Marco De Paolis è Procuratore Generale Militare presso la Corte Militare d’Appello di Roma. È considerato uno dei maggiori esperti in materia giuridica di crimini di guerra della seconda guerra mondiale, ha istruito e portato a dibattimento 18 processi, dal 2003 al 2012, per le più gravi stragi nazi-fasciste compiute in Italia durante la seconda guerra mondiale tra cui Monte Sole e Sant’Anna di Stazzema. È autore di numerosi saggi e pubblicazioni a carattere scientifico sul tema dei crimini di guerra e nel campo del diritto penale militare, tra cui: La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-2013), Viella 2016 (con P. Pezzino); Sant’Anna di Stazzema. Il processo, la storia, i documenti, Viella 2016 (con P. Pezzino); Cefalonia. Il processo, la storia, i documenti, Viella, 2017 (con I. Insolvibile).
L’intervista è a cura di Eloisa Betti, realizzata nell’ambito del progetto “Dopo la strage. La memoria di Monte Sole nell’Italia Repubblicana”, promosso dal Comitato Regionale Onoranze ai Caduti di Marzabotto in collaborazione con il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna.
Quando si è avvicinato per la prima volta al grande tema dei crimini nazi-fascisti e in particolare delle stragi, che poi connoterà la sua esperienza professionale e biografica?
Ci sono stati due momenti. Il primo inconsapevole e il secondo, invece, consapevole. Ho iniziato a svolgere le indagini sui crimini di guerra nazifascisti della seconda guerra mondiale nell’aprile del 2002, quando fui nominato Procuratore militare alla Procura militare di La Spezia. In precedenza, avevo svolto le funzioni di giudice per le indagini preliminari presso lo stesso tribunale e lì avevo archiviato circa 120 procedimenti che riguardavano queste stragi, non essendoci elementi per procedere. I ruoli del giudice e del pubblico ministero sono molto diversi. In un primo tempo, infatti, erano pervenute le richieste di archiviazione di procedimenti in cui non c’erano prove sufficienti per celebrare un processo. Il 22 aprile 2002 assunsi le funzioni di Procuratore militare e nei mesi precedenti la nomina i colleghi, che poi sarebbero divenuti i miei sostituti, mi fecero riflettere su questo tema.
L’elemento forse più significativo, tuttavia, fu l’intervista che feci proprio nell’aprile 2002 con la televisione tedesca e il noto giornalista tedesco Udo Gumpel. Il 17 aprile di quell’anno l’allora Presidente della Repubblica Tedesca Johannes Rau venne a Marzabotto insieme al Presidente italiano Carlo Azelio Ciampi, per onorare le vittime di Marzabotto e quelle di tutte le stragi naziste in Italia. In occasione di quell’evento storico, la televisione tedesca fece un accurato servizio, che mi colpì perché furono intervistati quattro ex appartenenti alla 16a Divisione-SS Corazzata Granatieri, responsabili delle stragi di Marzabotto-Monte Sole e di Sant’Anna di Stazzema. In quel contesto, mi confrontai con quel valente giornalista tedesco e poi, vedendo il documentario da lui realizzato, mi resi conto che si trattava di un’indagine molto impegnativa e onerosa, che si andava a costruire. Fu in quel contesto che presi piena consapevolezza dell’importanza di questa vicenda giudiziaria.
Ci furono degli elementi che favorirono la sua azione, anche rispetto a quanto realizzato in precedenza?
Certamente, i servizi di Franco Giustolisi pubblicati sull’“Espresso” ebbero il loro peso, ma essi trovarono una disponibilità e una sensibilità particolare nel mio ufficio. La scoperta del cosiddetto “Armadio della vergogna” a Palazzo Cesi, dove io ora lavoro, risaliva al 1994. Tra il 1994 e il 2002, anno in cui presi servizio come Procuratore militare a La Spezia, dal punto di vista giudiziario non era successo praticamente nulla, nel senso che in Italia furono celebrati soltanto quattro processi. Rispetto alle centinaia di stragi, a cui si riferivano i più di mille procedimenti scaturiti dal ritrovamento dei fascicoli occultati, direi che è poca cosa.
