hanno un respiro più ampio, internazionale. Quindi, l’archivio non deve essere più una nicchia che conoscono poche persone. La documentazione va fatta conoscere e quindi tra le varie attività dovremo promuovere convegni, collaborare a studi, pubblicazioni, dovremo far partire il centro di restauro che è un fiore all’occhiello di questo archivio.
Ci vuoi parlare delle importanti attrezzature che avete a disposizione?
Abbiamo un centro di restauro che può essere veramente considerato di eccellenza, per quanto riguarda la Sardegna. Nemmeno in Archivio di Stato a Cagliari hanno attrezzature di questo livello. Sono stati fatti degli acquisti lungimiranti con l’obiettivo di recuperare le carte danneggiate degli archivi minerari. Questo centro di restauro, però, deve diventare un punto di riferimento e di appoggio anche per gli altri archivi presenti in regione, e noi ci impegneremo in questo senso.
Qui, a mio parere, potrebbero lavorare persone che, opportunamente formate, darebbero un grossissimo contributo per il rilancio di tutta la comunità. La cultura può rappresentare la benzina per la ripartenza economica del territorio. In questa zona non c’è solo l’archivio, ci sono i villaggi minerari, che sono un patrimonio culturale e paesaggistico. Esiste un turismo fatto di cultura e un turismo fatto da studiosi che vengono qui per approfondire la nostra storia, per capire da dove veniamo e dove vogliamo andare.
Tra le attrezzature in nostro possesso, c’è uno scanner Metis (in tutta Italia se ne contano sette), che, utilizzato a pieno regime e con una opportuna campagna di regestazione dei documenti, renderà fruibile online moltissima della documentazione che conserviamo. Stiamo parlando, in prospettiva, di un vero e proprio centro di digitalizzazione che potrà essere messo a disposizione anche di altri archivi con l’idea di creare sistema, comunicazione, collaborazione.
Tu hai prefigurato un “interesse” particolare per gli archivi minerari, ci hai parlato di “predatori di archivio” e poi di associazioni che contribuiscono a sedimentare la memoria delle comunità minerarie, vogliamo approfondire queste due, opposte, tipologie?
I “predatori di archivio” hanno una concezione proprietaria della memoria, degli archivi, come una sorta di “tesoretto privato”, piccolo feudo, dove fanno entrare chi vogliono loro e tengono fuori il resto della cittadinanza.
E poi ci sono queste associazioni di ex-minatori, ex-impiegati, ex-dirigenti, come l’Associazione Minatori di Nebida o l’Associazione Mineraria, tra i molti esempi virtuosi del territorio, che si aggregano per tutelare la memoria e far conoscere quanto più possibile quello che stanno recuperando. Questa è una prospettiva totalmente differente nei confronti della storia.
La storia e la memoria delle comunità minerarie vanno diffuse, non conservate nei cassetti della propria casa, con il rischio di essere dimenticate e perdute per sempre quando si passa a miglior vita. Io ho avuto la fortuna negli anni di lavorare per persone che avevano questo tipo di tesori documentari e sono riuscito a convincerle a donarli a enti e associazioni che potessero far fruire la memoria dei loro antenati.
Ci sono infatti tantissime persone che conservano l’archivio del proprio padre o di un parente che magari ha avuto ruoli significativi (un ingegnere, un architetto, un medico o un dirigente) e questa documentazione, di fatto, rappresenta spessissimo uno spaccato importante di storia. C’è quindi tutto un lavoro da compiere per far riemergere questi fondi personali, ma serve un’azione non invasiva, un’azione di sensibilizzazione verso ciò che è bello. Perché i documenti d’archivio sono anche belli: belli da vedere, belli da presentare, belli da mostrare alla cittadinanza.
Questo archivio è stato salvato più volte: recentemente è stato messo a rischio da un incendio…
L’incendio ha messo a rischio questo patrimonio, ma non ha intaccato la volontà di ripartire e proseguire quello che è stato iniziato. Perché noi abbiamo continuato a lavorare anche senza luce. Quanto accaduto ci ha aiutato a fare delle riflessioni sui modi per tutelare maggiormente l’archivio, affinché non possa più correre pericoli: su questo aspetto Igea sta lavorando moltissimo. Sì abbiamo corso un gran rischio, ma il rischio non ci ha spezzato le gambe.