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1. Fine delle lezioni?
I sostenitori della didattica esperienziale, «attiva e cooperativa» sempre e comunque, oggi assai in voga dalle parti del ministero (che siano consapevoli o meno del loro ruolo di “facilitatori” dei progetti di smantellamento della scuola), partono da un assunto senz’altro vero nella sua estrema genericità: si impara solo attraverso l’esperienza, gli apprendimenti realizzati attraverso l’esperienza sono i più duraturi. Ora, dov’è l’equivoco? Innanzitutto sta nella genericità accattivante della definizione: tutto è esperienza; e ci sono esperienze positive, sì, ma anche esperienze negative e controproducenti. Gli ideologi dell’esperienza hanno le ‘competenze’ psicologiche per saper distinguere davvero le une dalle altre? Poi, nonostante l’ampiezza della definizione, sta nell’escludere rigorosamente dal novero delle esperienze solo la lezione, ridotta rapidamente all’insensata definizione di «frontale». Il corollario paradossale del giusto e ovvio assioma dell’apprendimento dall’esperienza infatti è il ben noto attacco a una presunta «lezione frontale» priva di interazioni, di cui si presume l’unidirezionalità e il mancato coinvolgimento degli studenti, come se l’insegnante, anziché trasformare ad ogni lezione la classe in una «comunità ermeneutica»1 fosse un conferenziere che parla senza entrare in relazione con chi ha di fronte, senza interloquire, senza un continuo scambio di idee e di parole, nel lavoro sulle conoscenze, con i propri studenti. È chiaro che questa visione caricaturale dell’insegnamento e di una scuola che non esiste è uno straw man argument che deve servire a qualche scopo. Più avanti tenteremo di formulare un’ipotesi su quale possa essere tale scopo.
Fa il doppio con l’attacco a un’inesistente lezione unidirezionale quello alla «trasmissione di conoscenze». È assai di moda oggi, tanto da non dover passare minimamente per la riflessione, il pensiero e il confronto della realtà, una versione estremizzata, deformata e strumentalizzata dell’attivismo pedagogico di Dewey, con la denuncia della presunta inefficacia dell’insegnamento fondato sulle spiegazioni degli insegnanti e sulla condivisione delle conoscenze.
2. «La scuola che vogliamo» di Anp, Gramsci e Il maestro di Vigevano
A titolo esemplificativo, riportiamo quello che si legge nel recente documento di Anp (Associazione dirigenti pubblici e alte professionalità [sic] della scuola, già «Associazione nazionale presidi»), intitolato in modo piuttosto perentorio «La scuola che vogliamo»2:
Il curricolo, così come tradizionalmente è conosciuto, è costituito da una successione di unità didattiche o di segmenti lineari (che corrispondono in gran parte all’indice del libro di testo) che favoriscono l’idea dell’insegnamento come trasmissione descrittiva e di tipo statico e oggettivo. Da questa impostazione, tuttora predominante nel nostro sistema scolastico, possiamo attenderci solo il perseguimento di obiettivi di conoscenza.
In realtà tutto il lungo e farraginoso documento di Anp, che non possiamo qui analizzare minutamente, sembra avere al centro proprio il tentativo di spezzare il legame tra scuola e conoscenza, a favore dell’ambiguo concetto di «competenza». Solo per darne un’altra esemplificazione, leggiamo questo passo:
Abbiamo anche imparato a valutare impegno, creatività, capacità di soluzione di problemi, prontezza di intervento, curiosità e solidarietà, competenze molto più «ricche» delle conoscenze rilevate tante volte in tante prove di verifica in classe: si è così delineata una strada nuova, ancora in parte da esplorare, ma che ci potrà permettere di definire meglio percorsi personalizzati e motivanti fondati sulla responsabilità e sull’autovalutazione.
