1. Premessa
Tra dicembre 2020 e marzo 2021 la visione del documentario Mosche bianche è divenuto il punto di partenza di una serie di incontri con i ragazzi delle scuole medie inferiori, portati a riflettere su temi di grande rilevanza nell’ambito della storia del lavoro, dell’educazione di genere e dell’orientamento scolastico.
La proiezione è stata accompagnata e seguita da incontri di tipo teatrale, condotti da chi scrive con il fondamentale supporto di Francesca Cozza, che ha curato le relazioni con gli istituti scolastici e le/i docenti. Ogni incontro contaminava i linguaggi della storia, del cinema e del teatro, di fatto sostituendo, nella maggior parte dei casi, il classico dibattito in aula. Su sollecitazione di Eloisa Betti, abbiamo chiamato questa pratica “intermediazione teatrale”: un termine sperimentale per una pratica sperimentale, giacché per tutti coloro che hanno partecipato al percorso si è trattato di un’esperienza totalmente nuova – sebbene, come vedremo più avanti, non lontana dalle pratiche diffuse e consolidate di teatro sociale, educativo e di comunità.
Non è superfluo ricordare che lo strumento dell’intermediazione teatrale abbinato alla visione del documentario Mosche bianche è solo uno degli strumenti didattico-divulgativi messi a punto all’interno del progetto “Genere, lavoro e cultura tecnica tra passato e futuro”: un articolato piano di studio e di lavoro, ancora in corso di applicazione e aggiornamento, che intreccia public history, didattica della storia e attività a carattere esperienziale, con una particolare attenzione alla storia delle donne1. Ed è proprio in questo solco di didattica esperienziale che si innestano gli incontri di intermediazione teatrale, concepiti – nello stesso spirito ibrido e sperimentale del percorso in cui si inseriscono – come intreccio di tecniche teatrali classiche applicate all’educazione di genere e all’orientamento scolastico nel contesto educativo delle scuole secondarie, principalmente di primo grado.
2. Video e teatro alla prova della storia
Va innanzitutto precisato che, in questa prima edizione del progetto, le/i docenti sono state/i lasciate/i libere/i di inserire l’incontro di intermediazione teatrale in un percorso personalizzato, all’interno del quale poteva collocarsi come tappa conclusiva oppure unica. La visione collettiva del film come punto di partenza di ogni incontro (uno per classe) si è rivelata fondamentale, non solo per il successo pressoché unanime che il documentario ha ottenuto presso gli studenti e per le basi storico-tematiche che il film ha offerto loro, ma anche per lo speciale clima che questa prima parte di lezione ha permesso ogni volta di stabilire nel contesto di una tradizionale lezione scolastica. Questa affermazione è così vera che nei pochissimi casi in cui le/i docenti hanno ritenuto non necessaria la visione integrale il percorso si è rivelato innegabilmente più difficile, per non dire di scarso successo. È il caso di dire che senza testimonianze reali, senza immagini, senza scintille personali accese da un confronto, da un ricordo, da una curiosità, ogni riflessione su pregiudizi e condizionamenti legati al genere rischiava di suonare stereotipata, tratta da qualche discorso mainstream, oppure modellata per accontentare gli adulti in ascolto. Il film, invece, imponeva immediatamente le regole del gioco: mettersi all’altezza delle testimoni, interrogandosi e svelandosi schiettamente a partire da un dato esperienziale.
Il documentario, infatti, “nasconde” la sua solida base documentale con un approccio narrativo a tutti comprensibile: quello della scelta e dell’attraversamento della scuola superiore come tappa di un romanzo di formazione personale e insieme collettivo in cui ciascuno spettatore si può facilmente riconoscere, immedesimare e – nel caso dei nostri giovani spettatori – proiettare. Il più delle volte, i ragazzi che vedevano Mosche bianche facevano seguire ai titoli di coda sentiti applausi; altre volte, invece, un silenzio composto esplodeva, poco dopo, in una raffica di domande. Il canale della comunicazione era così aperto, e poteva iniziare la seconda parte dell’incontro: quella in cui gli studenti erano chiamati a interagire, tra loro e con chi conduceva l’incontro.
