Intervista a Mirco Dondi. L’ecologia del denaro e degli scandali finanziari

Interview with Mirco Dondi. The ecology of high finance and media scandals

In apertura: bandiere di fronte agli uffici Parmalat di Stellenbosch, Sudafrica, durante il lutto nazionale per Nelson Mandela, 12 dicembre 2023, ore 15.00. Le bandiere rappresentano le operazioni dell’azienda in Sudafrica, il centro decisionale in Italia e l’azienda madre francese Lactalis (foto di HelenOnline, Wikimedia Commons, https://commons.wikimedia.org/).

 

L’intervista a Mirco Dondi, docente dell’Università di Bologna ed esperto di Storia contemporanea e di media si deve a Davide Perfetti. L’intervista approfondisce il recente romanzo I soldi degli altri1  e parte del processo che risiede dietro l’opera, in cui convergono competenze diverse. È l’occasione perfetta per discutere del rapporto tra media e pubblico, e del ruolo dello storico nell’attualità.

Non conoscevo la storia del crack della Parmalat. Quando è successo avevo quattro o cinque anni: non è l’età in cui si presta molta attenzione a quello che scrivono i giornali. Ho letto il libro senza sapere e poi mi sono informato per cogliere i parallelismi.

Certo, c’è l’attinenza tra quello che è raccontato e la vicenda vera, però chiaramente – essendo un romanzo – ci sono delle limature, degli adattamenti. Il romanzo non ha una pretesa di verità. Il romanzo è un elemento simbolico per ragionare sulla realtà, io così l’ho inteso.

Quindi questo è uno tra i motivi che ha portato a scriverlo?

I motivi in realtà sono due. Uno è legato a ciò che potremmo definire l’ecologia del denaro: a come gira il denaro nella finanza, un denaro improduttivo, speculativo. Il caso Parmalat chiaramente rientra in questa tipologia del tutto anomala. Mi interessava mostrare una rete finanziaria che non fosse solo italiana, perché la rete finanziaria della realtà è globale.

In secondo luogo, mi interessava mostrare un possibile funzionamento dei media. Insegnando “Storia e analisi delle comunicazioni di massa” è una riflessione che ho fatto di frequente: la capacità del media di occultare l’evento, di nasconderlo, di piegarlo alle sue strategie, anche con una riflessione sui sondaggi che attraversano la parte finale del testo. Noi prendiamo i sondaggi come se fossero verità, l’attestazione della veridicità del fatto. In realtà anche il sondaggio – lo sappiamo benissimo – è una curvatura della realtà, serve per indirizzarla, e anche quello mi piaceva inserirlo dentro una trama.

Rappresenta forse la fissazione per il volere popolare?

Sì, certo, il volere popolare, e poi il popolare che gira anche nei personaggi televisivi, ovvero la ricerca della popolarità ad ogni costo, quindi con un forte egocentrismo, da parte di persone ego-orientate, centrate solo su se stesse, senza un’evidente moralità. Il conduttore Leo Brown è sicuramente uno di questi; vive la rivalità con il comico Gerri Sansa attraverso un inferiority complex, poi – quando il comico cade in disgrazia – lui ce l’ha nelle sue mani e può giocare la partita della sua rivincita, ma non gli interessa affatto qual è il motivo della contesa, gli interessa soltanto che ci sia audience.

A volte sembra volerlo salvare, quasi.

Falsamente lo vuole salvare, non gli interessa assolutamente di salvarlo. C’è una battuta che il comico dice, a lui interessa che ci sia lo spettacolo, come a chi organizza questo duello televisivo tra il comico e il finanziere.

La cantante francese in declino vede in questa occasione il momento di rilancio della sua immagine a tutela della moralità e dell’onestà, ma non le interessa l’esito, perché non si occupa di come sarà il format del programma. E così pure il conduttore Brown, in realtà, va dai due contendenti aizzandoli di fatto. Come dice Fedele Confalonieri, un talk show non ha senso se non c’è casino2. Quindi deve esserci una rissa. E una rissa in effetti c’è, ma sotto i piedi di questa rissa è calpestata la verità, perché non c’è nessun meccanismo utile a poterla ricostruire. Tutto è cadenzato su questi tempi velocissimi, su questo accordo (una battuta, una risposta) che per illustrare una dinamica intricata come quella di uno scandalo e il coinvolgimento del finanziere in esso chiaramente non servono gli spot. Gli spot servono al programma, ma non servono al contenuto.