A parte il fatto che, sottratta agli insegnanti la possibilità di valutare, in nome dell’«autovalutazione», sarà impossibile capire se le conoscenze si acquisiscono o no, ciò che qui viene messo in discussione è proprio il valore delle conoscenze. L’evocazione dei «percorsi personalizzati» serve a dire, come si evince anche dal resto del documento, che la scuola non dovrà più aprire, attraverso lo studio delle discipline, orizzonti culturali e conoscitivi nuovi e imprevedibili per tutti, in un vero universalismo democratico, ma dovrà lasciare gli studenti lì dove sono, magari in costosissimi e redditizi «ambienti di apprendimento innovativi» della «scuola 4.0», con una rapida verniciatura di «competenze» necessaria a farne al massimo degli esecutori, non istruiti ma addestrati. La stessa idea di interdisciplinarità serve qui a promuovere il tentativo di mettere da parte le discipline, cioè quei sistemi di organizzazione del sapere che, con i loro fondamenti epistemologici, permettono un’acquisizione graduale e ordinata delle conoscenze, molto importante per le persone in crescita.
E ancora:
Il salto di qualità che la scuola italiana deve fare è quello di accompagnare gli studenti oltre le conoscenze, per sviluppare abilità, fino all’acquisizione delle competenze che il sistema indica come obiettivi prioritari nei profili educativi di fine percorso. Una scuola quindi più orientata al fare, ad approcci innovativi di apprendimento/insegnamento, alla pratica laboratoriale come valore in sé e non solo come possibilità di mettere in pratica ciò che si è imparato3.
Ecco, questo è un punto fondamentale. Proprio l’idea del primato dell’«esperienza» sulla «lezione» fa saltare il prezioso circolo virtuoso teoria-pratica che ha sempre caratterizzato il progresso della conoscenza.
D’altra parte, del carattere conformista e superficiale di alcune critiche all’insegnamento tradizionale, basate su formule astratte in nome di una innovazione che scambia mezzi e fini, abbiamo una corrosiva e precoce denuncia nell’opera di un grande scrittore quasi dimenticato come Lucio Mastronardi:
Le lezioni le tiene una professoressa di pedagogia. «Cari maestri, mettetevi in mente che il fanciullo non è un vaso da riempire» esordì la professoressa. «Ma un vaso da vuotare!», sghignazzò Nanini […] La professoressa si irritò: «Ma un focolare da accendere», disse […]. «Si ricordi che sta parlando con una funzionaria del gruppo A» […]. «Una lezione sul ferro per la quarta elementare […]. Come farebbe lei a spiegare il ferro?», domandò a una maestrina. «Guarderei quello che dice il sussidiario», rispose la maestrina. «Ah!», urlò quella con una faccia disgustata, «il libresco! Ancora il libresco! Per fare una lezione sul ferro cominceremo a portare la scolaresca a casa di un minatore!». «Impossibile», urlò Nanini, «a Vigevano non ci sono i minatori!». La professoressa dopo un momento di smarrimento si riprese: «Quando andate a fare le gite scolastiche, scegliete un luogo dove ci siano minatori».
Ma già Gramsci, nei Quaderni dal carcere, denunciava la matrice classista della riduzione del sapere alla sola dimensione pratico-professionale; una riduzione che, ovviamente, valeva (e vale) per le sole classi subalterne:
Nella scuola attuale, per la crisi profonda della tradizione culturale e della concezione della vita e dell’uomo, si verifica un processo di progressiva degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata. L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi. […] Il moltiplicarsi di tipi di scuola professionale tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in queste differenze, tende a suscitare stratificazioni interne, ecco che fa nascere l’impressione di una sua tendenza democratica. […] Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni cittadino può diventare governante e che la società lo pone, sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare» (Antonio Gramsci, Anche lo studio è un mestiere4.
Infine, ancora il documento Anp:
Una definizione del concetto di competenza è purtroppo assai difficile da stabilire, in quanto presenta molte sfaccettature ed il termine racchiude diversi significati, secondo il contesto e la cultura in cui viene utilizzato. Presupposto della valutazione per competenze è una progettazione che comporta una revisione completa delle modalità di costruzione dei percorsi didattici e dell’intero impianto del fare scuola5.
In pratica, non si sa bene cosa sia la «competenza», che dovrebbe scalzare la centralità della conoscenza, ma si dà per scontato che sia un concetto didatticamente pedagogicamente valido.
