Introduzione
Presento qui un insieme eterogeneo di scritti e di lettere di Ugo Fedeli che danno conto della molteplicità dei suoi interessi e dei suoi ambiti di intervento. Apre una lettera di Errico Malatesta dell’ottobre 1921 che indica una consuetudine di rapporti tra i due e che segnala l’importante ruolo svolto da Fedeli nel contribuire al progressivo mutamento di percezione e di giudizio del movimento anarchico riguardo al bolscevismo. Il documento n. 2 è dedicato a Ettore Aguggini ed è uno dei suoi tanti ritratti biografici di militanti più o meno noti oltre che un contributo all’analisi di un evento spartiacque, per la vita di Fedeli e per la storia del movimento anarchico, l’attentato del teatro Diana, sempre nel 19211. Un altro schizzo biografico è dedicato all’anarchico ebreo Samuel Schwartzbard (documento n. 6): mi è parso interessante potere rispolverare la sua figura, poco nota in Italia, attraverso le parole di Fedeli, che bene lo conobbe nell’esilio parigino.
Ancora, il terzo documento che propongo alla lettura è una lettera del 1951 di Sandro Pertini in cui questi ricorda i tempi del comune confino a Ponza e la figura del figlio di Fedeli, rievocata con mestizia dallo stesso Fedeli nella lettera a Torquato Gobbi (documento n. 4). Qui troviamo anche interessanti accenni al radicamento del movimento anarchico nella Carrara del 1946 e un riferimento al processo di riunione dell’archivio e della biblioteca di Ugo Fedeli all’epoca ancora divisi in diversi tronconi, tra l’Italia, Parigi e Montevideo. Il documento n. 5 riproduce proprio il contratto di cessione all’Istituto internazionale di storia sociale di Amsterdam di queste carte da parte di Clelia Premoli, dopo la morte di Ugo e secondo quando stabilito quando questi era ancora in vita.
Gli ultimi due documenti, infine, sono costituiti da una relazione per la Commissione internazionale di relazioni anarchiche sul movimento anarchico in Italia nel 1948 – in cui si delinea il passaggio del movimento stesso dal generale entusiasmo dei primi tempi dopo la Liberazione, segnati da intensa partecipazione, al declino che caratterizzerà gli anni Cinquanta – e da una lettera al militante spagnolo Ildefonso González di inizio degli anni Sessanta, nella quale Fedeli dà conto delle sue attività di ricerca e di coordinamento.
Tutti gli scritti riportati sono conservati in originale presso l’Istituto internazionale di storia sociale di Amsterdam.
Documento 1
Una lettera di Errico Malatesta che concerne alcuni scritti redatti da Fedeli nel corso dei mesi passati nella Russia rivoluzionaria e lettere di Emma Goldman e Alexander Berkman che denunciano l’opera di repressione messa in atto dai bolscevichi nei confronti del movimento libertario (Ugo Fedeli papers, International Institut of Social History, Amsterdam, 2008, b. 140).
Roma, li 7 ott. 1921
“Umanità Nova”
quotidiano anarchico
redazione:
via della Guardiola, 23
Roma, 20
Caro compagno,
con molto dispiacere, ed un po’ di vergogna, ti debbo dire che avevo disperso i tuoi scritti. Ora che li ho ritrovati pubblicheremo quello che non è troppo vecchio.
Intanto ti prego di scusare quello che è avvenuto, e di mandarci dell’altro che noi pubblicheremo regolarmente.
Mandami le lettere di Goldman e Berkman.
Tuo
Errico Malatesta
Documento 2
Una scheda biografica di uno dei “bombardieri del Diana”, Ettore Aguggini, abbozzata da Ugo Fedeli negli anni Cinquanta (Ugo Fedeli papers, cit., b. 634).
Nato a Milano nel 1900, Ettore Aguggini moriva il 23 marzo 1929 nel penitenziario di Alghero, dove stava scontando una condanna a trent’anni per avere partecipato al famoso attentato al teatro Diana di Milano, il 21 marzo del 1921.
L’attentato voleva essere un atto di protesta di tre giovani anarchici, Ettore Aguggini, poco più che ventenne, Guglielmo Boldrini e Giuseppe Mariani, contro i soprusi della magistratura che manteneva in carcere, senza ragione né desiderio di fare loro un processo, Errico Malatesta ed altri redattori del quotidiano che gli anarchici d’Italia pubblicavano a Milano da un anno circa e che tanto infastidiva polizia e governo.
Arrestati senza una precisa e chiara imputazione Errico Malatesta, Armando Borghi, Corrado Quaglino e compagni, ma col solo scopo di rendere difficile la vita al quotidiano “Umanità Nova” e anche col recondito pensiero di stroncare lo slancio dell’Unione Sindacale Italiana, organizzazione sindacale influenzata dagli anarchici, protraendosi tale arresto oltre le stesse disposizioni costituzionali, un’azione di protesta contro la polizia e la magistratura aveva avuto inizio. Scioperi erano avvenuti in alcune città dove l’Unione Sindacale era largamente rappresentata, come a Carrara, Piombino, fra i minatori del Valdarno, nel Genovesato ecc., non solo ma gli stessi arrestati avevano iniziato uno sciopero della fame che intendevano cessare solo il giorno in cui la magistratura si fosse decisa a liberarli e a fissare la data del loro processo.
Anche a Milano e in molte parti d’Italia avevano avuto luogo grandi manifestazioni di protesta contro la polizia e il governo e di solidarietà coi detenuti, e da parte dell’Unione Sindacale e dell’Unione Anarchica in alcuni centri era stato dichiarato anche lo sciopero generale di protesta, sostenuto limitatamente a una giornata anche dalle altre organizzazioni sindacali riformiste quali la Confederazione generale del lavoro e dal Partito socialista. L’adesione degli organi riformisti era troppo limitativa tanto che essa risultava quasi un atto di sabotaggio dell’agitazione più che un modo per rafforzarla.
