Dal 1° dicembre 2018 l’Italia ha un nuovo, ma soprattutto innovativo, museo del Novecento. Si chiama M9, sorge nel centro di Mestre e si colloca all’interno di in un vasto progetto di rigenerazione urbana che la Fondazione di Venezia ha portato avanti ispirandosi alle più avanzate esperienze europee, con un intervento che prevede la realizzazione di tre nuovi edifici, il principale dei quali dedicato a funzioni museali, il recupero di un ex convento tardo cinquecentesco e la ristrutturazione di un edificio direzionale degli anni Settanta. Il risultato è un centro multifunzione che lega la sua identità a uno stretto rapporto con il contesto urbano, con il quale sa dialogare da un punto di vista sia architettonico sia urbanistico.
In particolare il nuovo edificio museale ha una forma e una concezione che lo rendono molto diverso da un tradizionale museo, non solo perché è ispirato alle tendenze internazionali più recenti, ma soprattutto perché propone un format decisamente accattivante e sintonizzato con i tempi: M9, infatti, ripercorre la storia italiana del Novecento utilizzando esclusivamente la multimedialità, attraverso la quale fa rivivere i capitoli principali di un secolo breve quanto denso di storie private e collettive, che hanno sullo sfondo le due guerre mondiali, il boom degli anni Sessanta e la parabola industriale e culturale dell’Italia. Non ci sono oggetti in mostra, se non pochissimi, ma il visitatore può trovare grande abbondanza di video, fotografie, grafici e documenti provenienti da oltre centocinquanta archivi italiani e recuperati da un gruppo di studiosi, tra cui gli storici Michelangela Di Giacomo, Fedra Pizzato, Livio Karrer e Giuseppe Saccà.
Il percorso espositivo si articola su due piani in otto sezioni tematiche scelte per la capacità di descrivere il secolo (Demografia e strutture sociali; Consumi, costumi e stili di vita; Scienza, tecnologia e innovazione; Economia, lavoro, produzione e benessere; Paesaggi e insediamenti urbani; Stato, istituzioni, politica; Educazione formazione e informazione; Cosa ci fa sentire italiani), da percorrere attraverso 6000 fotografie, 60 installazioni interattive, 820 video, 400 tracce audio e un ricco repertorio a richiesta.
Il terzo piano è invece dedicato ad ospitare esposizioni temporanee e proprio qui, dal 22 dicembre 2018 fino al 16 giugno 2019, è visitabile L’Italia dei fotografi. 24 storie d’autore, la prima di questo nuovissimo museo. La mostra (organizzata da Casa dei Tre Oci – Civita Tre Venezie, a cura di Denis Curti) propone oltre 230 immagini di formati diversi, a colori e in bianco e nero, scattate da 24 grandi fotografi italiani che raccontano il Paese nel corso del ’900, in una sorta di ideale prosecuzione della narrazione multimediale della mostra permanente sul XX secolo e sulle sue trasformazioni, che è ospitata nei primi due piani.
L’esposizione è riprodotta fedelmente in un bel catalogo edito da Marsilio (con testi di Denis Curti e Michele Smargiassi) ed è completata da un vasto archivio documentario dedicato agli autori, formato da una selezione di circa 100 libri in libera consultazione e da un ricco palinsesto di video-interviste e documentari. I fotografi presenti sono i più rappresentativi della scena novecentesca nazionale e internazionale: Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Letizia Battaglia, Gianni Berengo Gardin, Carla Cerati, Luca Campigotto, Lisetta Carmi, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Mario De Biasi, Franco Fontana, Maurizio Galimberti, Arturo Ghergo, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Francesco Jodice, Mimmo Jodice, Nino Migliori, Riccardo Moncalvo, Ugo Mulas, Fulvio Roiter, Ferdinando Scianna, Tazio Secchiaroli, e Massimo Vitali.
Si tratta di autori che appartengono a generazioni diverse e dunque abbracciano di fatto l’intero arco temporale novecentesco (si va da Arturo Ghergo classe 1901 a Francesco Jodice, classe 1967); provengono da nove regioni diverse (6 Lombardia, 4 Emilia, 3 Liguria e Veneto, 2 Campania, Marche e Sicilia, 1 Lazio, Piemonte) che coprono quasi l’intero territorio nazionale; sono soprattutto uomini ma non sono assenti le donne (sebbene siano solo tre); hanno avuto esperienze professionali spesso molto differenti; partecipano ciascuno con temi e linguaggio propri (usano mezzi, tecniche e formati disparati); ma insieme contribuiscono a creare un affresco fortemente unitario capace di restituire le numerose sfumature della nostra storia nazionale nel corso del secolo da poco concluso. La ricchezza delle voci, insomma, produce lo stesso effetto di un’orchestra che esegue una melodia perfettamente armonica, sebbene (o forse proprio perché) a eseguirla siano 24 strumenti dotati di timbro e colore specifici. Il titolo, d’altronde, sembra alludere a certe raccolte di antologie narrative i cui testi vengono commissionati ad autori diversi (24 storie d’autore), chiamati però ad interpretare un medesimo tema (L’Italia).