3. Conoscenze e competenze
In realtà non può esistere competenza senza conoscenza; tanto meno possono esistere le cosiddette «competenze non cognitive»: si può divenire competenti solo accedendo alla conoscenza e ai processi di pensiero; circolarmente, si diviene «competenti» alla conoscenza, cioè ad accrescere una disposizione ad apprendere per accogliere nuove conoscenze6. Va inoltre ricordato che non può esistere alcuna competenza senza un passaggio di informazioni che avviene sempre tramite relazione, nelle sue componenti verbali e non verbali: ne facciamo esperienza fin da piccolissimi, quando per acquisire una competenza del mondo, abbiamo bisogno di relazionarci alle figure primarie (genitori, o chi si prende cura).
Ricordiamo inoltre che la mente non è un contenitore ove inserire alla rinfusa un «modo di essere» o un insieme di dati che poi verranno utilizzati all’avvio di uno «start», ma è un sistema relazionale. La mente è relazionale poiché si modifica in modo plastico7 sulla base del rapporto che viene vissuto in modo reciproco tra esseri umani e l’esperienza che viene a generarsi in seno a quest’incontro. Questa plasticità della mente che Edelman8 concepiva come un insieme di mappe neurali che non sono fisse, rigide ma dinamicamente sempre modificabili, riplasmabili, riconfigurabili, continuamente in operatività per definire, categorizzare e ricategorizzare il mondo, è stata una scoperta di enorme importanza, poiché riconosce alla mente, e al sistema nervoso centrale, la capacità di modellarsi e modificarsi sulla base dell’esperienza relazionale. Questo vale sia per la cura del disagio mentale, sia per l’educazione, per la formazione, per l’insegnamento e la crescita sufficientemente sana dell’individuo.
Il concetto di «competenza», insomma, così come viene utilizzato nei discorsi sulla scuola, è di suo ambiguo, poco fondato dal punto di vista psicologico e si presta a facili strumentalizzazioni. Come scrive lo storico Mauro Boarelli:
Questa visione dell’educazione attiva è in profondo contrasto con quella praticata attraverso le competenze. L’educazione attiva, per essere veramente tale, deve porsi l’obiettivo di fornire ai bambini e ai ragazzi gli strumenti per incidere sulla realtà, per modificarla attraverso una comprensione individuale e un’azione comune. L’approccio per ‘competenze’, al contrario, si basa su una adesione alla realtà esistente come se questa possedesse una realtà propria (il reale non è razionale, sosteneva Dewey). Non si propone di sottoporla a una lettura critica, tanto meno di cambiarla. Il suo scopo è – al contrario – quello di fornire a ciascuno gli strumenti per adattarvisi. La sua azione è modellata sugli individui singoli, privi di legami sociali, che devono essere dotati di propri ‘portafogli’ di competenze e formati per massimizzare il vantaggio personale che può derivare da un loro uso accorto sul ‘mercato’. In questo modo le finalità individuali e sociali vengono separate, viene ricostituita un’opposizione artificiale tra dimensione personale e dimensione comunitaria9.
Non deve stupire che è in atto un tentativo di fare tabula rasa di una ricca tradizione pedagogica costruita intorno al nesso tra individuo e società, tra educazione e democrazia. Stupisce, semmai, che un nuovo filone pedagogico si presti a legittimare questa mutazione. Nella costruzione delle competenze, i pedagogisti arrivano a giochi già fatti. Il loro ruolo prevalente è diventato quello di fornire – a posteriori – un quadro teorico di riferimento a un concetto che nasce, come abbiamo visto, su un terreno diverso rispetto a quello educativo. Per renderlo credibile si cerca
di costruire intorno ad esso una genealogia, alla ricerca di radici antiche e padri nobili, senza preoccuparsi troppo dell’eterogeneità delle correnti di pensiero chiamate in causa. Lo scopo è piuttosto quello di fornire una narrazione che ‘concili l’inconciliabile’, di legittimare il fatto che l’orientamento delle politiche educative sia spostato dal complesso delle dinamiche sociali a una loro declinazione specifica ed esclusiva: l’economia e l’impresa10.