Di fronte a una situazione del genere e al pericolo che i detenuti che avevano intrapreso lo sciopero della fame si lasciassero morire, i tre giovani militanti anarchici tentarono col loro atto di protesta di richiamare l’attenzione anche degli indifferenti sul caso Malatesta.
Chi aveva montato tutto il complotto contro Malatesta e il quotidiano “Umanità Nova” era stato il comandante della polizia milanese, il questore Gasti, vecchio arnese della polizia legato alla destra e nemico dichiarato degli anarchici e che più tardi diventerà uno dei famosi prefetti fascisti ed era lui che Aguggini e compagni volevano colpire.
Saputo che regolarmente si recava al teatro Diana e che frequentemente pernottava nell’annesso hotel, i tre giovani militanti pensarono di lanciare una bomba contro questo ritrovo. L’ordigno fu terribile e ben più potente di quanto forse si aspettassero i loro autori. Il suo scoppio colpì a morte 21 persone e ne ferì più di un centinaio, tutti spettatori del teatro, senza colpire il questore di Milano.
L’attentato scatenò una feroce quanto impaurita reazione poliziesco-fascista che in pochi minuti devastò la redazione e la tipografia di “Umanità Nova” e la sede dell’Unione sindacale italiana. I redattori e gli amministratori del giornale anarchico, che avevano sostituito quelli già arrestati col Malatesta, vennero a loro volta arrestati. A Milano vennero arrestati tutti gli anarchici che la polizia poté rintracciare, ma solo dopo più di un mese arrestava i tre autori diretti dell’attentato al Diana e tutti e tre vennero condannati, Boldrini e Mariani all’ergastolo e il più giovane, Aguggini, a trent’anni di galera.
Ettore Aguggini, benché giovanissimo, era molto conosciuto nel movimento anarchico di Milano negli anni tormentosi e infuocati del primo dopoguerra, perché aveva partecipato a tutte le grandi agitazioni che in quegli anni scuotevano l’Italia.
Lo si trovava sempre fra i primi sostenitori e difensori di tutte le iniziative rivoluzionarie. Quando, ad esempio, il 19 aprile del 1919 a Milano i fascisti attaccarono per la prima volta il quotidiano socialista “Avanti!”, egli era fra i suoi difensori, così come allora furono numerosissimi gli anarchici che, contro il fascismo, difesero il quotidiano socialista. Più tardi, nel 1921, quando la situazione si era fatta più dura e il quotidiano era fatto segno delle violenze combinate fra polizia e fascisti, Aguggini era sempre nel gruppo di militanti che quotidianamente montava la guardia al giornale “Umanità Nova”.
L’attitudine di Aguggini al famoso processo che lo doveva condannare a trent’anni fu tra le più ferme e umane nel medesimo tempo.
Interrogato dal presidente sulle ragioni che portarono a compiere l’attentato, Aguggini disse:
“L’attentato del Diana si è verificato dopo sei giorni dall’inizio dello sciopero della fame di Malatesta e compagni. In quei giorni abbiamo aspettato che il governo decidesse di intervenire, perché da molti indizi precedenti vedevamo che il suo proposito non consisteva soltanto nel soffocare questi individui ritenuti da lui capi del movimento anarchico, ma anche nel provocare una rivolta da soffocare poi nel sangue come fece Protopopov in Russia nel 1905. Si aspettava che l’autorità giudiziaria si decidesse a fissare l’epoca del processo; si aspettava l’aiuto dei socialisti e, ultima e definitiva speranza, che il popolo insorgesse di moto proprio e cercasse di evitare con le braccia incrociate ciò che noi abbiamo voluto evitare noi con una bomba, che ha fatto quello che fatto. In una situazione simile abbiamo avuto la disperazione dell’isolamento”
Il Presidente: “E non avete pensato alle conseguenze di quella bomba?”
Aguggini: “Anche la guerra porta delle vittime”, e concludendo: “Se volete che io pianga le vittime, piangerò” […].
In carcere, con il fascismo ormai al potere, la vita gli fu resa estremamente difficile e dura, e impossibile un aiuto continuativo. Gli aiuti che gli inviavano i comitati pro vittime politiche, non potendo inviarli direttamente al detenuto, lo avevano fatto lungamente tramite un cognato che risultò poi che non spediva niente al povero Aguggini.
Tanto che una volta riuscì a far pervenire all’altro compagno di detenzione Giuseppe Mariani, rinchiuso nel terribile ergastolo di S. Stefano, un biglietto che diceva: “Caro Rien, sono stato abbandonato da tutti; da quando sono ad Alghero ho ricevuto solo 60 lire. Tu che sei conosciuto più di me fa sapere a… di spedirmi un po’ di denaro. Tu sai che io mangio molto, e la fame che soffro mi fa sentire un malessere che non avevo mai provato prima. Ricorda sempre il tuo Gavroche”.
Ma senza l’aiuto della famiglia che lo ostacolava nulla era possibile fare, così da informazioni ricevute da ergastolani sardi provenienti dal carcere di Alghero – scrisse Giuseppe Mariani nel dicembre del 1946, appena uscito dal carcere – risultavano sempre le stesse cose: che chiedeva loro spesso del pane; che era molto malandato in salute; che fu ricoverato nell’infermeria quando il suo stato era già grave e che vi morì dopo neppure due settimane.
Documento 3
Una lettera di Sandro Pertini, all’epoca direttore dell’“Avanti!” e già suo compagno di confino politico (Ugo Fedeli papers, cit., b. 175).
Avanti!
Quotidiano del Partito Socialista Italiano
Il direttore
Roma 16 febbraio 1951
Via IV novembre 149
Ugo Fedeli
via Grazzani, 18
Carrara (Apuania)
Mio caro Ugo,
dopo tanto tempo posso nuovamente parlare con te. Peccato che il mio lavoro mi impedisca di trattenermi a lungo in una conversazione che ci farebbe revocare i giorni trascorsi insieme a Ponza col tuo indimenticabile bambino che era una luce per noi e con la tua Clelia, nostra vera sorella.