L’approccio scelto, dunque, propone una feconda dialettica tra unità del soggetto d’indagine e pluralità dei punti di vista, tanto che fuoco dell’esposizione diventano contemporaneamente anche i tanti sguardi che raccontano il Belpaese. E proprio attraverso questa oscillazione tra molteplicità caleidoscopica dei punti di vista e unità di soggetto rappresentato la mostra sa far emergere tanto la complessità di una nazione e di una storia come quelle italiane quanto la ricchezza della fotografia italiana del Novecento.
Arturo Ghergo, il più anziano dell’elenco, che ha mosso i suoi passi durante il ventennio fascista, che pour cause limitava fortemente la libertà di espressione, è presente con una serie di ritratti femminili di grande eleganza formale, di fatto privi di sfondo e contesto, che provengono dal mondo del cinema. Anche Tazio Secchiaroli partecipa con una serie di scatti dai set felliniani, ma la distanza temporale che lo separa da Ghergo restituisce molte delle trasformazioni che in pochi anni hanno mutato il volto del Paese prima che del suo cinema.
È, questa della registrazione dei cambiamenti anche fisici, un elemento che caratterizza fortemente questa esposizione, e in tale ambito un ruolo speciale rivestono le immagini di Mario Cresci, qui presente con i Ritratti reali realizzati a Tricarico (MT) tra il 1967 e il 1972. Si tratta di una serie di dieci trittici in cui altrettanti nuclei famigliari sono ritratti, mentre tengono in mano foto di “antenati”, dapprima inquadrati in campo lungo (tale da iscrivere i gruppi nello spazio domestico), poi più ravvicinato (lo spazio è escluso e campeggiano i corpi e i volti dei singoli), infine solo le foto che i soggetti inquadrati prima esibivano tra le mani. Si tratta di un lavoro di grande suggestione, che riflette contemporaneamente sullo spazio, sul corpo e sul tempo, e lo fa proprio ad un crocevia storico, la fine degli anni Sessanta, di grandi trasformazioni spaziali, antropologiche e storiche.
Sono, anche per motivi generazionali, spunti riscontrabili in numerosi altri lavori: quelli, ad esempio, di Ferdinando Scianna, che indaga il sentimento magico-religioso di una Sicilia rurale e arcaica; o di Mario Giacomelli, che osserva giovani seminaristi in momenti di svago e di leggerezza; o di Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati, che raccontano i manicomi come istituzioni totali violentemente repressive; o di Lisetta Carmi, che descrive con rispettosa attenzione il mondo dei travestiti, ritraendoli nelle loro case, in momenti di intimità privata, facendone emergere un inaspettato senso di candore.
Accomuna questi artisti, che pure si rivolgono a realtà molto diverse, il fatto di coglierle alle soglie di quella crisi epocale rappresentata dall’irrompere del ’68: da allora, infatti, la religiosità, la civiltà contadina, la malattia mentale, la sessualità (o meglio il modo di rapportarsi con tutto ciò) subiranno trasformazioni irreversibili, che richiederanno nuovi sguardi e nuovi linguaggi.
Ma è il paesaggio, lato sensu, quello che forse ha attratto con più forza lo sguardo dei fotografi italiani ospitati nella mostra. E quando si affronta questo tema non si può che partire da Luigi Ghirri, che più di ogni altro ha dato una sistemazione anche teorica a un nuovo modo di guardare e rappresentare il paesaggio italiano (Viaggio in Italia, 1984; Esplorazioni sulla via Emilia, 1986), che prende corpo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Qui l’opera del maestro reggiano è presente con una serie di scatti presi nella “bassa” emiliana agricola e svuotata, e rivela tutta la sua forza attrattiva ed esemplare tanto per i suoi coetanei, quanto per i più giovani, come è sottolineato, se mai ce ne fosse bisogno, dalla presenza dei lavori di Maurizio Galimberti e quelli di Giovanni Chiaramonte, che si collocano evidentemente, sebbene in maniera personale, nel solco del magistero ghirriano.
Altrettanto vuoti, ma di esclusiva ambientazione urbana e (post)industriale, sono le immagini di Gabriele Basilico, che mette in scena le periferie, le architetture abbandonate, la città senza gli uomini che la abitano, così come propone, ma per la sua Napoli, Mimmo Jodice. Se questi autori prediligono il racconto di una città non monumentale né turistica, in altra direzione sembra andare l’esplorazione che Luca Campigotto fa della città forse più turistica d’Italia: Venezia. Solo che nelle fotografie messe in mostra egli ritrae una Venezia immobile e notturna, sottraendola alla devastazione del turismo di massa e restituendola a una dimensione (forse la sua vera e originaria) onirica e misteriosa attraverso un raffinato e suggestivo gioco di luci e di ombre.
