Il quarto album della band ferrarese di Vasco Brondi è un punto di svolta nel loro percorso artistico: il riuscito tentativo di passare dallo status di indie rock band a un classico della musica italiana tout court. Dieci canzoni prodotte da Federico Dragogna dei “Ministri”, libretto con diario di lavorazione del disco, come immagine di copertina un’opera di land art nel deserto del Nevada dell’artista svizzero Ugo Rondinone: il livello della sfida si intuisce da subito, è il disco più ambizioso di sempre per le Luci. Questo album è il punto di arrivo di un percorso iniziato dieci anni fa con l’autoprodotto Le luci della centrale elettrica, continuato in un crescendo di popolarità e di ispirazione artistica, tra concerti con Francesco de Gregori e collaborazioni con Jovanotti, ma sempre con una cifra stilistica inconfondibile.
Dieci canzoni che si aprono al mondo, linee melodiche con echi di posti lontani, richiami all’Africa e al Medio Oriente ma con i piedi piantati nell’Italia del 2017, dove «all’improvviso è arrivato il futuro». Terra non evoca semplicemente lo spaesamento o la frammentazione dei linguaggi, li incorpora nelle strutture delle canzoni e nella costruzione dei testi, riesce a toccare il personale e il mondo, contemporaneamente, in un abbraccio indissolubile.
Già dal primo pezzo, A forma di fulmine, grande ballad in crescendo, perfetta in concerto, si intuisce una maggiore ricercatezza degli arrangiamenti e l’approdo a una dimensione cantautorale ma calata nel presente, senza nostalgie o coloriture politiche. Poi si parte in un viaggio che tocca Toronto e la Siria, la Torre Eiffel e il profondo Veneto, Tangeri e i Balcani, con ritmiche altre e la voce cantilenante, brani-mondo e al tempo stesso generazionali, racconti popolari in cui tanti si possono riconoscere.
Nelle parole de Nel profondo Veneto tracce di tutte le eterne sconfitte di ogni spostamento; in Waltz degli scafisti il dramma e l’inevitabilità dell’emigrazione, con echi dell’antica musica popolare italiana; Iperconnessi ritratto ironico e disperato della (nostra e di tutti) società dell’opinione; Stelle marine racconta del caso Giulio Regeni semplicemente evocandolo, attualità sulle eterne sponde del Mediterraneo, perforato dai sacri interessi dell’Eni.
Echi di mondi antichi mischiati con le tifoserie ultrà, viaggi interstellari e la realtà ostinata e sporchissima, città indecifrabili, scritte in cinese o arabo, divinità sconosciute incarnate in nomi da bimbo, viaggi (naturalmente disorganizzati) verso città italiane in Argentina, struggenti canzoni classiche d’amore come Chakra, comete sopra isole vulcaniche… e i tuoi vent’anni passati inosservati, neanche un like su uno schermo.
E poi: il violoncello di Daniela Savoldi che ti consola, le percussioni di Daniel Plentz che danno il ritmo diesel e profondo a tutto il disco, echi della migliore musica italiana (Franco Battiato, Csi, De Gregori) e dei classici songwriter americani, finalmente grande musica popolare e non linguaggio di nicchia autoreferenziale, senza nessuna nostalgia, neanche degli anni zero, ormai passato remotissimo: dieci anni nei secoli dei secoli, passati in un attimo in fila sulla statale Adriatica.
Il viaggio della band, partito da Ferrara dieci anni fa, non ha esaurito la sua spinta creativa raggiungendo un punto raramente toccato da gruppi nostrani (e non solo): raccontare il presente, senza abolire il futuro e il passato. Nel variegato mondo della musica italiana degli ultimi decenni Terra ha la caratura di un classico contemporaneo: ad oggi, settembre 2017, il disco (e il gruppo) del decennio.