Io sono sempre lo stesso, quello che tu hai conosciuto al confino. Il mio animo non è mutato e lotto sempre con la passione di ieri, anzi oserei dire con più entusiasmo e più tenacia di ieri. La situazione è più difficile, ma questo, come tu puoi immaginare, non può affievolire la mia fede.
Chissà che io non faccia un salto a Carrara e allora cercherò di incontrarmi con te. Salutami tanto la tua Clelia.
A te, mio caro Ugo, un abbraccio fraterno.
Tuo Sandro.
Documento 4
Una lettera a Torquato Gobbi, compagno di Ugo e Clelia nella redazione di “La Lotta Umana” e di “Studi Sociali”(Ugo Fedeli papers, cit., b. 104)2.
Carrara 5/12/46
Carissimo Torquato,
Già da molto tempo ho ricevuto la tua cara e sempre interessante lettera. Da allora mi sono trasferito temporaneamente da Milano a Carrara, la città dove il nostro movimento è molto importante, ragione per cui bisogna sapergli dare e conservare una serietà e forza morale che imponga rispetto a tutti. Non so quanto tempo rimarrò qui. Ormai sono già quattro mesi che mi trovo qui, e la Clelia quasi sempre a Milano o a fare la spola fra Milano e Carrara e sicuramente ci passerò ancora tutto l’inverno, poi vedremo. Fra le altre cose si è creato a Carrara una poderosa cooperativa per costruzioni e lavori stradali che, partita da niente, ha già realizzato un discreto capitale ed è quella che coi suoi frutti permette di svolgere la propaganda in queste contrade e di aiutare molta popolazione di queste montagne che sono state particolarmente colpite dalla guerra partigiana e dalle terribili rappresaglie nazifasciste, che sono arrivate ad uccidere in alcuni paesi tutte le persone che hanno incontrato, uomini, donne e bambini, nelle loro stesse case a colpi di bombe a mano, appiccando poi il fuoco alle case dove vi erano numerosissimi feriti. Qualche cosa di veramente terrificante.
Vorrei raccontarti qualche episodio. Quelli di Vinca, un paese sperduto delle montagne dell’Apuania, ma ho paura di annoiarti raccontando cose che pressapoco già conoscete.
Ho saputo che hai tradotto il mio piccolo ricordo su Ughetto. Ti sarei veramente grato se mi mandassi il giornale dove è stato pubblicato.
Non perché Hughetto era mio figlio, ma egli è sempre stato un vero e piccolo eroe, che ha conosciuto le asprezze della vita e della lotta. Nascendo, subito, non sapeva ancora camminare che venne a trovarmi in carcere a Milano e da allora tutta la sua vita non la passò che al confino sentendo raccontare episodi e vita di galera, vedendo arrivare ogni giorno uomini legati in lunghe catene, trasportati di carcere in carcere. Egli era il più piccolo e non aveva ancora quattro anni, che fu rinchiuso con me nel carcere di transito di Napoli, e non pianse, non si lamentò mai, perché sapeva che così facendo mi faceva piacere. Guai se incomincio a lasciarmi andare ai ricordi sul mio piccolo, sul nostro piccolo, perché la Clelia è qui vicina a me, con me e con lui sopportò tutte le innumerevoli traversie ed è lei che più di ogni altro lo fece un uomo.
Non so che idea hai sul movimento in Italia. Io sono più che mai per l’organizzazione e nel lungo periodo della lotta clandestina ho visto, abbiamo visto che si è fatto veramente qualche cosa, ed ora si rappresenta qualche cosa, solamente in quei luoghi dove noi eravamo organizzati.
Ho un lungo scritto che ho intitolato Dalla lotta clandestina all’attuale dove tento di rilevare e portare a conoscenza di tutti questa esperienza nostra. L’ho mandato a “L’Adunata dei Refrattari” da diversi mesi, ma ancora non l’ho visto pubblicato. Lo manderò a “Studi Sociali” in questi giorni perché desidererei proprio che fosse pubblicato. Lo dirai a Luce [Fabbri].
La nostra stampa in Italia vale veramente poco. Avrai già avuto occasione di vederla. Siamo in troppo pochi a scrivere e a lavorare seriamente.
È venuto in Italia Borghi, e fa molto lavoro, ma è venuto con una mentalità americana e col partito preso credo. Egli è l’unico che attualmente sia avversario dell’organizzazione e si intende bene che farà proseliti. In marzo avremo un nuovo congresso nazionale. L’ordine del giorno l’ho mandato anche a Luce. Leggetelo e diteci tutti i vostri suggerimenti, saranno ben accolti. Di Santillán non ho avuto nessuna notizia, benché vorrei sapere il suo pensiero sulle cose che travagliano il nostro mondo e particolarmente il nostro movimento. Se lo vedi e se hai occasione di scrivergli digli di scrivermi. So anche che si è messo a fare l’editore e ha pubblicato molte opere interessanti, digli di mandarmele.
Ho ricevuto alcune pubblicazioni dall’Uruguay, e sono contento che almeno là qualche cosa di concreto si faccia.
Ti ho fatto spedire il giornale “94” che ad intervalli faccio a Carrara, mandami le pubblicazioni antifasciste che si pubblicano nell’Uruguay e nell’Argentina. Opere nostre, veramente nuove, non ne sono state pubblicate in Italia, è vero che data la situazione intellettuale, dopo più di vent’anni di silenzio e di soffocamento, tutto è nuovo quel che si pubblica.
Avrai visto nella nostra stampa spagnola che si pubblica in Francia che si è pubblicato molto su Carrara. È indubbiamente in questa città che il nostro movimento conta veramente qualcosa e che senza la Fai nulla è possibile fare. Nessuno prende un’iniziativa, nemmeno le autorità senza chiedere consiglio al nostro organismo. Per questo è indispensabile che qui vi siano elementi molto equilibrati. Tra Carrara e paesetti immediatamente vicini vi sono una trentina di gruppi fatti di diverse centinaia di aderenti. Se noi sapremo mantenere queste posizioni potremo contare qualche cosa. Ho buttato giù questa mia lettera disordinatamente, ma non ho voluto più rimandare una risposta che ti dovevo da lungo tempo. Scrivimi, scrivimi sempre lungamente, raccontandomi un po’ delle cose del vostro mondo. Parlami di quello che pensate voi, che pensi tu del nostro movimento in Italia. Salutami tutti i cari amici e compagni che io ricordo. Parlami del movimento intellettuale dell’Uruguay, parlami del nostro movimento in Argentina. Scrivimi presto e a lungo.