Non c’è nessuna verifica della verità, alla fine. Quindi questo romanzo rientra appieno nella sua esperienza sia di studio dei media, sia di comunicazione storica. Immagino che abbia scelto questo tema per il desiderio di comunicare il funzionamento della finanza con un caso tra il fittizio e lo storico.

Allora, la finanza normalmente non è mai percepita come un’occasione nella quale si può delinquere. Ovviamente non tutta la finanza è materia giudiziaria, ma alcuni episodi molto clamorosi lo sono stati. Ecco, dentro questi episodi di speculazione finanziaria, i media hanno sempre avuto un atteggiamento levigato, quasi che queste speculazioni non fossero gravi e dannose come un attentato terroristico o un agguato di mafia. Questo mi ha sempre colpito e sorpreso. Certo, dentro la mia esperienza ci sono questi aspetti del meccanismo di comunicazione, perché è la percezione del mondo moderno che noi abbiamo. Noi non abbiamo più un’esperienza diretta sull’evento, come potevano avere i nostri nonni. Noi abbiamo un’esperienza mediata. Però se il medium distorce la realtà, diventa difficile per noi capire i contorni delle vicende, soprattutto quelle più delicate.

Per mostrare questo, come ha scelto di dosare gli elementi storici e quelli fittizi? La trama è molto incentrata sui personaggi, non vuole essere didascalica sugli eventi storici.

Serve capire anche qua, come dice McLuhan, che il mezzo è il messaggio3. Non potevo fare un saggio, non mi interessava farlo; mi sono cimentato sulla dimensione romanzesca. Il primo aspetto chiave, anche per scrivere un romanzo d’inchiesta, è non dare una spiegazione. Il saggio dà spiegazioni, crea categorie concettuali. Noi le categorie concettuali le dobbiamo trarre come lettori in maniera indiretta dalle azioni dei personaggi. Quindi si lavora sui personaggi. Lavorare sui personaggi cosa significa? Quei personaggi devono finire per imprimersi nella memoria del lettore. Allora questa è la chiave di entrata, attraverso le loro azioni. C’è anche un motto britannico a proposito della teoria del romanzo, “Show, don’t tell”.

Se uno ha presente gli eventi della Parmalat, a partire dalla proprietà di un emittente televisiva, è comunque in grado di fare dei paralleli molto precisi anche.

Sì, il parallelismo c’è. Anche il personaggio del comico nelle presentazioni che ho fatto, qualcuno l’ha individuato in Grillo, qualcuno l’ha individuato in Crozza. È chiaro che mi sono ispirato un po’ a quello. Del resto, noi siamo stati investiti da politici comici e da comici politici. Ed entrambe le categorie a me non è che abbiano entusiasmato nel loro insieme. Poi sì, la vicenda della speculazione finanziaria del caso Parmalat è visibile, al punto che anche alcune case editrici non l’hanno pubblicato perché non gli pareva opportuno nel tema e nel tono. Io, infatti, ho fatto mettere all’inizio del romanzo che la storia è inventata, poi chiaramente uno si può ispirare alla realtà. Ad esempio, una delle cose che mi aveva più colpito del caso Parmalat, che avevo trovato diabolico nel suo insieme, la creazione di questo fittizio forziere estero di titoli, ricchissimo. E molti, quando Parmalat chiedeva dei prestiti, dicevano “ma come, non avete questo forziere? Perché non li prendete da lì?”. Perché il forziere non c’era. Allora anche in questa storia c’è quel tipo di riferimento, alla costruzione, all’acquisizione di aziende per ripianare debiti di altri, che anche questo è una parte della trama. Poi ci sono altri aspetti, forse minori, ma che mi premeva a prendere in considerazione.

Quali ritiene significativi? Come stava dicendo adesso, alcuni sembrano minori ma non lo sono.