Nel momento in cui lei assume l’incarico di Procuratore militare, La Spezia diventa l’acme attorno al quale si concretizzano questi importanti procedimenti processuali. Quali sono le difficoltà che si trova ad affrontare e con quali strategie riesce a superarle?
È un discorso da un lato semplice e dall’altro complesso. Semplice, perché si trattava di prendere atto di innumerevoli reati gravi non prescritti, oltretutto spesso ben noti perché erano fatti pubblici, di cui si era occupata la storiografia e la stampa. In ciascun paese, in ciascuna regione, le persone conoscevano la storia tragica che aveva segnato le loro comunità. Potevano non essere note a livello a nazionale, ma a livello regionale, provinciale e locale lo erano.
La prima difficoltà è stata quella di capire, di confrontare ontologicamente due cose che avrebbero dovuto essere sullo stesso piano e invece non lo erano: la realtà di tanti crimini e la scoperta incredibile che non vi era stata nessuna risposta giudiziaria. Questo passaggio è stato lungo e complesso. Accertato che si trattava di qualcosa di reale, a quel punto si è passati dalla semplicità alla complessità.
Nonostante vi fosse stata un’attenzione mediatica, quindi una conoscenza a livello nazionale di questi fatti otto anni prima, con il processo Priebke del 1994, poi però non c’era stato alcun seguito significativo. In tutta Italia c’erano stati soltanto 4 processi, ma tutte le altre procure militari avevano archiviato i processi che provenivano dal cosiddetto “armadio della vergogna”, a cominciare da Roma dove erano stati archiviati tutti. Vi erano tantissimi reati non prescritti sui quali sarebbe stato obbligatorio procedere.
Superare questo problema, psicologico e giudiziario, non era semplice. Da un lato, c’era la consapevolezza della doverosità e dell’obbligo di procedere, perché la legge prevede l’obbligo dell’esercizio dell’azione penale, per il pubblico ministero. Dall’altro, c’era l’esperienza di quasi tutti gli altri uffici giudiziari dove non c’era stato nessun processo e nessuna indagine.
C’è stata quindi la difficoltà di metabolizzare, accettare questa differenza. Perché soltanto a La Spezia si procedeva? Fino a che non ci sono state le prime sentenze di condanna, che hanno confermato l’esattezza della scelta di non archiviare e la giustezza dell’indagine, è stato un grosso problema, che io ho risolto con la mia coscienza, mettendomi a lavorare e condividendo l’esperienza con un solo collega…
La Procura militare di La Spezia nel 2002 aveva solo due magistrati. Il Procuratore militare, che ero io, e un sostituto che aveva preso le funzioni giudiziarie da pochi giorni. A fronte di un organico così ridotto, avevamo pendenti circa 90 procedimenti per strage che poi son diventati nel corso degli anni successivi oltre 300. Complessivamente, tra il 2002 e il 2008, abbiamo trattato circa 450 procedimenti relativi a fatti avvenuti 60 anni prima, oltre al lavoro giudiziario ordinario corrente.
È stata una stagione molto particolare, nella quale abbiamo avuto la collaborazione di vari soggetti. La struttura della Difesa messo a disposizione alcuni mezzi. L’Arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza hanno fornito personale qualificato, anche bilingue, per fare le indagini, in grado di leggere e scrivere in lingua tedesca, per confrontarsi con le forze di polizia e la magistratura tedesca. Gli enti territoriali, in particolare le regioni Toscana ed Emilia-Romagna, e i comuni erano anche disponibili a dare qualche mezzo. Avere il supporto, soprattutto morale, di questi enti pubblici territoriale, fu sicuramente un grande sostegno nel clima di isolamento e solitudine del singolo magistrato che deve prendere decisioni molto importanti.
Qual è stato il suo rapporto, in particolare con la realtà di Marzabotto, con il Comitato Regionale Onoranze ai Caduti? In qualche modo, la realtà di Marzabotto si distingue dalle altre?
Per quello che riguarda Marzabotto, parliamo della strage di civili più rilevante in Italia e in Europa, comparabile per dimensione solo a Oradour-sur-Glane. Marzabotto-Monte Sole si distingue per organizzazione esistente, con il Parco storico di Monte Sole e la scuola di pace, il ruolo dei Comuni, che sono molto ben organizzati, e le comunità che sono forti e mantengono viva la memoria. Sicuramente Marzabotto, insieme al comune di Sant’Anna di Stazzema, hanno rappresentato due puntelli, sostegni morali e psicologici per le indagini.