Prima di immergersi nella pratica più propriamente teatrale, ognuno è stato invitato a riferire una frase, un episodio o un quesito che si era appuntato durante la visione del film, fase che ha sempre richiesto molto del tempo a disposizione ma è stata utile per poi decidere su quali esercizi orientarsi e, soprattutto, per cogliere i temi che più avevano colpito l’immaginario dei ragazzi. Non parliamo solo di grandi temi, evidentemente, ma anche di aneddotica scolastica, che però molto rivela dei rapporti tra le pioniere della tecnica e il mondo circostante. Tra le frasi citate testualmente dai ragazzi, spiccano “per le donne è sempre una battaglia”, seguita da “mentre ci può essere un limite fisico, non ci sono limiti mentali”. Un racconto che ha dato luogo a numerosi commenti e interrogativi è quello dell’imbarazzo dei docenti maschi verso le alunne; così come molto colpiva il rigore sull’abbigliamento preteso dalla preside – aneddoto che apriva ogni volta il tema del giudizio costante sull’aspetto fisico femminile. In molti – ragazze e ragazzi – hanno citato con sgomento l’episodio del suicidio di una compagna di classe, raccontato dalle testimoni intervistate.
3. La pratica teatrale
Uno dei temi centrali degli incontri è stato il rapporto con il mondo del lavoro – immaginato, vissuto di riflesso dai genitori o attraverso paure e aspettative – applicato anche alla scelta del proprio percorso scolastico (orientamento). È importante segnalare che, sebbene il progetto ponga un forte accento sull’educazione tecnica e i suoi sbocchi, in particolare come possibilità poco pensata e poco praticata dalle giovani donne, si è fatto ogni sforzo possibile per evitare di proporre una “scelta giusta”, e tantomeno una visione puramente strumentale dello studio. Una preoccupazione non banale, che ci porta a separare nettamente questa esperienza dal cosiddetto teatro d’impresa, una formula di grande successo negli ambienti di lavoro in cui però il “teatro come mezzo” è sempre al limite dell’utilitarismo, del rafforzamento dei ruoli consolidati più che della loro messa in discussione2. Se volessimo inserire questa esperienza in un contesto formativo definito, potremmo piuttosto collocarla a cavallo tra il teatro-scuola e il teatro sociale ed educativo3, le cui caratteristiche sono state ben descritte da Alessandro Pontremoli:
Il teatro educativo e sociale non ha infatti come obiettivo primario il prodotto, cioè la costruzione di uno spettacolo teatrale dalle caratteristiche estetizzanti, come invece accade nel circuito produttivo consueto; non rinuncia tuttavia a coniugare la propria istanza etica con la creazione di una forma necessitante, indispensabile per la comunicazione di un’esperienza vissuta come emotivamente coinvolgente e proposta come ampiamente condivisibile4.
Ricordiamo, infatti, che gli incontri non miravano alla creazione di un prodotto spettacolare, essendo peraltro concepiti come singole “incursioni” in un percorso più ampio, di cui quello teatrale era solo uno dei passaggi. Il fatto, poi, che gli incontri di intermediazione fossero singoli, di breve durata e di argomento definito, non significa che del teatro non si sia cercato di trasmettere e rispettare almeno in parte le tecniche. Per fare alcuni esempi, ai ragazzi veniva chiesto di strutturare le improvvisazioni secondo un canovaccio, di organizzare movimento e parola a favore del pubblico, di parlare in modo più possibile articolato e chiaro e di tentare di rispettare altre regole di recitazione e/o di prossemica: tutti sforzi di chiarezza, di controllo e di selezione che potenziano l’efficacia comunicativa, attivano la consapevolezza del proprio corpo nello spazio, spingono a un’assunzione di responsabilità verso gli interlocutori. Del resto, le due componenti alla base delle nostre improvvisazioni, vale a dire il gioco («in quanto matrice originaria del teatro»)5 e della narrazione («anch’essa ancestrale modalità drammatica»)6, sono già in sé tecniche teatrali, ampiamente praticate sia nel teatro professionale che in quello di natura sociale.
Difficile elencare in questa sede tutti gli esercizi che si sono tentati nell’intermediazione teatrale, perché, a parte alcune costanti, ogni incontro è stato un unicum: l’insegnante di teatro, così come un allenatore, sa che dal paniere degli esercizi dovrà tentare di estrarre quelli più adatti non solo ai ragazzi che ha davanti, ma anche al clima che si crea in quella particolare sessione di lavoro, e che nel proporre un secondo livello è bene raccogliere ciò che è emerso nel primo, e così via. Non c’è metodo, del resto, che regga alla prova dei fatti se applicato in modo meccanico.