Certo, alcuni sembrano minori. In realtà già l’inizio prende in considerazione un prodotto, il cosiddetto Virgociok. La riflessione mi nasceva anche da cosa mangiamo. Noi mangiamo delle cose naturali, quindi l’evoluzione anche dei prodotti industriali a che cosa ci porta? In realtà questo cioccolato è modificato affinché non scada mai. Però è ben pubblicizzato, quindi anche se è immondo, le persone lo comprano ugualmente. Poi, ovviamente, le aziende si fanno la bella faccia: “Noi combattiamo la fame nel mondo con questo cioccolato che non scade mai”. E quindi c’è anche l’ironia del comico che dice “Beh, a vostra scelta potrete optare o per il Nobel per la pace o per il Nobel per la chimica”, perché in entrambi i casi è inoppugnabile il valore che viene creato. Ecco, questo è un elemento che appare minore, ma che pure mi premeva. Ad esempio, noi viviamo in una società, dalla metà degli anni Dieci, dove la cucina è diventato uno dei temi principali, sia per le vendite editoriali, sia nei programmi. Lo vediamo nei talent show come MasterChef, che però non è il solo. Tutta questa grande attenzione che noi riponiamo nell’impiattamento, nella cura dei piatti, si riversa anche in vicende di prodotti di fatto scadenti ma ben pubblicizzati. Oppure l’attenzione che noi riversiamo sulla cucina molto spesso però ci fa assorbire la spazzatura televisiva, con assoluta indifferenza. Questo è un altro elemento che sta dentro la storia.

Quindi il cibo ci porta alla televisione e la televisione ci porta a un certo tipo di mangiare?

Sono le contraddizioni nelle quali noi viviamo. L’ambizione dell’eccellenza, una continua ricerca di raffinatezza, ma questa ricerca di raffinatezza non è una missione di vita. Da un lato cerchiamo la raffinatezza, dall’altro lato va bene anche il precipizio nella banalità, nell’indifferenza, nelle cose non ecologiche, perché questo è un uso non ecologico del denaro, non ecologico del cibo. In una sintesi, puoi anche definirlo un romanzo sull’ecologia del denaro e sulla moralità dei media.

Per ecologia del denaro cosa intende, esattamente?

L’ecologia del denaro è come il denaro viene utilizzato non a fini produttivi, ma a fini fortemente speculativi. C’è anche la storia che avviene in ambito francese, quando il finanziere va a rimuovere il presidente di una banca che avevano assorbito e gli fa una morale a suo modo, che è la morale di chi non ha morale. Ci sono degli assunti di finanza, creare utili con l’architettura finanziaria, evitare l’evidenza dello strozzinaggio, però poi non significa che in altro modo la speculazione non avvenga. Poi c’è tutta una visione di quello che sono le classi dirigenti, un’avversione per le inchieste giudiziarie: “Ma come? Questi vengono a fare delle inchieste su di noi perché si illudono di ricambiare la classe dirigente attraverso le inchieste? Ci deve essere qualcuno che ci scala perché è più bravo di noi”. Ed è un po’ la mentalità di chi comanda, che è sostanzialmente indifferente alle regole e alle azioni della giustizia.

C’è anche il tema della punibilità di questi personaggi.

Assolutamente, c’è il tema della punibilità. Infatti, si intuisce che il finanziere che è al centro di questa trama se la cava senza subire alcuna conseguenza e anche gli altri alla fine, dopo un breve periodo, usciranno indenni. E lo dicono anche in maniera molto esplicita. Dice: “Che cosa potrebbe succedermi? Magari opto per il rito abbreviato, mi pento, mi riducono la pena, poi ho tanti soldi che loro non hanno trovato e che io mi godrò quando esco, per male che mi possa andare. Altrimenti non succede niente”. Anche sull’esito della vicenda, diversi lettori mi hanno scritto – possiamo anche spoilerare il finale – “Che ne è del comico?” Allora la risposta che io ho sempre dato – non volevo dare una visione definitiva, ma farlo intuire al lettore – si capisce che nella scena finale lui non ha un soldo e finisce ipoteticamente in due posti lontani nel mondo. Come ci è arrivato in quei posti? Qualcuno ce l’ha portato. Sparisce completamente, ci sono queste fotografie che lo ritraggono in posti sperduti, difficilmente raggiungibili con un viaggio solo, quindi ci vogliono giorni per arrivarci, cambiando mezzo, però non sappiamo se era poi veramente lui, era un fotomontaggio e perché lo hanno messo là così lontano. Poi è chiaro, c’è sempre anche l’esile speranza delle persone con le bandiere bianche che vogliono indicare la purezza, che chiedono giustizia, chiedono che si faccia luce. La nostra esile speranza andrà lontano, riuscirà ad arrivare fino in fondo? Quello lo lasciamo in sospeso.