I rapporti e le relazioni stabilite sono stati importanti, superata la prima diffidenza. Inizialmente non è stato facile, perché logicamente venivamo da cinquant’anni di silenzio, cinquant’anni di nulla. C’era stato il processo Reder nel 1950, ma era, come dire, la foglia fico che copriva la vergogna di un disinteresse sostanziale dello Stato e della Giustizia su questi fatti. Ricordo che all’inizio i rapporti erano abbastanza tiepidi, molto formali, perché giustamente, dal punto di vista di quelle comunità, non c’era più la speranza di ottenere qualcosa dopo cinquant’anni di silenzio.
Dopo pochi mesi, quando si è potuto constatare che le indagini cominciavano a produrre degli indagati, che c’erano delle persone che venivano sottoposte a interrogatorio e venivano compiuti degli importanti atti investigativi, le cose sono cambiate. E così è nato un rapporto assai fecondo, e molto importante, non solo dal punto di vista funzionale dell’indagine. È diventato, per me, un rapporto importante anche sotto l’aspetto personale, che ha aiutato tantissimo – sotto l’aspetto psicologico e morale – le indagini, di per sé particolarmente difficili.
È stato un percorso, un cammino che abbiamo fatto insieme al Comitato Regionale Onoranze ai Caduti di Marzabotto, insieme ai comuni, ai sindaci che si sono succeduti, agli assessori, ma anche con tutte le persone, i sopravvissuti, i familiari…
L’Associazione familiari delle vittime degli eccidi nazifascisti di Grizzana, Marzabotto, Monzuno ha avuto un ruolo in questo vostro lavoro di indagine?
Ha avuto due importanti funzioni. Anzitutto, quella di fornirci i nominativi delle persone coinvolte, le persone che potevano riferire sui fatti. Non era facile individuare i testimoni dopo così tanto tempo. Chiaramente rispetto al processo Reder del 1951, quando la platea dei testimoni adulti era molto numerosa, cinquant’anni dopo gli adulti che erano ancora in vita erano molto vecchi. C’erano però degli anziani che all’epoca erano giovani, ragazzini o adolescenti, magari in grado di ricordare. Un sedicenne, un diciottenne, un quindicenne, che non era stato sentito perché minorenne all’epoca, aveva sicuramente la possibilità di ricordare e negli anni Duemila poteva avere molte cose da dire.
Quindi l’Associazione e il Comitato onoranze ci hanno aiutato nell’individuare e trovare persone che potevano contribuire alla ricostruzione dei fatti. E questo è stato fondamentale. E poi le hanno anche sostenute, perché far riemergere dai propri ricordi queste pagine così dolorose, così brutte, non è semplice. Il fatto di appartenere a una comunità è importante e le associazioni, in questo caso quelle di Marzabotto, hanno aiutato anche dal punto di vista psicologico, le persone più fragili e colpite, per contribuire all’accertamento dei fatti.
L’attivismo di queste associazioni ha avuto un peso più generale sull’azione che lei è riuscito a portare avanti, anche rispetto ad altri casi?
Laddove c’è un’associazione, chiaramente è più facile andare avanti, perché c’è un interlocutore che fa da collettore di determinate esigenze, aspettative, istanze e fa da mediatore con le persone. Dove ci sono associazioni forti e organizzate, come a Sant’Anna di Stazzema, Civitella Val di Chiana e Marzabotto, le indagini sono state agevolate.
Condurre un’indagine all’inizio così incerta su un tema così delicato, dopo tanti anni, se non ci fosse stato un sostegno morale dei familiari delle vittime, delle istituzioni, delle associazioni sarebbe stato molto più complicato in un contesto di indifferenza sostanziale.
Che peso ha avuto la relazione con la Germania, l’atteggiamento dei suoi colleghi e delle istituzioni tedesche? Che tipo di collaborazione si è sviluppata?