Riassumendo al massimo, si può dire che al dibattito classico (“parliamo del film”) si è voluta sostituire una serie di improvvisazioni teatrali, a partire dal loro nucleo minimo (improvvisazione di una parola o di un gioco di parole) fino alla creazione di scene con due, tre, quattro attori. A partire dalle riflessioni emerse dai ragazzi, si selezionavano in modo abbastanza spontaneo alcuni tra i temi chiave: aspirazioni professionali e di studio, rapporto con il mestiere dei genitori o di alcuni modelli di riferimento, aspettative delle famiglie, fino ad arrivare agli stereotipi di genere – non sempre già percepiti, è bene specificarlo, da tutti i partecipanti. La messinscena, invece, poteva variare nel tempo e nello spazio, anche allontanandosi molto dall’epoca e dall’ambientazione del documentario. Così come ambiente e tempo, anche la scelta dei personaggi passava da un massimo di realismo (me, oggi) a un massimo di astrazione (un supereroe che racconta la sua vita lavorativa e domestica).
Un esercizio banale come quello di abbinare il proprio nome di battesimo a un qualsiasi mestiere che iniziasse con la stessa lettera ha rivelato in molti casi il livello di coscienza o padronanza del linguaggio inclusivo che faticosamente si va ora affermando; così come improvvisare piccole scene familiari in cui si discute con un genitore del proprio futuro poteva rivelare non tanto le aspirazioni reali del singolo ragazzo (talvolta, giustamente, in vena di scherzare) ma certamente del suo rapporto con i modelli circostanti. Infine, laddove è stato possibile, si è arrivati a lavorare a coppie sul tema delle paure. Tra queste, alcune ricorrenti sono state: paura di non realizzare le proprie aspirazioni, paura di parlare in pubblico, paura di deludere gli altri, paura di non essere all’altezza dei compiti da eseguire.
Ci si potrebbe domandare cosa c’entri “la paura” con gli argomenti trattati nel film. Il passaggio si è imposto da solo, man mano che si dimostrava che i condizionamenti (di genere, in questo caso) che i ragazzi percepiscono in modo più pressante raramente sono frutto di divieti espliciti: molto più spesso si tratta di tacite indicazioni, di strade obbligate, di scelte che accontenteranno le famiglie e la comunità di riferimento; oppure sono “le strade del lavoro sicuro”, che poi sicuro non è mai. Non va nascosto, infine, il turbine emotivo in cui ci si trova nei momenti di passaggio: non a caso, come già detto, il racconto contenuto nel film della compagna che si toglie la vita proprio a scuola rimane impresso in tutte le ragazze/tutti i ragazzi.
4. Il teatro sfida la dad (e la dad sfida il teatro)
Tutti gli incontri sono stati realizzati a distanza, nella quasi totalità dei casi con le classi in presenza collegate dall’aula scolastica. In due casi, che tratteremo a parte, tutti gli studenti erano in collegamento da casa. Fin dall’inizio ci si è scontrati con un dato ineliminabile: la didattica a distanza rende bidimensionale una relazione di gruppo che, di norma, in teatro si sviluppa in maniera radicalmente diversa. Il “cerchio”, quella particolare disposizione spaziale che rende tutti uguali, tutti visibili, che dà confidenza perché evoca il gioco e insieme invita alla performance (arriva per tutti il momento di trovarsi al centro), non era in nessun modo praticabile. Passare immediatamente a una modalità di rapporto frontale – propria della dimensione teatrale più avanzata, e cioè del palcoscenico – è insieme un pericoloso salto avanti, che rischia di eliminare in partenza i più timidi, e contemporaneamente un passo indietro, perché può essere letto come un ritorno alla lezione in cattedra.
Lo stare a scuola di fronte alla cattedra ripropone quell’atteggiamento di dipendenza che noi ritroviamo pari pari nell’ambito del teatro […]. Insegnante e regista presentano singolari punti di contatto che tendono a neutralizzare i processi di comunicazione orizzontale, le ricerche, le invenzioni di gruppo, le composizioni collettive7.
Sorprendentemente i ragazzi, allenati da molti mesi di didattica a distanza, si sono rivelati più pronti di qualsiasi adulto a questo doppio salto: una capacità che si può spiegare almeno in parte con la dimestichezza che queste generazioni hanno con lo strumento del video; a cui si aggiunge lo stimolo dato dall’avere appena assistito a un documentario la cui solida struttura si stempera in un fluido continuum narrativo, con il risultato finale di mescolare con disinvoltura aneddoti, ricordi, considerazioni retrospettive e opinioni di carattere generale.