Un saluto fraterno a te da parte della Clelia e mio.
Un ricordo caro alla Luce.
P.S. Tu hai sempre i miei libri lasciati a Montevideo. Appena sarà possibile sarà mia premura farmeli rimandare, di modo che possa alfine ricostruire la mia biblioteca. Spero che essi siano sempre al sicuro e che mi avviserai appena crederai che sia possibile spedirli. La Luce deve sempre tenere dai miei soldi lasciati a Montevideo appunto per la spedizione di tali volumi. Se puoi interessarti, così quando si potrà me li spedirai. Scusami se da tempo ho dovuto lasciarvi tale incarico di guardiano, ma non fu colpa mia.
Fraternamente sempre tuo, Ugo Fedeli
Documento 5
Contratto di cessione dell’archivio e della biblioteca di Ugo Fedeli e Clelia Premoli all’Istituto internazionale di storia sociale di Amsterdam (Ugo Fedeli papers, cit., b. 119).
Contrat
entre
Madame Clelia Fedeli, via al Convento 1, San Giorgio Canavese (Torino), Italia
et
l’Internationaal Intituut voor Sociale Geschiedenis (Institut International d’Histoire Sociale) à Amsterdam, appelé ci-après I.I.S.G., représenté par son directeur-sécrétaire, M. le Professeur Dr. A. J. C. Rüter,
est convenu ce qui suit.
1) L’I.I.S.G. achète de Madame Fedeli, come celle-ci vend à celui-là, les pièces imprimées comme livres, brochures, périodiques etc., et les pièces manuscrites provenant de feu son mari M. Ugo Fedeli, à un prix de Lires 3.000.000,-.
2) En vertu de cette convention Madame Fedeli mettra à la disposition de l’Institut et lui transferéra intégralement tous les papiers qui se trouvaient en date du 9 avril 1964 dans sa maison, Via al Convento 1 à San Giorgio Canavese, et dans un dépot dans la même ville. A ce sujet les règles suivantes seront observées.
3) Au nom de l’I.I.S.G. un représentant de celui-ci acceptera sur place la collection. Celle-ci sera emballée et transportée à Amsterdam par le soins d’un expéditeur, désigné par l’I.I.S.G. Les frais de l’emballage et du transport à Amsterdam, ainsi que la prime de l’asurance, seront à la charge de l’I.I.S.G.
4) L’I.I.S.G. conservera, ordonnera et cataloguera la collection selon les règles en vigueur chez l’I.I.S.G. Les livres et brochures et, dans la mesure de possible, les autres pièces de la collection seront marqués de l’inscription “Collection U. Fedeli”.
5) Aussitôt que la collection sera arrivée à Amsterdam, l’I.I.S.G. payera le prix d’achat de la manière désignée par Madame Fedeli.
6) Dès qu’un catalogue de la collection ou d’une partie de celle-ci sera dressé, Madame Fedeli en recevra un exemplaire.
7) Quand l’examen de la collection sera fai, l’I.I.S.G. retournera à Madame Fedeli les pièces de la collection dont celui-ci, seoln son opinion, n’a pas esion pour ses travaux.
Ainsi convenuu et signé en double
San Giorgio Canavese (Torino)
Amsterdam, le 27 avril 1964
A.J.C. Rüter
Premoli Clelia Ved.a Fedeli
Documento 6
Uno scritto di Fedeli su Chomel (Schulim, Samuel) Schwartzbard, militante ucraino di origine ebrea. Orologiaio, prende parte alla rivoluzione russa del 1917 prima a Pietrogrado, poi in Ucraina. Nel corso della guerra civile quindici membri della sua famiglia vengono massacrati nel corso dei pogrom antiebraici. Sono proprio i pogrom, che si succedono dal 1917 per tutta la guerra civile, anche sotto il mandato di Symon Petljura – capo dell’esercito e dello stato ucraino – e che causano la morte di decine di migliaia di ebrei (dai trentacinquemila ai cinquantamila a seconda delle fonti), a fornire le motivazioni del suo clamoroso gesto, qui raccontato da Fedeli in un articolo pubblicato su “L’Adunata dei Refrattari” dell’11 febbraio 1950 (Ugo Fedeli papers, cit., b. 1053).
Schulim
Era nell’inverno 1922-23 quando per la prima volta sbarcavo a Parigi. Non possedevo nemmeno un soldo ma conoscevo dei compagni. Haussard, sempre fraterno, i compagni italiani e non pochi russi che con me avevano lasciato la Germania, ed alcuni ebrei solidali e fraterni come pochi altri. Uno dei primi che visitai, nella sua botteguccia di orologiaio in Boulevard Menilmontant, fu Schulim, un militante russo-ebreo del quale mi si era parlato molto e dove ero sicuro di trovare altri compagni. Era una figura simpatica, piuttosto basso di statura, lineamenti marcati, capelli arruffati, ma sempre sorridente e gentile. Era una giornata fredda. Trovammo Schulim curvo al suo tavolo di lavoro, e, appena riconosciutomi, prima ancora di metterci a parlare di quanto ci interessava, vedendomi senza cappotto col freddo che faceva fuori, senza dirmi niente, alzatosi, preso un cappotto appeso ad un vecchio attaccapanni e me lo gettò sulle spalle dicendomi: “Tieni, tieni, come si fa a girare con questo freddo senza cappotto?” Più tardi seppi che quello era il suo solo cappotto. Con lui quella volta, e le molte altre che ci rivedemmo, perché ci incontravamo quasi ogni giorno, parlammo della Russia e della Germania. Ci vedemmo ancor più frequentemente soprattutto qualche mese dopo, quando col compagno Haussard si decise di dare alla luce una pubblicazione, tra la rivista e il giornale, dal nome “L’Idée Anarchiste”, e lui fu uno dei collaboratori più assidui.