La mia valutazione è sostanzialmente positiva, non avrei potuto fare granché se non avessi avuto una collaborazione fattiva da parte della Germania. Credo che noi dobbiamo riconoscenza alla Germania per come ha sostenuto le mie indagini. Un’importanza ce l’hanno le persone, al di là delle organizzazioni, la differenza può farla l’individuo: io ho conosciuto tantissimi procuratori, tantissimi funzionari di polizia. Noi abbiamo collaborato con circa 60 procure tedesche, molte altre austriache e francesi. Sicuramente alcuni procuratori sono stati determinanti per la sensibilità che hanno avuto e quindi per l’aiuto e il sostegno che ci hanno dato.
Come avete svolto le indagini, come è nata l’idea di un team bilingue?
Su suggerimento di un collega, Procuratore militare di Verona, che aveva competenza anche sul Trentino dove il bilinguismo era diffuso tra le forze dell’ordine, ho maturato quest’idea del team bilingue. Si trattava di un’indagine vastissima, molto complessa, quindi ho ritenuto che questo gruppo dovesse essere molto più numeroso, articolato e ben organizzato. Abbiamo messo in piedi questo team bilingue, che poi ho chiamato “Gruppo investigativo speciale per i crimini di guerra” composto da carabinieri e finanzieri bilingue provenienti soprattutto dal Trentino Alto Adige ma anche da altre aree d’Italia.
Questo team è stato la vera arma vincente, perché in questo modo abbiamo potuto dialogare correttamente, efficacemente, approfonditamente con i colleghi tedeschi, come se fossero degli italiani. Questa è stata, un’idea innovativa, penso unica in Italia. Con il nostro metodo di lavoro suscitammo interesse sia a livello nazionale che internazionale, perché all’epoca si andavano costituendo anche vari organismi giudiziari Europei e, quindi qualcuno venne anche a studiare il nostro metodo. È stata una grossa soddisfazione quella di essere riusciti nel nostro piccolo a inventare ed organizzare una struttura investigativa informale e, però molto efficace.
Che ruolo hanno avuto gli storici nell’indagine? Come si sono interfacciati con il pool che realizzava le indagini?
Noi avevamo l’esigenza di “studiare” velocemente, di avere il maggior numero di notizie possibili sui fatti, anche poco conosciuti. Quindi si trattava di mettere insieme una ricerca storico-archivistica su due fronti. Su quello italiano, bisognava rivedere le fonti storiche che poi dovevano diventare fonti di prova giudiziaria. Il testimone o il documento se è rilevante diventa fonte storica per lo storico, ma poi diventa una fonte di prova per il processo.
In Germania, occorreva qualcuno che tecnicamente ci spiegasse come erano organizzate le forze armate tedesche durante la seconda guerra mondiale (come ad esempio Carlo Gentile), e che ci aiutasse ad individuare le fonti, cioè sapere dove andare a prenderle. I carabinieri del Gruppo investigativo speciale hanno praticamente fatto una specie di corso accelerato di archivistica, ma poi sono diventati preziosi anche per gli storici, che magari hanno necessità di capire determinati aspetti tecnici, sigle, acronimi, organigrammi per i quali il militare può dare il suo specialistico contributo una volta capito il documento. È stato un rapporto proficuo e dialettico, in cui c’è stato uno scambio e si sono ottenute delle preziose informazioni.
Lei poi ha avuto e sta avendo un ruolo importante anche nella divulgazione, nel far conoscere l’importanza di questi processi. Dove è nata l’idea di dare voce a tutto il lavoro che avete fatto per un pubblico più vasto?
È una riflessione che è maturata nel corso degli anni, prendendo via via conoscenza e consapevolezza dell’importanza del lavoro che svolgevo e soprattutto del materiale sul quale lavoravo. Mi sono reso conto lavorando su centinaia di casi, esaminando documenti di ogni genere e leggendo dichiarazioni incredibili e storie importanti, che questa esperienza, questo patrimonio di conoscenze non doveva, non poteva rimanere chiuso in un fascicolo giudiziario. Ho avvertito una esigenza morale e anche istituzionale nel mettere a disposizione del pubblico, della collettività, ma soprattutto dei giovani, queste conoscenze, questi fatti.