Da un punto di vista squisitamente pratico, agli studenti si è chiesto di disporsi in una sorta di palcoscenico a due fronti: ponendosi di profilo rispetto alla webcam, gli studenti-attori recitavano live per i compagni in classe e in video per chi assisteva o guidava in remoto. In alcuni casi, altri compagni presenti in classe hanno contribuito a organizzare la scena, disponendo elementi di scenografia e oggetti, mimando il ciak o chiamando l’azione – segno che il confine tra teatro e cinema, a un certo punto, era irrimediabilmente sfumato.
È interessante rilevare che gli studenti che si collegavano da casa, in quantità variabile, a seconda dei gruppi-classe, riuscivano a partecipare in modo attivo e creativo alla lezione, in alcuni casi lavorando a coppie tramite chat private, in altri esercitandosi sulla scrittura a servizio dei compagni che avrebbero letto, in altri ancora improvvisando da soli. Senza addentrarsi in valutazioni complessive sull’efficacia o sull’opportunità della dad, credo sia innegabile che anche un mezzo così “antiteatrale” possa rivelare, alla prova dei fatti, inattese potenzialità inclusive.
Si è già detto che la quasi totalità degli incontri ha coinvolto classi seconde e terze delle scuole medie inferiori. Vanno però citate due interessanti eccezioni – sperimentazioni nella sperimentazione – che hanno interessato rispettivamente una classe delle scuole superiori (la classe III VB dell’Istituto Rosa Luxembourg di Bologna) e una classe di adulti, il corso B1 del CPIA.
Nel primo caso l’intera classe era collegato da casa. Agli studenti sono state proposte improvvisazioni meno dinamiche, meno “teatralizzate” ma più lunghe e strutturate; in particolare, la richiesta era di lavorare sul personaggio di un “lavoratore contemporaneo”, che poteva essere una propria proiezione del futuro o un modello adulto di loro conoscenza, intervistato da un compagno sulla propria quotidianità e attività. In questa modalità i ragazzi erano invitati a recitare come se fossero davanti a una webcam, cosa che in effetti accadeva, senza simulare un contesto teatrale di cui nulla restava.
Il risultato è stato divertente e interessante. Per fare due esempi diversi e contrapposti, uno studente ha impersonato se stesso adulto, impegnato come giornalista sportivo, mentre una ragazza ha parodizzato una moderna influencer di Instagram. A proposito di abbattimento degli stereotipi, è parsa particolarmente interessante l’improvvisazione di una studentessa che si raccontava nel futuro come viaggiatrice e giornalista; a proposito di lavori nuovi e insoliti, un giovane afrodiscendente ha improvvisato in modo ironico ed efficace sul suo futuro di rapper professionista, peraltro esprimendo (o auspicando?) un’inedita apertura da parte un mondo così tradizionalmente maschile (“oggi rappano tutti: le donne, gli anziani, tutti possono farlo”).
Più complesso il percorso con gli allievi adulti del CPIA, che per la ancora scarsa competenza linguistica non hanno potuto apprezzare appieno il contenuto del documentario, ma che tuttavia, grazie anche alla disponibilità della docente Carla Marulo, hanno lavorato sulle proprie esperienze lavorative, andando anche a toccare i temi della discriminazione. Si è trattata di un’esperienza solo parzialmente riuscita ma particolarmente interessante, che ci proponiamo di approfondire in una seconda edizione del progetto.
5. Stereotipi di genere, stereotipi di classe
Il documentario Mosche bianche mette in campo in modo esplicito il problema degli stereotipi di genere nel mondo dello studio e del lavoro, una dimensione che i ragazzi capiscono immediatamente; tuttavia, invitati a mettere in relazione queste affermazioni con il loro presente, solo in pochi sono parsi sufficientemente coscienti o disinvolti da riportare parallelismi, esempi, argomentazioni, e anche tra coloro che più facilmente si avventuravano c’è molto “sentito dire” e poca esperienza personale.