La sua botteguccia era costantemente piena di gente e lunghe e grandi discussioni erano sempre in corso. Si parlava in tutte le lingue, dall’iddish, al tedesco al russo, al francese, ma erano pochi quelli che questa lingua parlavano perché erano quasi tutti profughi dalla Russia, dalla Polonia, dalla Bulgaria e dall’Italia che si trovavano da lui, non solo per discutere, ma non poche volte, mezzo morti di fame, per domandare aiuto. Nessuno usciva dalla sua botteguccia senza che, in un modo o in un altro, trovasse quanto gli necessitava: da mangiare, da coprirsi o un alloggio. Sorrideva sempre e sembrava sempre felice, soprattutto quando era riuscito ad aiutare un compagno. Difficile era vedere quanto invece profondo e doloroso fosse in lui il tormento per la miseria e il dolore che lo circondavano.
Egli era al centro di un gruppo anarchico di ebrei, ed era da lui che avevo potuto rivedere non pochi di quei compagni che attraverso sacrifici immensi erano riusciti a salvarsi dai pogrom di Russia e di Polonia. Era con un sorriso sulle labbra che ogni giorno ci salutava, e quando il 25 maggio del 1926 i giornali annunciarono che il generale Petljura era stato ucciso da Samuel Schwartzbard, quasi non credevo ai miei occhi.
Erano le due e un quarto del 25 maggio. Un uomo vestito di una lunga blouse bianca, la testa nuda, camminava tranquillamente su e giù per via Racine, poco lontana dal Boulevard Saint Michel, e nessuno faceva caso a quel pacifico operaio, quando improvvisamente, una persona alta, ben vestita, uscì da un ristorante davanti al quale passeggiava l’uomo in blusa. Questi lo esaminò attentamente, e quando stava per allontanarsi lo chiamò: “Pan Petljura, signor Petljura!” L’altro si voltò: “Sì, sono Petljura”. Dei colpi risuonarono e l’uomo dalla blouse bianca gridava: “Difenditi canaglia!”. Quello che era uscito dal ristorante cadde al suolo colpito da due pallottole, una alla gola e l’altra al ventre, ma l’uomo dalla blouse continuava a sparare finché ebbe esaurito le cartucce. La gente era fuggita.
Dopo un po’ un poliziotto accorse. L’uomo dalla blouse bianca, senza fare resistenza alcuna, consegnò il revolver e si lasciò arrestare, esclamando: “Ho vendicato 100 mila ebrei massacrati da quell’infame”. Davanti al commissario, l’arrestato dichiarò d’essere anarchico e di chiamarsi Samuel Schwartzbard. Era il nostro Schulim.
Il fatto destò gran rumore. Ma quello che più di tutto impressionò fu la calma e la tranquillità dell’arrestato. Anche al commissario che per primo lo interrogò, ripeté: “Ho ucciso l’assassino di 100 mila ebrei. Sono soddisfatto!” Anche il processo che ne seguì ebbe una risonanza enorme. Era non tanto e non solo il processo contro l’anarchico attentatore, ma forse e soprattutto contro la stessa vittima: l’Ataman Petljura, l’organizzatore del pogrom. Era più critica la posizione morale del morto che quella dell’attentatore. Il primo era l’oppressore, il secondo la vittima che vuole elevarsi. Vero è che Petljura avrebbe potuto addurre a sua discolpa che molto prima di lui, assai prima della rivoluzione, prima della guerra, i pogrom erano stato sempre un mezzo al quale l’autocrazia ricorreva volentieri. Particolarmente sotto il regno di Nicola II, ogni volta che la cricca imperiale desiderava creare una diversione, la polizia politica scatenava un massacro di ebrei, fra gli applausi generali dei ministri, dei cortigiani e dei granduchi. È sempre stato insomma un atto di alto patriottismo il perpetrarli, il massacrare ebrei, che veramente Petljura, forse, si era domandato perché egli non potesse fare altrettanto. E massacrò, o lasciò massacrare, violentare e distruggere tutto quanto era ebreo.
Al tempo del processo, che si svolse a Parigi, un giornalista, Gustave Kahn, scrisse in un giornale dell’epoca, “Le Quotidien”: “Questo, come tutti i pogrom, non poteva rimanere impunito. Chi ha diritto di punire? Non noi francesi, che accogliemmo questi Petljura, sconfitti ed esiliati, come altra schiuma straniera. Non può essere che un ebreo dell’Ucraina, che in questi pogrom ha visto la sua famiglia violata e stritolata, gli amici uccisi o affogati. Ed infatti Schwartzbard, ucraino e ribelle, non aveva colpito per sé, benché fosse ebreo e avesse avuto molti dei suoi uccisi in tali stragi, ma per tutta quella massa sofferente e sanguinante di ebrei, soprattutto russi e polacchi, che hanno visto, a intervalli quasi regolari, ripetersi queste terribili carneficine.
“Ma perché rendere responsabile Petljura di tutti i pogrom?” domanda a un certo punto del suo interrogatorio a Schwartzbard il presidente del tribunale. “I pogrom sono durati – rispose l’accusato – con varia intensità durante i tre anni che Petljura è stato al potere, Se non li ordinò, li lasciò fare. A quelli che, ebrei o cristiani, andavano a supplicarlo di far cessare i massacri, egli rispondeva: “Non voglio rompere col mio esercito”. Egli sapeva molto bene che, se avesse vietato i pogrom, il suo esercito si sarebbe disfatto. Ufficialmente non poteva che riprovarli, ma in segreto li preparava. Del resto li ha fatti. I suoi furono tre anni di massacri”. Non erano forse i suoi uomini che andavano in giro con un bracciale portante la scritta: “Uccidi gli ebrei e salva l’Ucraina?”.