Questi documenti sono poco conosciuti – se non addirittura talora sconosciuti – e sono poco accessibili anche per gli storici. Noi abbiamo un patrimonio documentale importante per la storiografia contemporanea, da mettere a disposizione degli studiosi. E soprattutto può costituire un’occasione per i giovani, per gli studenti per conoscere delle cose che spesso non si studiano nelle scuole; io, per esempio, da giovane non ho mai conosciuto, non ho mai studiato questa parte della nostra storia contemporanea. Insomma, gli atti delle nostre indagini e dei processi si rivelano assai importanti per conoscere la storia del nostro Paese, per capire veramente da dove veniamo, da dove è nata questa nostra Repubblica, questa nostra Costituzione. E allora ho pensato che essa è un’opportunità, che deve a mio parere essere messa a disposizione della collettività.
Ed è questo il motivo per cui successivamente ha avviato un processo di digitalizzazione della documentazione?
Esattamente. Due sono i motivi: primo per conservarli, perché purtroppo la carta di questi fascicoli è destinata a deteriorarsi inevitabilmente; secondo, per agevolarne la conoscenza. Il processo di digitalizzazione è molto complesso e difficile, e per questo ho cercato anche di sensibilizzare le istituzioni a ciò preposte, perché la magistratura ha un altro compito. Ho avviato un progetto, che auspico di realizzare, di costituzione di un Centro di documentazione e Museo dei crimini di guerra e processi correlati: un polo dove poter conservare e consultare i documenti, le testimonianze, un luogo di studio, di ricerca e di dibattito di questi aspetti. L’idea è quella di mettere a disposizione l’esperienza giudiziaria e collegarla alla ricerca storiografica.
Alla luce di queste esperienze che lei ha avuto come definirebbe il rapporto tra la verità giudiziaria e quella invece storica? Come nella sua esperienza anche concreta questi due aspetti si sono intrecciati e che rilevanza ha secondo lei la verità giudiziaria?
Maggiore è la complessità del fatto da giudicare che è all’attenzione del giudice e maggiore è la consapevolezza della inadeguatezza della giustizia. La sensazione che si ha accostandosi a queste vicende è che esse sono troppo grandi per l’uomo. Questo non significa che non si debba tentare di fare un atto di giustizia, ma solo che l’attività che il giudice è chiamato a svolgere è veramente molto complessa e difficile; tanto vasta e difficile da generare una sensazione di assoluta inadeguatezza. Poi, vi è anche da sottolineare come questa è una giustizia tardiva, quindi più complicata. Tenuto presente che in questo contesto, storia e giustizia si incontrano e si intrecciano, è anzitutto importantissimo dare una risposta, una qualche risposta, alle vittime, ai familiari. Perché, di fronte a tragedie così grandi non c’è nulla di peggio che lasciare completamente abbandonata una comunità, come se i fatti accaduti non fossero crimini commessi da persone in carne ed ossa ma fossero quasi delle disgrazie, come un terremoto, un’alluvione o un cataclisma naturale.
La prima cosa importante è stabilire un principio di diritto, affermare che questi avvenimenti sono dei crimini, non degli eventi naturali spiacevoli. Ed allora, se sono dei crimini, essi hanno dei responsabili, persone che devono rispondere degli effetti di queste azioni criminali. Tutto ciò, inoltre, prescinde dalla eseguibilità o meno di una sentenza, perché l’importante è affermare un principio di diritto. L’importante è l’accertamento dei fatti, di tutti i fatti nella loro interezza oggettiva e soggettiva; e, dunque, anche attraverso l’estensione di tale accertamento verso coloro che hanno collaborato all’organizzazione e alla esecuzione materiale dei crimini senza limitare l’indagine – come era stato fatto in passato, nel primo dopoguerra – soltanto ai comandanti. Questa operazione, vale a dire quella di voler individuare e sintetizzare le responsabilità di una strage (anche vastissima e complessa come quella di Marzabotto) in un’unica figura – quella del comandante – finiva per approdare ad una sorta di giustizia simbolica nell’ambito della quale si dissolvevano e si dimenticavano le responsabilità, gravi e significative, di tantissimi uomini (ufficiali, sottufficiali e semplici soldati) che pure erano presenti e decisive, giacché senza le condotte e le azioni di questi uomini i tanti e tanti crimini non si sarebbero potuti verificare. Tutto ciò mi sembra una cosa importante.