Anzi, in alcuni casi i ragazzi erano pronti a sostenere “che tutti/tutte possono fare tutto”, salvo poi trovarsi a riproporre o a riferire casi di pregiudizi, prese in giro o vere e proprie discriminazioni quando si è proposto loro di riprodurre dei dialoghi ambientanti in un ambito per loro molto presente e concreto: quello dello sport, in cui si giocano ruoli, giudizi, rivalità. Non sono rare le ragazze che faticano a difendere la loro scelta di giocare a calcio, né i ragazzi che si sentono “strani” perché amano la danza. Di lì a capire che certe difficoltà non riguardano i singoli ma taciti condizionamenti diffusi, il passo è breve, ma va quasi sempre stimolato.
Un altro condizionamento emerso con grande evidenza a ogni incontro è stato quello degli “stereotipi di classe”. Stando a quanto emerso dalle scene recitate dai ragazzi, ma anche da brevi scambi, è ancora molto forte l’idea – evidentemente “respirata” nell’ambito familiare o scolastico – che chi ha un buon rendimento scolastico e/o proviene da famiglie con una media o alta condizione professionale debba necessariamente proseguire gli studi in un liceo, mentre chi ha un rendimento più altalenante, e/o una famiglia con difficoltà economiche di qualsiasi natura debba indirizzarsi verso un istituto tecnico o professionale, a prescindere dagli interessi dello studente stesso e dalla conoscenza di ciò che effettivamente si studierà nella scuola superiore. Molti ragazzi delle medie inferiori, del resto, sembrano sapere ben poco di come funzionano i percorsi che potrebbero seguire un domani: resta giusto lo spartiacque del latino percepito come una prova “per pochi”, tendenzialmente selettivo e utile solo a distinguere chi è più o meno abile nello studio.
Questa doppia discriminazione, di genere e di classe (che poi è quella storica e fondamentale), è dunque ancora viva, sebbene non sempre coscientemente percepita. Una percezione che sta a noi far crescere, tracciando dei buoni sentieri in cui “seminare” le informazioni: è infatti innegabile che gli studenti che avevano già affrontato – con UDI o con l’insegnante della materia – temi come il voto alle donne o le discriminazioni sul lavoro erano più preparati e pronti a collocare la loro esperienza in una dimensione storica.
Il confronto con le donne del passato come portatrici del cambiamento resta infatti fondamentale per il riconoscimento e per la proiezione di sé in un futuro: ecco perché le pioniere di Mosche bianche possono diventare un esempio; giacché, come l’intera storia di UDI dimostra, tracciare una genealogia femminile di quotidiana lotta e indicarla alle più giovani (ma anche ai loro compagni maschi) è importante almeno quanto ricostruirne e continuarne la storia.
Note
1 Per una panoramica sul progetto, cfr. Eloisa Betti, Francesca Cozza, Rossella Roncati, Genere, lavoro e cultura tecnica tra passato e futuro, «Didattica della storia», vol. 2, n. 1S, 2020, pp. 428-443 e il sito internet: https://generelavoroculturatecnica.it/. Nell’immagine di apertura, Laura Santoli, una delle prime diplomate come perito industriale a Bologna, in un’immagine tratta dall’articolo Le mosche bianche della tecnica, in “Noi Donne”, 8 gennaio 1966.
2 «La peculiarità del teatro d’impresa è di poter creare un livello di coinvolgimento che superi la sfera cognitiva e attivi anche il piano emotivo dei partecipanti. Le tecniche di formazione degli attori applicate ai dipendenti aziendali consentono di rimediare ad una cattiva comunicazione o comprensione dell’individuo e di apprendere l’arte del “comando”, si tratta di un tentativo di soluzione dei problemi relazionali interni all’impresa, alternativo all’analisi transazionale». Maria Buccolo, Il teatro d’impresa: un nuovo metodo di formazione per gli adulti, in Eda e pari opportunità per tutti, «Lifelong, Lifewide Learning (LLL)», n. 10, vol. 4, 2008, p. 3.
3 Sulle diverse declinazioni ed esperienze di teatro sociale e di teatro come mezzo, cfr. Oliviero Ponte di Pino, Teatro della persona, teatri delle persone. Una riflessione sul teatro sociale e di comunità, in «Ateatro», 139/7, del 28/2/2012, http://www.ateatro.it/webzine/2012/02/28/teatro-della-persona-teatri-delle-persone/.
4 Alessandro Pontremoli, Teorie e tecniche del teatro educativo e sociale, Torino, UTET, 2012, p. 33.
5 Ivi, pp. 60-64.
6 Ibid.
7 Sono parole di Sisto Dalla Palma, citate in Pontremoli, Teoria e tecniche del teatro educativo e sociale, cit., p. 35.