Per esempio, su questo tema della giustizia, quali sono i paralleli storici con la Parmalat o con altre vicende che ha voluto rappresentare?

Si pensi, ad esempio, alla vicenda di Tangentopoli. L’hanno montata tutti quanti nel momento in cui faceva audience. Quindi dalla fase che va dopo le elezioni dell’aprile del ’92, proprio alla fine del mese di aprile, e ancora nell’estate, è il tema comune. Poi quando si scopre che quella vicenda ha azzerato i vertici di una classe dirigente, si pensa a meccanismi quasi di amnistia: “No, non possono andarsene tutti”. Le cose vengono molto spesso appianate, attenuate, e anche nel romanzo in fondo succede la stessa cosa. Lo scandalo colpisce, c’è l’interesse vorace dei media per acchiappare la notizia perché ha un seguito di pubblico, e poi dopo c’è la china discendente di interesse. Nella china discendente di interesse si può manovrare per attenuare i processi. È qualcosa che in parte è successo anche con Tangentopoli, che è l’evento più eclatante vissuto nel nostro paese negli ultimi trent’anni.

Come è stato il processo per cui si è arrivati alla pubblicazione del romanzo in questa forma?

Allora, farsi pubblicare per una persona che è sostanzialmente sconosciuta, che non ha comunque una visibilità pubblica, è difficile.

Lei aveva pubblicato già un romanzo sugli anni Ottanta.

Sì, però questo non mi è valso un titolo preferenziale. Per farsi pubblicare da una casa editrice occorre che ci sia una persona all’interno di quella casa editrice che ti legga e che ti conosca. Altrimenti si finisce nella marea dei tanti manoscritti che arrivano – sicuramente qualcuno sconosciuto di alto livello, tanti altri nella media – e quindi le case editrici, intanto, la prima selezione la fanno su chi devono leggere e poi su chi devono pubblicare. È un imbuto che si stringe sempre di più. Perciò in alcuni casi non ho ricevuto risposta. In altri casi ho ricevuto la risposta che forse il tema poteva non interessare quella casa editrice. Una casa editrice di cui non faccio il nome mi ha rifiutato la pubblicazione e poi ho scoperto che era abbastanza esposta con le banche, quindi non poteva pubblicare questo testo. Insomma, non le pareva comunque opportuno farlo.

Poi l’accoglienza come è stata?

L’accoglienza è stata ottima perché ho vinto anche il premio Pegasus Awards di Cattolica, è stata ottima da quel punto di vista. Le presentazioni sono state numerose, le vendite sono state buone. Anche l’autore deve comunque aiutarsi, autopromuoversi. Certe volte bisogna proporre, come ho fatto poi anche con voi, una conversazione sul testo. Un po’ dipende anche da quanto e da come si muove l’autore per autopromuoversi. Non è una cosa che a me piace moltissimo, è sempre meglio essere invitato che non indurre un invito, però alla fine uno spinge anche nella direzione di chiedere uno spazio per i contenuti che vuole diffondere, per il messaggio che il libro porta. L’ho scritto per raccontare questa storia, potrebbe essere utile, potrebbe essere un metodo di consapevolezza che si vuole offrire all’opinione pubblica. Allora alla fine è quello lo scopo, non tanto il piacere personale quanto il contenuto che si vuole portare.