4. Gli straw man argument e la posizione di Biesta
C’è insomma, in certe affermazioni e in certi documenti, così come in moltissimi recenti manuali per la formazione dei nuovi insegnanti, un passaggio che si vuole dare come autoevidente, ma che in realtà non lo è affatto: perché mai la proposta di conoscenze da parte di chi ne possiede oggettivamente di più dovrebbe escludere l’interazione, la comunicazione in tutte le direzioni e a tutti i livelli, l’elaborazione comune di interpretazioni attorno a quelle conoscenze? Perché la classe non dovrebbe diventare una «comunità interpretante»11attorno alle conoscenze introdotte dal docente? E chi altro potrebbe introdurre queste conoscenze, se non chi ha già consapevolezza della loro esistenza e della loro eventuale progressività? Su cosa si basa la relazione tra insegnanti e gruppo classe, se non su un lavoro comune attorno a queste conoscenze di cui l’insegnante è portatore, pur consapevole della loro parzialità e incompletezza, e che prendono vita, vengono attualizzate nel momento stesso della loro proposta alla classe? Chi accusa gli insegnanti di trasmettere nozioni a un uditorio passivo e di identificare la lezione con una comunicazione unidirezionale, lo fa perché probabilmente non ha ben compreso la differenza la differenza che esiste tra nozioni e conoscenze: chiuse in sé le prime (ammesso che possa esistere una pura nozione di questo tipo: di fronte al semplice dato «la Prima Guerra Mondiale scoppia nel 1914» o «la somma degli angoli interni di un triangolo fa sempre 180 gradi» le immagini mentali, le fantasie e i ragionamenti corrispondenti saranno davvero uguali per tutti?); aperte le seconde al lavoro interminabile della rielaborazione, dell’interpretazione, dell’attualizzazione.
Infine, chi ha detto che l’ascolto, da parte degli studenti, non sia esso stesso un’attività? Su questi argomenti, la riflessione pedagogica attuale è andata ben oltre i luoghi comuni riproposti, quelli sì passivamente, da attardati pedagogisti nostrani; bastino tra tutte le parole illuminanti di Gert Biesta:
Negli ultimi vent’anni, in numerose pubblicazioni accademiche e documenti di «policy» dell’insegnamento, è apparsa spesso la tesi secondo cui il cosiddetto insegnamento tradizionale – un’organizzazione dell’educazione tale per cui l’insegnante parla e gli studenti dovrebbero ascoltare e assorbire passivamente informazioni – è da considerarsi obsoleto. D’altra parte, un approccio presumibilmente più moderno, incentrato sulla facilitazione […], è considerato buono, desiderabile e «d’avanguardia». Si noti come l’opposizione fra «tradizionale» e «d’avanguardia» sia già di per sé stantia, e non dovremmo nemmeno dimenticare che criticare l’insegnamento tradizionale è, oggigiorno, una mossa tradizionalista […]. Inoltre questa critica sembra avere poco mordente, perché anche laddove gli insegnanti parlino e gli studenti siedano in silenzio, in realtà, questi ultimi stanno comunque compiendo numerose azioni […]. A tal proposito, sono pienamente d’accordo con l’osservazione di Virginia Richardson, secondo la quale «gli studenti conferiscono significato anche alle attività cui vanno incontro nel contesto di un modello di insegnamento trasmissivo»12.
5. Cosa può dare la lezione
Per tornare all’argomento da cui siamo partiti, quello cioè dell’esclusione della lezione dal novero delle esperienze, possiamo dire che qualunque persona di buon senso capisce come che questa esclusione sia del tutto arbitraria: perché la spiegazione di un insegnante e lo scambio che ne deriva, per uno studente, non potrebbe rivelarsi un’esperienza importantissima, fondamentale, cruciale? Ci sono persone che hanno preso una direzione, di studio, umana o professionale, perché le parole di un insegnante hanno aperto dentro di loro spazi imprevisti di curiosità, di passione, di conoscenza, di emozione, di pensiero. Non dimentichiamo che l’apprendimento, più che da una generica esperienza, che potrebbe anche essere del tutto insignificante, viene rafforzato dall’emozione che lo accompagna: è la memoria emotiva che senza dubbio influisce sulla memoria esplicita o dichiarativa, facilitandola o depotenziandola.
