Trezzano sul Naviglio, periferia industriale di Milano. Era il 2013 quando venti operai decidevano di occupare la fabbrica in cui avevano lavorato per anni. Dagli anni Settanta, l’azienda italiana Maflow, specializzata nel settore automotive, riceveva commesse dalle maggiori case automobilistiche quali Fiat e Bmw. Nel 2009 è stata acquistata dal Gruppo Boryszew che dopo due anni di gestione ha deciso di delocalizzare la produzione in Polonia.
Attualmente gli operai e le operaie autogestiscono gli spazi, circa 30 mila metri quadri, portando avanti diverse attività. La cooperativa che hanno fondato si chiama RiMaflow, dove il prefisso “Ri” significa «Rinascita, Riuso, Riciclo, Riappropriazione, Rivolta (il debito), Rivoluzione»1. Il caso della fabbrica di Trezzano, rappresenta un unicum tra i casi di riappropriazione del lavoro verificatisi in Italia tra 2008 e 2014, quando i fallimenti aziendali sono costantemente aumentati a causa della crisi economica2. Uno degli strumenti utilizzati dai lavoratori per evitare la disoccupazione, è il workers buyout, un’operazione finanziaria che permette ai dipendenti di un’azienda in crisi di riunirsi in cooperativa e investire la propria mobilità o Tfr per affittare il sito produttivo e continuare la produzione3. Gli operai della RiMaflow, non erano però disposti ad affrontare gli investimenti necessari per avviare un workers buyout e hanno deciso di rifarsi all’esperienza delle imprese recuperate in Argentina e in Europa (dalla Francia alla Grecia), caratterizzate da un’alta carica conflittuale4.
La decisione di occupare la fabbrica è solo l’apice di un percorso iniziato nel 2009, quando gli operai erano 320 e la Maflow S.p.A. veniva dichiarata in stato di insolvenza dal Tribunale di Milano. I dipendenti entravano tutti in Cassa integrazione guadagni e mentre attendevano che un imprenditore acquistasse l’azienda, organizzavano manifestazioni e presidi. Sono stati soprattutto lavoratori come Massimo, operaio della RiMaflow e delegato sindacale del Comitato unitario di base, a cogliere e incanalare il malcontento dei colleghi.
La storia della fabbrica è molto lunga: abbiamo fatto nel 2009 un’occupazione di un anno salendo anche sul tetto. Siamo andati sotto la Regione Lombardia per una settimana affittando dei gazebo. Mi sono impegnato per tenere la fabbrica aperta in ogni modo5.
Donatella non aveva mai partecipato prima ad azioni conflittuali e questo periodo di proteste per lei è stata anche l’occasione per maturare a livello personale.
Chi lavorava faceva le sue ore e gli altri stavano fuori, davanti la palazzina, dentro, con le capanne e tutto il resto a fare il presidio. Dormivamo là col gelo. Io sono sempre stata una persona molto riservata, timorosa… invece questa situazione mi ha sbloccato: ho imparato a rispondere, a non avere paura di dire la mia. È stato duro ma mi ha rinforzata caratterialmente. Mi ha temprata. Nel male mi ha dato del bene6.
Nel 2010 la Maflow veniva acquistata dal Gruppo Boryszew, uno dei più grandi in Polonia con siti produttivi presenti in Europa, America, Asia7. I lavoratori reinseriti nella fabbrica di Trezzano passavano da 320 a 79 e, in base a un accordo sindacale, altri 30 operai dovevano essere reinseriti se il fatturato raggiunto nel 2011 lo avesse permesso. Durante i due anni di gestione da parte del gruppo polacco queste aspettative venivano disattese e mentre tra gli operai cresceva il malcontento, diventava sempre più concreta la possibilità che la produzione venisse completamente trasferita in Polonia. Nel 2013 i timori diventavano realtà e sul sito web del Gruppo, la chiusura del sito veniva descritta come «una delle tappe più importanti della modernizzazione avviata» dalla Società8.
Iniziavano ad arrivare le lettere di licenziamento. Per Marisa, l’interruzione della vita lavorativa è un’esperienza particolarmente traumatica perché è da poco diventata madre. Era entrata in maternità nel 2008 e subito dopo in Cassa integrazione; quando ha appreso del licenziamento ha pensato che la sua vita fosse distrutta.
Mi hanno mandato la lettera nel 2012 che mi ha stroncato. Ho rischiato di perdere la casa. Avevo il mutuo con il mio ex marito e poi lui mi ha lasciata. Io ne ho passate tante, ma senza il lavoro perdi la dignità. Senza il lavoro mi sento una donna a metà [piange]9.
Insieme alla disperazione e al rancore nei confronti della proprietà, maturava negli operai la determinazione di riaprire e far tornare produttiva la fabbrica, un luogo da cui erano stati espulsi ma che, allo stesso tempo, non avevano mai abbandonato. Durante il periodo di Cassa integrazione in deroga, il gruppo di operai consolidatosi a partire dal 2009, decideva di frequentare un corso di auto-imprendiorialità presso l’Agenzia formazione e orientamento al lavoro di Corsico, Comune vicino Trezzano. Al termine, elaboravano un piano industriale incentrato su raccolta, trattamento, smaltimento dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche. Il 1° marzo 2013, quando la fabbrica era ormai chiusa, costituivano la cooperativa sociale Onlus RiMaflow.