In qualche modo fin dall’inizio era indirizzato un po’ al mondo storico? La prima presentazione era stata anche in dialogo con degli storici.

Una presentazione in dialogo con gli storici l’ho fatta a Pescara, però è stata l’unica. Le altre sono state più, diciamo, di ambiente letterario o giornalistico, come a Corigliano Calabro o a Brescia. In realtà sono stati diversi fronti di interesse: i letterati, i giornalisti, gli storici. Ognuno con la sua sensibilità di lettura, per cui ogni presentazione è stata diversa o ha sottolineato aspetti diversi. Per esempio, molti letterati hanno messo in luce la fattura dei personaggi, il loro intimo senso tragico, insoluto, l’incapacità di creare relazioni stabili dentro questo mondo instabile economicamente e finanziariamente. Tant’è che non c’è nessuno, in effetti, dentro questa storia che possa dire di vivere una relazione felice.

Sono tutti un po’ legati dai soldi…

Esatto, la cappa che piomba su questo gruppo. Ad esempio, Stefano Colangelo su L’Indice4  ha paragonato Gerri Sansa a un moderno Don Quixote, quindi sono immagini della letteratura che vengono riproposte. Un alveo di questo lavoro è stato ricondotto lì, secondo me anche in modo giusto, opportuno. A Corigliano Calabro, dove gli organizzatori erano tutti i giornalisti, l’accento l’hanno posto sul tema dei poteri forti. I media, la finanza, sono i veri poteri forti: mentre i governi sono transitori, queste invece sono strutture che rimangono e che condizionano, è anche quella era una lettura assolutamente opportuna.

E invece dal lato storico, quale sensibilità ha trovato?

Dal lato storico, i più sensibili hanno anche cercato tracce nella vicenda di Michele Sindona, che non è sbagliato. Ogni situazione finanziaria che comincia a incrinarsi nella storia è come un dato, che quella banca, quel gruppo, quell’azienda, si sono ingrossati, e più avevano debiti, più si ingrossavano. In parte forse per appianare, in altra parte per diventare così grandi da non poter fallire. Anche qua siamo nella finanza americana dove si dice “Too big to fail”, troppo grande per fallire5  e la vicenda di Sindona, ad esempio, è emblematica da questo punto di vista.

Parmalat ha la stessa traccia. Qualcuno a Pescara mi ha detto “Il protagonista finanziere che si chiama Michele, è Michele Sindona?”. Ha il riferimento al nome di battesimo e quella era più la sensibilità di uno storico che andava su questi elementi. Come vedi, è un testo polisemico e così deve essere il romanzo, anche aperto ad altre letture. Vale quello che negli anni Novanta i Wu Ming definivano la «repubblica democratica dei lettori»6, giocata proprio sulle sensibilità, sulle competenze diverse di chi legge. Diventa un’opera che appartiene a tutti e alle volte anche ci sono aspetti che lo scrittore non aveva così fortemente evidenziato che invece i lettori rimarcano in più occasioni.

L’oggetto libro è particolare perché è un prodotto povero, in cui però il lettore ha una competenza altissima, come ne potrebbe avere su un prodotto di lusso. La partecipazione del lettore al processo è inevitabile.

Ma è assolutamente centrato perché che cos’è un libro senza un lettore? I saggi, le recensioni che scriviamo, le scriviamo pensando a un pubblico, pensando a un dialogo immaginario, qualche volta reale ma più spesso immaginario.

Infatti, leggendo le informazioni che sono sul suo sito e anche quello che mi diceva ora sui mondi che ha incontrato (giornalismo, letteratura, editoria e storia), il romanzo sembra anche rappresentare la sua formazione.

Assolutamente sì, di fatto è quello che poi sono le mie competenze, quello che ho fatto, anche il giornalismo che pratico anche attraverso il mio blog. Ho scritto oltre 120 articoli da qui al 2012, occupandomi prevalentemente di politiche culturali, di distorsioni della storia o di analisi di storia del presente. Non sono mai entrato, tranne in un caso, dentro la polemica politica viva.

Ma comunque è difficile definirne i confini.