Schwartzbard raccontò ai giurati come venne nella determinazione di fare il suo gesto: “Vi giuro che dal mio ritorno in Russia, mi son sforzato di dimenticare tutti gli orrori ai quale avevo assistito durante i pogrom. Il caso ha voluto che qualche tempo fa leggessi nel giornale ucraino “Les Dernières Nouvelles” che Petljura era a Parigi. Comperato un revolver, non ebbi riposo sino a quando non ritrovai l’ex Ataman, che del resto non avevo mai visto prima”. E dopo aver raccontato come lo trovò, raccontò: “Avevo tutto preparato. In una tasca avevo la lettera da inviare a mia moglie per avvertirla, ma durante il tempo che Petljura mangiava, ero talmente turbato che non trovai più l’ufficio postale, e andai sino all’Hotel de Ville. Ho sparato cinque volte senza arrestarmi. Sì, ero voltato, ma ho ben mirato e lo seguivo da vicino, passo passo, perché vi era molta gente. Petljura cadde senza pronunciare parola. Tutti fuggirono come mosche. Il primo che mi avvicinò fu un agente che mi disse: “Che è avvenuto? Dammi la tua arma”. Quando gli consegnai il revolver la folla ritornò. Allorché fui condotto via dissi: “Ho ucciso un grande assassino” […].
Tutta una formidabile documentazione era stata presentata al processo, attraverso il resoconto di qualche superstite, ma anche le inchieste svolte in Ucraina stessa e pubblicate nella stampa, come nel “Quotidien” quelle del giornalista Bernard Lecache Quand Israel Muert e di Louis Roubau Terre d’epouvante: les pogroms d’Ucraine. Venne citata anche la documentazione pubblicata nei “Cahiers des Droits de l’Homme”, dove si tiravano un po’ le somme: “Pletiura fu il capo e il dittatore di quella stessa armata ucraina che organizzò, durante gli anni 1919 e 1920, centinaia di pogrom antiebraici nei quali decine di migliaia di ebrei furono massacrati, migliaia di donne ebree violate e beni materiali della popolazione ebrea rovinati completamente. Nella sola città di Proskurov furono massacrati, il 15 febbraio 1919, circa 1500 ebrei, senza contare quelli che morirono in seguito alle ferite; a Zhytomyr, durante un pogrom che ebbe luogo dal 22 al 26 marzo 1919, 329 ebrei persero la vita, e a Teplyk, i banditi di Petljura assassinarono 18 ebrei (“Les Cahiers des Droits de l’Homme”, anno 27, n. 18, 10 settembre 1927).
Era tutto un quadro terribile, ma vero, quello che venne presentato ai giudici e all’opinione pubblica, che in Francia è oltre che vigile anche sensibile. Ed era nella tragicità del quadro, dove uomini e fatti risultavano ben chiari, che si poteva comprendere il sentimento che spinse Schwartzbard a colpire. Egli, che era un “sognatore del ghetto”, ma, come ebbe a dire Victor Bash, che “era anche un uomo nel quale le immagini si traducono in fatti”, aveva agito elevandosi a vendicatore delle migliaia e migliaia di morti nei pogrom. I giudici francesi compresero questo e lo assolsero.
Il nostro Schulim che era stato semplice e sensibile durante tutta la sua vita, conservò il suo equilibrio, anche se da molti ebrei era ormai considerato come un eroe vendicatore di tutte le loro sofferenze.
Riacquistata la libertà, fu sempre chiamato dovunque vi fosse opera di solidarietà da compiere, perché con la sua parola e con la sua presenza incitasse a dare. Ed egli che non sapeva mai negarsi, benché malato, andava dove era chiamato, e in questa opera si è consumato.
Ora, ritornando a Parigi, avrei voluto rivederlo, stringergli di nuovo la mano, sentire ancora il soffio del suo ottimismo e della sua fiducia, del suo grande cuore. Invece, su, nel suo piccolo quartiere di Belleville, vi trovai la sua generosa compagna, sola, nel dolore. Schulim era morto nell’estate del 1938, in Sudafrica, in seguito a un attacco cardiaco, mentre stava portando a termine un giro di conferenze organizzate per una Enciclopedia Ebraica. Eppur era ancora giovane, appena cinquantenne, perché era nato a Smolenz nel 1888. Ma mentre per una lesione polmonare e la malattia del cuore, egli avrebbe dovuto evitare ogni emozione e fatica, come gli avevano prescritto i medici, egli continuò a portare in giro senza elemosinare, il soffio del suo entusiasmo e la forza della sua volontà, dando agli altri senza curarsi di se stesso.
Documento 7
Un resoconto sullo stato del movimento a nome della Fai nel 1948 e diretto alla Commissione anarchica di relazioni internazionali, strumento di coordinamento sovranazionale che egli contribuì ad animare nel secondo dopoguerra (Ugo Fedeli papers, cit., b. 481).
Breve relazione sul movimento anarchico in Italia
La ripresa
La situazione del movimento anarchico in Italia, dopo i vent’anni e più di dominazione fascista e nonostante le evidenti difficoltà sorte particolarmente dopo la sistemazione al potere dei democristiani, è ancora discreta.
Durante più di vent’anni il movimento anarchico ha avuto in Italia un’esistenza estremamente difficile, e quel poco che si riusciva a fare era solamente nella più stretta clandestinità, con la polizia che tentava sempre di lavorare anche con la provocazione pur di riuscire a spezzare sul nascere ogni iniziativa tendente a rimettere in piedi, in qualche modo, il movimento nostro.
A migliaia i compagni nostri furono imprigionati, passati al famoso Tribunale speciale o inviati alle isole di confino, fra le più note quelle di Ponza, Ventotene, Tremiti, Ustica ecc.
È stato del resto in queste isole che il nostro movimento ha saputo conservare parte della sua struttura e mantenere quei legami indispensabili per non essere completamente travolto. E infatti era dalle carceri e dalle isole di confino, coi trasferimenti ordinati dalle autorità, coi nuovi arrivi d’arrestati e i rilasci, che si riusciva a stringere quei rapporti che permettevano di mantenere viva, sia pure molto flebilmente, la lotta e l’affermazione delle nostre idee.