Una intenzione non diversa sembra animare i lavori di Olivo Barbieri (anche lui emiliano, di “scuola ghirriana”), il quale, però, lavora con il colore, con cui, attraverso la sovraesposizione, forza le immagini fino a far assumere loro parvenze sintetiche tali da conferire ai paesaggi ritratti aspetti straniati e inquietanti, quasi conducendoli al limite di una imminente epifania. E, a proposito di colore e di luce, il visitatore non potrà non rimanere incantato dai risultati ottenuti da Franco Fontana, che ritrae i suoi paesaggi con l’attitudine di un pittore astrattista. Non foto a colori, ma foto di colori, le sue, che davvero regalano allo sguardo una nuova esperienza estetica e una nuova prospettiva di immaginazione e di bellezza.
Nel riflettere su queste immagini e su questi autori viene spontaneo chiedersi se rispetto alla generazione precedente non sia forse venuto meno un ruolo esplicitamente militante, engagé dell’artista, le cui opere costituiscono un elemento di denuncia e di lotta politica, come in qualche modo è evidente nell’approccio “neorealista” di Fulvio Roiter o di Mario De Biasi o di Nino Migliori. Invece, a ben guardare, in essi emerge una forma nuova dell’impegno, figlia della crisi delle ideologie che inizia a manifestarsi proprio in quegli anni: è uno sguardo “ecologico” (anche qui nell’accezione più ampia del termine) e per questo profondamente etico e civile. E un atteggiamento simile si riflette anche dentro il lavoro di un’autrice come Letizia Battaglia, la quale, se a un primo approccio pare più legata ai temi del racconto di cronaca (nera e di mafia), lo fa con un linguaggio formale di estrema cura, così da trovare in esso, piuttosto che nei temi, la sua eticità e la sua drammaticità.
Ci sono poi le immagini che sanno restituire il sapore di un’epoca, concentrandosi su temi o ambienti specifici: è il caso delle Vacanze di Riccardo Monclavo, del Bar Jamaica di Ugo Mulas, del Mondo cocktail di Carla Cerati. Questi ultimi autori, in particolare, raccontano due Milano molto diverse, sebbene separate da una manciata di anni appena: la prima quella di una bohème sospesa sul boom economico, l’altra quella in bilico tra alta cultura e mondanità che, col senno di poi, siamo già disposti a definire “da bere”.
In questo particolare “filone” si distinguono per l’uso di un formato “monumentale” le quattro immagini di Massimo Vitali che raccontano Le spiagge e le discoteche italiane (due foto per ciascun soggetto): le prime sono quelle di Rosignano, dove, in un’acqua amniotica che lambisce un litorale selvaggio e affollato, si stagliano gli impianti industriali della Solvay (che spiegano la consistenza lattiginosa del mare); le altre due fissano lo sguardo nell’interno di una piccola discoteca, dove un pubblico di giovani guarda in un punto che allo spettatore non è dato vedere, e verso il quale si muove con aria trasognata e rapita in una sorta di effetto ralenti straniante. Sono i luoghi pubblici per eccellenza degli anni Novanta, in cui l’Autore si reca quasi a studiare i comportamenti sociali di massa con l’attitudine dell’entomologo, che non giudica ma osserva allo scopo di comprendere, affascinato da un mondo che non capisce, ma riproduce nella sua frammentarietà affastellata di storie identiche ma che non dialogano più tra di loro.
È la crisi di un mondo e il palesarsi di un altro i cui caratteri, però, non sappiamo ancora decifrare o semplicemente nominare. Un’età che è stata definita «delle passioni tristi», della parcellizzazione e della frantumazione sociale in monadi incomunicanti. E in tale fenomeno non vengono coinvolti soltanto i rapporti interpersonali, ma anche quelli tra individuo e ambiente, cittadino e spazio urbano.
Per questo è inevitabile congedarci da questa carrellata con il più giovane degli artisti presenti in mostra, Francesco Jodice, e che nell’ideale percorso cronologico lungo il Novecento seguito anche dal catalogo, chiude un capitolo e forse ne apre uno nuovo di rappresentazione fotografica. Le sue Cartoline dagli altri spazi rappresentano un modo suggestivo di racconto dello spazio urbano, in quanto mette al centro la relazione con l’umano. In questi scatti il rapporto tra il soggetto, sempre inquadrato in campo lungo, e il contesto che lo sovrasta o lo allontana è profondamente disturbato, dominato da un senso di inappartenenza e di incongruo, che sa cogliere la cifra di una condizione umana (ma profondamente sociale e politica) estremamente attuale.
L’esposizione, insomma, se da una parte, come si è detto, si può leggere come un efficace complemento all’esposizione museale del Novecento, dall’altro ha una sua piena autonomia e una sua enorme forza rappresentativa, perché sa mettere al centro la ricchezza linguistica del medium fotografico, capace di essere contemporaneamente osservatore e interprete delle trasformazioni con cui si confronta. Perché l’arte, tutta, ma in questo caso quella fotografica, riesce a portare lo sguardo oltre la superficie dei fenomeni e sa trovare simboli potenti in grado di suggerire gli elementi utili alla decifrazione del tempo presente e delle sue sfide.