C’è di più: la lezione, considerata non in modo statico ma dinamico, è costituita da innumerevoli interazioni, verbali, non verbali, affettive, immaginative tra l’insegnante e il gruppo classe; rappresenta cioè una modalità di relazione, che ha al centro la parola. In quale altra esperienza, più che nella relazione, una persona mette in gioco tutta se stessa, i suoi affetti, le sue paure, le sue fantasie, i suoi pensieri, i suoi bisogni, le sue angosce e i suoi desideri? Sicuramente un’esperienza relazionale che si incarni in una buona lezione permette una maggiore sottolineatura dei contenuti, la cui memorizzazione, rielaborazione e acquisizione è rafforzata dalle emozioni che la accompagnano, ed è promotrice di crescita personale e di maturità sociale, visto che mette in movimento importantissime dinamiche sia individuali che di gruppo. Teniamo presente che le emozioni hanno un importantissimo ruolo nel consolidamento della memoria a lungo termine, e una relazione, un’esperienza di gruppo, una lezione, che attivi anche i sistemi emozionali nello scambio relazionale, facilità il consolidamento dei contenuti appresi. I processi di memorizzazione vedono coinvolti ippocampo e amigdala in modo interconnesso, l’attivazione dei sistemi emozionali influenza positivamente o negativamente la strutturazione del sistema ippocampale, implementando o influenzando negativamente la capacità di memorizzazione e rievocazione dei contenuti13. Va poi precisato che la lezione è fatta di tanti momenti diversi e di modalità didattiche che si alternano a seconda della situazione: ribadirne la centralità non significa escludere una molteplicità di approcci, né negare valore all’esperienza, anzi; così come nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione il ruolo fondamentale del gioco, del divertimento, dell’imitazione in molte fasi dell’apprendimento. Il problema di chi ritiene che la lezione, come metodo didattico, sia «superata», al solito, è l’astratto totalitarismo metodologico, che scambia fini e mezzi, rende questi ultimi fini a se stessi e chiude il pensiero anziché aprirlo. Bion stesso d’altronde parlava di apprendere dall’esperienza14, consapevole che l’interazione nel gruppo portava ad apprendere l’uno dall’altro e uno nell’altro, proprio perché il gruppo è contenitore di tutta una serie di emozioni che accompagnano e favoriscono l’apprendimento. Questo può avvenire anche attraverso una modalità laboratoriale, certo; ma perché non dovrebbe avvenire in quell’esperienza capace di coinvolgere tutto il gruppo che è la lezione? La stessa attività laboratoriale, perché sia utile al progresso della conoscenza, necessita di una restituzione di senso guidata dall’insegnante, di una cornice di parole che la inserisca in un contesto significativo.
Insomma, quando si dice che la lezione in classe sarebbe «superata», si cade in un evidente paradosso: si esclude cioè dal novero delle esperienze proprio un rapporto umano profondamente personalizzato e fondato sulla parola e sulla relazione, di cui le persone in crescita hanno un grandissimo bisogno, che passa per la condivisione appassionata e il lavoro comune sulle conoscenze e sui contenuti culturali, e si esaltano altre esperienze (c’è chi pensa seriamente che con dei video gli studenti imparerebbero di più che dal rapporto con gli insegnanti; c’è anche chi dice che gli studenti con difficoltà cognitive – che non sono mai solo tali – sarebbero aiutati in modo davvero efficace da programmi informatici di intelligenza artificiale), alcune delle quali lasciano lo studente tristemente solo con se stesso; anzi, per dirla francamente, hanno in sé qualcosa di autistico.