Sì, certo, è difficile rimanerne fuori. Esiste sempre un orientamento, un punto di vista quando si scrive. Questo, è assolutamente vero.

Che lettore ha tenuto in mente quando è partito con questa idea? Una persona a cui comunicare, un interlocutore?

Non si possono pianificare i lettori, se non il genere. Non ho fatto un’operazione di marketing, magari c’è chi lo fa… In primo luogo possono essere gli esperti della materia per avere un confronto. Se devo dire delle persone a cui comunicare, sicuramente anche le generazioni più giovani, quelle dei miei nipoti che sono ventenni. Ecco, poter raccontare qualcosa a loro – che non studiano storia, ma leggono – sicuramente quella può essere una sfida: avere coscienza del tempo nel quale vivi, perché in realtà il lavoro nasce per confrontarmi e per raccontare il presente. Nei Malriusciti7  ho raccontato gli anni Ottanta, giocando sulla forma romanzo (dodici anni raccontati da quattro personaggi) la storia va avanti ma cambia il narratore. Invece qua ho evitato la narrazione in prima persona, ho cercato – non di avere un narratore onnisciente – di riprodurre una pluralità di punti di vista. Allora serve stare attenti a quando un personaggio parla, perché non può avere delle notizie o scrutare così a fondo degli stati d’animo degli altri. Deve essere sempre qualcosa legato all’interazione personale, alla sensazione personale di quel momento, non a un’oggettivazione di uno stato di fatto. Su quello si deve essere molto prudenti e dosare bene la scrittura, capire quali sono i limiti di conoscenza del personaggio verso il mondo esterno.

Altrimenti si rischia di avere quel personaggio che sa fare tutto e sa tutto…

Che non è realistico, alla fine non è neanche letterario. Anche qua siamo sulle architetture, giochiamo. In questo caso, se il personaggio deve essere realistico, deve essere un personaggio con i suoi limiti. Ovviamente tutti noi abbiamo dei limiti; quindi, se vogliamo che sia realistico dobbiamo dosare la scrittura. Altrimenti andiamo su un genere diverso, possiamo fare il fantasy, che è un esperimento letterario divertentissimo, molto letto dai giovani. Forse è una delle frontiere ora più feconde, che cambiano anche la scrittura, come le graphic novel, le cambiano attraverso le illustrazioni e con testi che sono sempre più asciutti, per quanto possano essere egualmente evocativi.


Note

1 Mirco Dondi, I soldi degli altri, Firenze, Vallecchi, 2023.

2 Salvatore Merlo, Confalonieri: “I No vax servono nei talk-show, ma nessuno li prende sul serio”, in “Il Foglio”, 4 settembre 2021. In merito al dibattito pubblico in TV, si può discutere della legittimazione offerta dai media tradizionali a posizioni percepite come controcorrente e allo spazio concesso ad alcune forme di dissenso.

3 Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, in Mario Ricciardi, La comunicazione. Maestri e paradigmi, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 81-82.

4 Stefano Colangelo, Mirco Dondi. I soldi degli altri, in “L’Indice”, 2024, n. 9.

5 L’espressione si riferisce alla teoria per cui alcuni istituti finanziari sono troppo estesi per permettere loro di fallire senza conseguenze catastrofiche. Nonostante l’espressione si sia diffusa dopo il 2008 con il salvataggio delle banche Usa dalla crisi, questo tipo di intervento finanziario ha esempi precedenti, detrattori e sostenitori: Gary H. Stern, Ron J. Feldman, Too Big to Fail: The Hazards of Bank Bailouts, Washington D.C., Brookings Institution Press, 2004; George C. Nurisso, Edward Simpson Prescott, The 1970s Origins of Too Big to Fail, in “Economic Commentary”, 2017, n. 17.

6 L’espressione esprime il rapporto di “interferenza” reciproca tra i lettori e il collettivo: Carmilla on line | GIAP!: intervista al collettivo Wu Ming, https://www.carmillaonline.com/2003/06/18/giap-intervista-al-collettivo-wu-ming/, data di consultazione: 18 marzo 2025.

7 Mirco Dondi, I malriusciti, Roma, Elliot, 2012.