Mancava solo il luogo in cui avviare le attività e anche se i macchinari erano stati portati via e i capannoni erano deserti e abbandonati, gli operai decidevano di tornare lì dove avevano sempre lavorato. L’occupazione della fabbrica per chi, come Massimo, aveva organizzato manifestazioni e presidi, è stata una scelta in totale continuità con le azioni precedenti.
A partire da tutte le crisi che ci sono state dal 2009, la battaglia della RiMaflow è stata l’unica con una sua continuità perché abbiamo occupato, siamo qui e stiamo provando a fare questa esperienza con la cooperativa RiMaflow. Non me ne sono mai andato da qua. Non sono mai fuggito10.
Gli spazi, una volta occupati, venivano risistemati e riutilizzati per portare avanti diverse attività. Quelle principali riguardavano il riciclo e la rimessa in funzione di materiale elettronico, ma anche la distribuzione di prodotti agricoli: da quelli del Parco Sud di Milano alle arance di Rosarno, raccolte dai braccianti strappati al caporalato. Da queste collaborazioni si è sviluppato negli anni un sodalizio tra realtà agricole e operaie che si autogestiscono e che hanno fondato la rete “Fuori Mercato”. Per Luigi, questo tipo di attività rappresenta un modo per riappropriarsi del lavoro ma anche per costruire un’alternativa a un mercato costituito soprattutto di imprese private, in cui i lavoratori partecipano per nulla o quasi alle decisioni aziendali.
Non aspetti che arrivi un altro padrone o che ti cada la manna dal cielo: ti ricrei le condizioni di lavoro, ti fai un mazzo della miseria perché ci metti anche lavoro volontario, però può essere un modo di rilanciare l’economia dal basso. Stiamo costruendo una logistica solidale che passi totalmente al lato della grande distribuzione. Per questo Fuori Mercato11.
Nella costruzione di una rete di economia sociale e solidale, è maturato anche il rapporto con le cooperative sociali della Caritas di Milano. Attualmente le attività all’interno della fabbrica sono diverse: dal “liquorificio sociale”, con la produzione dell’Amaro partigiano e del Rimoncello; al recupero e riciclo di materiali come l’alluminio e la carta da parati da cui viene estratta anche la plastica. Un altro capannone è stato riutilizzato per ospitare circa 35 botteghe artigiane. Altri spazi sono stati aperti alla collettività e la fabbrica è diventato un luogo di incontro, discussioni, eventi culturali.
Il tipo di autogestione realizzato all’interno della RiMaflow prevede che i lavoratori prendano insieme tutte le decisioni all’interno dell’assemblea, in particolare quelle che riguardano i rapporti da tenere con le istituzioni e la proprietà. Infatti, dopo l’occupazione, gli operai hanno utilizzato la loro esperienza sindacale per contrattare non più con un imprenditore, ma con il proprietario dell’area (la Unicredit leasing) e il Comune di Trezzano sul Naviglio. A partire da marzo 2015, hanno incontrato più volte le parti presso la Prefettura di Milano.
Lo scopo dei lavoratori e delle lavoratrici della RiMaflow è quello di ottenere un contratto d’affitto in modo da regolarizzare la loro posizione, ottenere tutte le autorizzazioni per produrre e vedere riconosciuto il lavoro svolto in questi anni. Le trattative con l’Unicredit al momento sono bloccate a causa di un contenzioso con la società immobiliare Virum per il possesso del sito, ma gli operai della RiMaflow sono determinati ad andare avanti nel progetto di autogestione della fabbrica e di riappropriazione del lavoro.
Note
1 Fabbrica recuperata RiMaflow, Chi siamo, http://www.rimaflow.it/index.php/chi-siamo/, ultima visualizzazione 13 novembre 2017.
2 Cerved, Osservatorio sui fallimenti, procedure e chiusure di imprese, febbraio 2015, n. 22, p. 7.
3 Euricse, Economia cooperativa. Rilevanza, evoluzione e nuove frontiere della cooperazione italiana, sintesi dei principali risultati, settembre 2015.
4 A. Marchetti, Fabbriche aperte. L’esperienza delle imprese recuperate dai lavoratori in Argentina, Bologna, Il Mulino, 2013.
5 Intervista a Massimo Lettieri, operaio RiMaflow e delegato sindacale CUB, 45 anni, 21 maggio 2015.
6 Intervista a Donatella Maria Marzola, operaia RiMaflow, 51 anni, 21 maggio 2015.
7 Boryszew, History of the Company, http://www.boryszew.com.pl/1109, ultima visualizzazione 13 novembre 2017.
8 Maflow-member of Boryszew Group, Maflow Group History, http://www.maflow.com/art/38/maflow-group-history.html, ultima visualizzazione 13 novembre 2017.
9 Intervista a Marisa Sciretta, operaia RiMaflow, 48 anni, 21 maggio 2015.
10 Intervista a Massimo Lettieri, operaio RiMaflow, cit.
11 Intervista a Luigi Malabarba, operaio RiMaflow, 66 anni, 21 maggio 2015.