Per questo, tutta la voglia che si vede in giro di «superare» la lezione e addirittura di smantellare i gruppi classe deve metterci in sospetto: e il sospetto è che alla base di questa voglia ci siano motivazioni ideologiche, «politiche» o economiche, più che psicologiche, pedagogiche, culturali, di affettuosa sollecitudine per il futuro delle nuove generazioni, come qualcuno vorrebbe farci credere. Dopo tutto «Il neoliberismo scolastico ha fatto proprie le critiche alla pedagogia tradizionale sviluppando un’agenda «alternativa» finalizzata alla formazione del capitale umano messo al servizio dell’«economia della formazione»15. Sottrarre valore alla lezione in classe, con la sua plasticità e concretezza, con le dinamiche di gruppo che insegna a vivere, e sostituirla con metodologie didattiche astratte, fini a se stesse, non di rado inefficaci e dispersive, non significa affatto «mettere al centro» gli studenti, significa esattamente l’opposto.
6. Brevi conclusioni
La lezione scolastica è un ponte tra le generazioni16. Le persone in crescita, nella loro curiosità e nel loro enorme bisogno di trovare un senso alla realtà interna ed esterna a sé, cercano prima di tutto degli adulti che spieghino loro le cose, che diano indicazioni, che si interessino a loro e parlino proprio a loro, che abbiano delle storie e delle esperienze umane, il cui «concentrato» sono i contenuti culturali, da raccontare, che gli aprano conoscenze, per non doversi confrontare immediatamente con un illimitato del reale (oggi anestetizzato ma non elaborato attraverso la dipendenza dell’iperconnessione) che spaventa e paralizza chi deve affrontarlo da solo, per avere un luogo protetto fatto di parole e di punti di riferimento su cui far crescere i propri pensieri, le proprie fantasie e i propri sentimenti. Questo luogo è un contenitore, uno spazio sicuro in cui le relazioni possono prendere vita insieme a delle regole che le accolgano; spazio transizionale17 che si crea nell’incontro tra adulti e bambini, tra adulti e ragazzi, in cui due esperienze possono intrecciarsi, quella dell’insegnare e quella dell’ascoltare e dell’interagire. Esperienza reciproca, poiché anche il bambino e il ragazzo insegnano al maestro o al professore attraverso il loro modo peculiare di essere nella scuola. In questo spazio transizionale prendono vita dei vissuti completi fatti di emozioni e cognizioni che, di pari passo, promuovono una delle più importanti esperienze di crescita non solo culturale ma anche identitaria. In questo processo di crescita, gli studenti acquisiscono degli importantissimi strumenti per capire il mondo che li aspetta, quel mondo fatto di sapere, conoscenze, significati, relazioni professionali e affettive, talvolta anche dolorose, che fanno della vita un’esperienza che vale la pena di essere vissuta.
Note
1 Romano Luperini, Insegnare la letteratura oggi, Lecce, Manni, 2013.
2 Anp, “La scuola che vogliamo”, https://www.anp.it/2022/09/20/la-scuola-che-vogliamo-il-documento-dellanp/, ultima consultazione: 16 gennaio 2023.
3 Ibidem.
4 Antonio Gramsci, Anche lo studio è un mestiere, in Quaderni dal carcere, ١٢,٢, Roma, Edizioni di Comunità, ٢٠٢١, pp. 13-20.
5 Anp, “La scuola che vogliamo”, cit.
6 Luca Malgioglio, Alessandro Zammarelli, Sulle competenze non cognitive, tra insegnamento e psicologia, in “Le nuove frontiere della scuola”, maggio 2022.
7 Daniel J. Siegel, The Developing Mind, Guilford Press and Mark Paterson, trad it. Luisa Madeddu, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2001.
8 Gerald M. Edelman, Sulla materia della mente, Milano, Adelphi, 1993.
9 Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Bari, Laterza, 2019, p. 24.
10 Ivi, p. 25.
11 Luperini, Insegnare la letteratura oggi, cit.
12 Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2022, pp. 56-57.
13 Regina Pally, Il rapporto mente cervello, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2003.
14 Wilfred Bion, Apprendere dall’esperienza, Roma, Astrolabio, 2019.
15 Christian Laval, Francis Vergne, Educazione democratica, Novalogos, 2022, p. 156.
16 Gustavo Zagrebelsky, La lezione, Torino, Einaudi, 2022.
17 Donald W. Winnicott, Gioco e realtà, Roma, Armando, 1999.