Indubbiamente anche i compagni rifugiati all’estero, in tutti i paesi d’Europa e in quelli d’oltreoceano, ma particolarmente quelli che si trovavano in Francia, aiutavano a mantenere viva la fiamma della nostra idea e ad alimentare la lotta contro la dittatura. Basterebbe ricordare i nomi di Gino Lucetti, Angelo Sbardellotto, Michele Schirru, ecc. per avere un’idea di quanto si tentava fare per essere presenti nella lotta che ci era imposta, e imposta in forma violenta. Fu con la caduta del fascismo, il 25 luglio, ma particolarmente dopo gli avvenimenti dell’otto settembre 1943 che capovolsero la situazione italiana, che la lotta clandestina ebbe un impulso grandissimo. Benché braccati dalle autorità fasciste, ritornate al potere, e da quelle tedesche di occupazione, durante gli ultimi mesi del 1943 e tutto il 1944 in molti centri siamo riusciti – con gli scarsi mezzi a nostra disposizione e non aiutati dalle autorità militari alleate (come invece lo erano tutti gli altri movimenti e partiti) – a pubblicare giornali clandestini: a Milano, come la “Rivoluzione” nel dicembre 1944 e nel febbraio 1945, “Il Comunista Libertario” nel 1944 e ai primi del 1945, “L’Adunata dei Libertari” e “L’Azione Libertaria” nel 1944, oltre a numerosi manifestini redatti anche in tedesco e diretti e distribuiti fra le truppe tedesche di occupazione; a Torino il giornale “L’era Nuova” dal 1944; a Genova “L’Umanità Nova” nel 1945, ecc.; e nel sud, a Bari e a Napoli si riuscì a dare vita, anche contro gli ostacoli posti dalle autorità d’occupazione “alleate” ai nostri primi giornali, e a Firenze, dove, per avere pubblicato una edizione del giornale “Umanità Nova” senza autorizzazione, un compagno fu condannato a un anno di galera dagli stessi “alleati”.
All’inizio – dopo l’aprile del 1945 – la ripresa del nostro movimento assunse proporzioni veramente grandiose. In ogni centro, in ogni più piccolo paese sorgevano gruppi e federazioni che in un primo tempo si denominavano “comuniste libertarie”, ma per la verità, è necessario dichiararlo subito, fra i numerosissimi giovani che venivano a noi molti non avevano ancora ben chiaro quello che volevamo e come lo volevano. Per questo vi fu un periodo di una certa confusione che andò scomparendo solo dopo il congresso tenutosi a Carrara nel settembre del 1945 e dal quale uscì la costituzione della Fai (Federazione anarchica italiana).
Ora dopo gli anni di forse troppe facili entusiasmi, il lavoro propagandistico è andato sistemandosi, e seppur molte delle diverse pubblicazioni che vedevano la luce nelle varie province, davanti alle grandi difficoltà che gravano sul popolo italiano, sono andate scomparendo, come a Trieste il “Germinal”, ad Ancona “L’Agitazione”, a Forlì “L’Aurora”, a Carrara “Il 94”, a Torino “L’Era Nuova”, a Genova “L’Amico del Popolo”, a Firenze “Umanità Nova”, in Sicilia la rivista “Era Nuova” e a Napoli il giornale “Volontà”, escono ancora a Roma il settimanale “Umanità Nova”, a Milano il settimanale “Il Libertario”, a Torino il mensile “Seme Anarchico”, a Forlì “L’Antistato” e a “Napoli” la rivista “Volontà”, senza contare altre pubblicazioni di minore importanza e periodicità.
La diffusione delle nostre pubblicazioni è sempre modesta, ma costante. “Umanità Nova” stampa sulle quindicimila copie e “Il Libertario” attorno alle dodicimila, il “Seme Anarchico” di propaganda semplice ottomila copie e la rivista “Volontà” attorno alle duemila.
Organizzazione del movimento
La Fai si compone di almeno trecento gruppi sparsi in tutta Italia e riuniti in federazioni locali e federazioni regionali, delle quali le più importanti sono la Federazione toscana con sede a Livorno, quella romagnola con sede a Ravenna, la marchigiana con sede ad Ancona, la Federazione ligure a Genova, ecc. Ma vi sono poi altre numerosissime federazioni come la lombarda, la triveneta, la laziale, la pugliese, la campana, la calabrese, con approssimativi venti gruppi in Liguria e venti in Piemonte, cinquanta in Toscana, venti nel Lazio, quindici in Lombardia, quindici nel Veneto, otto nella Venezia Giulia, dodici nell’Emilia, trenta in Romagna, venticinque nelle Marche, dieci in Abruzzo, quindici in Campania, venti nelle Puglie, quindici in Calabria, quindici in Sicilia e dieci in Sardegna.
In linea generale ogni anno la Fai riunisce a congresso i delegati dei gruppi e delle federazioni, ma anche compagni isolati possono intervenire e prendere parte attiva ai lavori e alle decisioni, per che accettino i principi informativi della organizzazione.
Fra i compiti del congresso vi è quello di nominare una commissione di corrispondenza che deve sbrigare il lavoro di collegamento fra i vari gruppi e di mantenere le relazioni coi compagni e le organizzazioni in campo internazionale, di pubblicare mensilmente il bollettino interno e di organizzare, nel limite delle possibilità finanziarie, giri di propaganda anche nei luoghi più remoti.
Il congresso nomina anche un comitato speciale addetto alle vittime politiche.
La commissione di corrispondenza è composta di cinque membri, uno dei quali ha l’incarico di mantenere le relazioni con l’estero. Se possibile tutti i cinque membri della Cdc devono risedere nella medesima città ma non poche volte è risultato che il compagno incaricato delle relazioni internazionali risedesse in altra città.
Altro compito del congresso è quello di stabilire la linea di condotta di fronte ai vari problemi e di chiarire i punti controversi sia a proposito dei modi di svolgere il lavoro, sia anche sui problemi interni.