Abbiamo dunque così affermato il principio di responsabilizzazione del militare, che – a differenza delle ricostruzioni dei primi processi degli anni cinquanta – ha una sua testa, una sua responsabilità, una sua identità.
Che differenza ha trovato rispetto ai processi che erano stati celebrati prima del 1994? Come si è relazionato con essi?
Nel dopoguerra ci furono una quindicina di processi, cinque molto importanti, tra cui quelli a Kappler e a Reder, ed altri minori. È chiaro che in quel contesto, in Italia, non si poteva fare di più: la platea degli autori di questi crimini era molto ampia. Quelli erano processi che potremmo definire “simbolici”, perché servivano in qualche modo a tacitare la sete di giustizia. E però erano anche, inevitabilmente, parziali, perché c’era un responsabile e i collaboratori, che erano altrettanto responsabili, erano considerati soltanto semplici testimoni. L’esempio più chiaro è quello di Marzabotto-Monte Sole: noi nel processo del 2007 a La Spezia, abbiamo condannato all’ergastolo un ufficiale e un sottufficiale che erano stati ascoltati come testimoni nel processo Reder. Questa è una differenza molto significativa.
Sul piano personale per lei com’è stato immergersi in questo scenario? Cosa l’ha spinta a proseguire un percorso molto faticoso e irto di ostacoli?
Per me è stata una grandissima esperienza personale che, forse, ha superato anche quella professionale, che era già stata notevole e molto importante. Mi sono imbattuto in una serie di esperienze, di incontri, di persone, di situazioni veramente straordinarie.
Fin da giovane avevo intuito dai racconti familiari l’importanza di questi eventi drammatici: da un lato, infatti mio padre ci aveva raccontato le sue forti esperienze durante la guerra (anzi, come lui suole sottolineare, “le guerre”, poiché ha sempre tenuto a precisare di aver combattuto anche nella guerra di liberazione con il Re); e dall’altro, anche mia madre aveva avuto alcune cose importanti da narrare, visto che la casa dei miei nonni si trova a Roma in via Tasso, strada tristemente nota ai romani per via del carcere politico ivi esistente. Certe cose, dunque, io le avevo già assorbite da ragazzo a modo mio.
È stato sicuramente un percorso di conoscenza, di acquisizione di consapevolezza non solo professionale ma anche morale. C’era un’esigenza, oltre che di giustizia, proprio anche un’esigenza umana di dare una risposta. Quello che ho capito, incontrando centinaia di sopravvissuti e di familiari in tutta Italia ma anche tantissimi tedeschi in Germania, è l’impatto profondo lasciato dal dolore e dalla tragedia che queste persone avevano vissuto.
La cosa che mi ha più sostenuto nella difficoltà delle indagini e dei processi è il fatto che c’era comunque un obiettivo: fare qualcosa per persone che avevano vissuto una fortissima ingiustizia e che, anche dopo tanti anni, vivevano male o con sofferenza questa ingiustizia. Questa è stata la molla personale che mi ha indotto ad andare avanti. E poi sono rimasto chiaramente legato a quei luoghi, anche a qualche persona, perché poi inevitabilmente si creano dei legami e quindi ho parecchi “nonni” e “nonne” sparse per l’Italia.
Come è stato immergersi in quei luoghi? E a Monte Sole?
I sopralluoghi sono fondamentali e anche le commemorazioni. Ad agosto del 2002 partecipai alla prima commemorazione a Sant’Anna di Stazzema, l’anno successivo a Marzabotto. Comprendendo che era indispensabile il rapporto con il territorio, con i luoghi e le comunità allacciammo questa relazione.
Scoprii Monte Sole in occasione di queste indagini, feci vari sopralluoghi e rimasi più volte al Poggiolo, per rendermi conto delle località e dei percorsi fatti dai tedeschi e dalle vittime: se non si vedono materialmente i posti non si capiscono tante cose.
Successivamente, ho sempre partecipato alle celebrazioni come ospite del Comitato e del Comune. Due anni fa ho avuto l’onore e il piacere di ricevere la cittadinanza onoraria: questo è stato per me un momento molto importante perché mi ha legato ancora di più, anche formalmente, a Monte Sole e Marzabotto.