L’influenza degli anarchici nel movimento sindacale non è rilevante, perché l’organizzazione massima, la Cgl è nelle mani dei comunisti, benché l’opera dei compagni nostri che lottano in questo organismo sia coordinata da un Comitato di difesa sindacale, e sia anche perché la nascente Unione sindacale italiana non ha ancora preso un impulso adeguato.
Nonostante le evidenti difficoltà del momento, l’attività e l’influenza del movimento anarchico tende sempre più ad accrescere, oltre che nel campo operaio, in diversi organismi e personalità tanto del campo culturale che in quello giornalistico, ma non abbiamo illusioni, sappiamo che essa potrà estendersi ancor più solo in misure delle nostre capacità e possibilità che cerchiamo di svolgere al massimo
Commissione di corrispondenza della Fai. Relazioni internazionali – Ugo Fedeli
Documento 8
Una lettera a Ildefonso González Gil, militante spagnolo e anima della Commissione anarchica di relazioni internazionali. Emigrato in Argentina nel 1912, è attivo nella locale Federación obrera regional anarquista (Fora), la principale organizzazione anarcosindacalista del paese, e poi, dopo il golpe di José Uribiru nel 1930, a Montevideo, da dove è deportato in Spagna nel 1933. Partecipa con ruoli di responsabilità alla guerra civile spagnola e con l’avvento del franchismo ripara in Francia, dove si unisce alla resistenza antinazista. Nel secondo dopoguerra si dedica a molteplici attività, editoriali e non, ed è un punto di riferimento per il movimento internazionale. Nel luglio 1964 scrive El hombre y su obra. La pasión de Ugo Fedeli, manoscritto conservato presso l’Istituto di storia sociale di Amsterdam. Muore nel 1989 a Parigi. La sua ricca documentazione archivistica e bibliografica è conservata presso la biblioteca pubblica Arús di Barcellona. Il libro a cui Fedeli fa riferimento nella prima parte della lettera è Federazione anarchica italiana. Congressi e convegni (1944-1962), edizioni Libreria della Fai, Genova, 1963 (Ugo Fedeli papers, cit., b. 109).
San Giorgio Canavese
17 dicembre 1962
Carissimo Ildefonso
sono nelle tue stesse condizioni e come te colpevole del ritardo nello scriverti. Da lunghe settimane mi ero proposto di farlo e come te ho rimandato di volta in volta sino a oggi che ho ricevuto la tua interessante lettera.
Ero preoccupato perché avanti tutto volli mettere la parola fine alla raccolta delle risoluzioni dei congressi anarchici italiani. Proprio avanti ieri ho finito e e il manoscritto è pronto.
È venuto fuori un grosso lavoro che se non mi ha impegnato enormemente da un punto di vista intellettuale, ma ha procurato moltissimo lavoro di ricerca e soprattutto di ricopiatura. Ho raccolto tutte le deliberazioni dei congressi a carattere nazionale non solamente della Fai, ma anche quelli dei Comitati di difesa sindacale, almeno sino a che questi organismi erano espressione diretta del movimento, ho raccolto le deliberazioni dei congressi, a livello nazionale, del movimento di Masini, i Gaap, e quelli anche di alcuni gruppi di Milano e de “Il Libertario”. Ho cercato di riunire il materiale necessario perché ognuno possa farsi un’idea ben precisa di quella che è stata la costante preoccupazione degli anarchici, anche se da molte riunioni non è uscito nulla di veramente interessante in quanto riguardavano solo problemi di carattere interno. In altri congressi non c’è stato molto d’interessante, ma questo non è colpa mia, ma colpa del movimento e degli uomini che animano tale movimento.
Ho voluto dare uno specchio della nostra attività, e credo ci sia riuscito.
Di ogni congresso, ti dicevo, ho riunito solo le deliberazioni, l’ordine del giorno, e il nome dei presenti, gruppi e personalità. Se mi fossi soffermato a parlare o a rilevare i dibattiti sarebbero occorsi almeno tre o quattro volumi, invece uscirà un buon volume di duecentocinquanta pagine.
Sarà un lavoro al quale si dovrà fare sempre riferimento e interesserà oggi ma anche domani. L’ho corredato da numerose note su uomini (solamente i morti) e le cose che dubitavo ognuno avesse scordato. Il tutto è legato da un leggero filo. Ogni congresso l’ho fatto precedere da una paginetta che cercava di situarlo nel tempo e nelle preoccupazioni degli anarchici […].
La mia salute in inverno è sempre cattiva e sono costretto a fare pochissimo, ma devo tenere il lavoro d’ufficio che anche se non è massacrante mi prende molte ore al giorno, anche per i quaranta chilometri che devo fare per recarmi e ritornare dall’ufficio. Però penso – nonostante qui mi si dica di continuare a lavorare – che dopo il mese di maggio, quando cioè avrò compiuto i 65 anni, avrò in pensione, e allora avrò un po’ più di tempo per dedicarmi alle nostre cose.
E sì, con la Clelia siamo sempre in lotta per la “conquista dello spazio vitale”. Ho invaso quasi dappertutto, lentamente ma inesorabilmente vado avanti e non vi è più sedia, tavolo e anche solo angolo della casa che non sia invaso dalle mie cartacce.
Per il resto, discretamente.
Ti prego di salutare molto caramente la buona Araceli, Polen quando viene a casa, a te un abbraccio fraterno da parte della Clelia e mio
P.S. In questi giorni cercherò di mandarti il famoso calendario Olivetti. Da parte tua mandami, in una busta, il microfilm.
Auguri per il nuovo anno, baci
Ugo
Note
1 L’immagine di apertura di questa breve antologia è una foto di Ettore Aguggini (Archivio storico della Federazione anarchica italiana-Fai di Imola).
2 Per un approfondimento della sua vicenda biografica, Antonio Senta, Torquato Gobbi, un anarchico problematico, in “Clio”, 2008, n. 3 pp. 345-368.