Se affermare che il teatro possa fare della “buona storia” è certamente troppo azzardato, è invece innegabile che una certa dose di storia possa contribuire a fare del “buon teatro” – almeno se per “buono” si vuole intendere un teatro che informi, rilanci, proponga argomenti e dubbi destinati a rifrangersi e a proliferare nella ricezione, nella memoria e nella rielaborazione degli spettatori.
Per far questo, può essere utile lavorare da dramaturg più che da drammaturgo, essere disposti più alla ricerca che alla creazione pura (ammesso che questa esista), dialogare, in sintesi, con materiali multipli e competenze o esperienze variegate. Una pratica, questa, né nuova né rara, ma la cui necessità sembra farsi più urgente in un’epoca in cui, da una parte, si è tornati a fare spettacolo fuori dai teatri ufficiali e attraverso modalità partecipative, e, dall’altra, le battaglie sociali e politiche sembrano infiammare solo se “ben comunicate”.
È con tali aspirazioni che è stato concepito E io pedalo. Donne che hanno voluto la bicicletta, uno spettacolo diretto da Donatella Allegro e interpretato da Irene Guadagnini ed Eugenia Rofi, autoprodotto da un piccolo gruppo di professionisti di area bolognese riuniti nell’Associazione Culturale Effettica. Nato nel giugno 2016, questo lavoro teatrale indaga il rapporto tra le donne e la bicicletta come mezzo di trasporto, come svago, come sport e, più ancora, come simbolo: il simbolo, appunto, della lotta per l’emancipazione femminile, di cui quella per la conquista della bicicletta è stata ed è solo una tappa, ma anche un possibile emblema.
«L’uso della bicicletta è stato fondamentale per l’emancipazione della donna più di qualunque altra cosa al mondo», sentenziava nel 1896 l’attivista statunitense Susan B. Anthony: un’affermazione iperbolica ma che si rivela, alla luce delle fonti storiche, dei testi narrativi e delle testimonianze di ogni tempo, sorprendentemente corretta, giacché fin dal suo apparire la bicicletta viene vietata o quantomeno inibita al sesso femminile, che da subito la rivendica, la cerca, la innalza a simbolo e a strumento concreto di libertà. E se è vero che oggi in Occidente questa può sembrare una storia vecchia, in molti paesi del mondo il divieto persiste: basti pensare al primo film della regista arabo-saudita Haifaa Al Mansour, La bicicletta verde (2012).
Nello spettacolo sono allora proposte, secondo un percorso a tappe che ha l’aria di un tour, alcune tra le molte storie che rivelano lo stretto legame tra emancipazione femminile e uso delle due ruote, tenute insieme da una cornice giocosa, che procede per numeri come nel più classico dei cabaret. Si è scelta poi una scenografia molto scarna, adattabile a spazi e contesti non prettamente teatrali e a prova di austerità produttiva. D’altronde, non è la bici il mezzo proletario per eccellenza?
Sul palco appare una giovane donna; come la dea Fortuna, regge una ruota, ma è quella della sua bicicletta, che ha una camera d’aria forata. Dopo aver inutilmente chiesto aiuto al pubblico, la ragazza si rivolge a una seconda donna, che avanza sulla scena a cavallo di una mitica Graziella. È questa figura quasi clownesca a dare il via, con l’aiuto della sua “bici contastorie”, a un viaggio nel tempo, in cui le due cicliste percorrono una sorta di Giro delle italiane in bicicletta, le cui tappe segnano altrettante, simboliche fasi della conquista della libertà delle donne. Lungo la strada si incontrano donne reali e donne immaginarie, donne comuni e donne celebri. Tra queste: Alfonsina Strada, che nel 1924 corse al Giro d’Italia insieme agli uomini conquistando, una volta per tutte, il diritto a stare in sella, le donne della Resistenza, che pedalando hanno compiuto azioni storiche e spesso eroiche, rivendicando un protagonismo politico, Antonella Bellutti, atleta olimpionica per cui la bici è stata professionismo eccellente e consapevole; fino ad arrivare a una storia esemplare dei giorni nostri: quella delle donne migranti che imparano ad andare in bicicletta grazie all’aiuto di associazioni come la FIAB e la Casa delle Donne Migranti di Modena.
Al centro della narrazione – o, meglio, delle narrazioni – non si trova quindi la vicenda della bicicletta come pratica sportiva, ma quella del suo utilizzo privato, flessibile, ed eminentemente solitario, persino filosofico: «Mentre vado in bici cerco l’equilibrio. Mi chiedo se e cosa ho sbagliato nella mia vita. Mi chiedo come posso vivere meglio quella che rimane. Mentre vado in bicicletta fatico, e se fatico per distrarmi penso, e pensando sono, e se sono mi posso perdonare. Mentre viaggio, viaggio dentro, fuori, insieme» – ha scritto una blogger di oggi, Mila Brollo.
La bici interessa alle donne perché è stata e resta un mezzo poco controllabile (e quindi sottilmente eversivo), è un prolungamento del corpo (e dunque potenzialmente scandaloso), è economico (e dunque per vocazione democratico). E perché, come ha scritto Marc Augé, «La bicicletta è mitica, epica ed utopica. Ci si può dedicare a lei solo stando ben attenti al presente, non fosse altro che per i rischi del traffico; eppure, anche, è al centro di racconti che richiamano in vita la storia individuale insieme ai miti condivisi dalla collettività; sono due forme di passato solidali, capaci di conferire un accento epico ai ricordi personali più modesti». Questa storia, grazie alle sollecitazioni dell’editrice bolognese Katia Brentani, nel novembre 2017 è diventata un libro che reca lo stesso titolo dello spettacolo E io pedalo. Donne che hanno voluto la bicicletta (Modena, Edizioni del Loggione, collana Agrodolce). Il saggio ripropone e amplia la prospettiva già adottata in teatro, tracciando una storia che va dai primi velocipedi dell’Ottocento fino alle nuove cittadine di oggi, che trovano nella bici una prima, concreta alleata per sottrarsi al controllo maschile, per raggiungere il luogo di lavoro, per affermare la possibilità di una mobilità autonoma, spesso per i propri figli, oltre che per sé.
La prima parte del libro è sostanzialmente di ricostruzione storica e si fonda sull’intreccio di fonti preesistenti, parte delle quali erano già state impiegate nella stesura della drammaturgia teatrale. Si parte dalla metà Ottocento, quando la bici conquista donne comuni, celebrità e femministe della prima ora, favorendo la semplificazione dell’abbigliamento femminile, mutando abitudini e costumi, diventando persino, in alcuni casi, un mezzo di sostentamento. Annie Londonderry, che nel 1894 intraprende per prima un giro del mondo sulle due ruote, parte in gonna ma arriva in pantaloni; si presenta in veste di semplice madre di famiglia e conclude il suo giro quando è ormai una giornalista affermata (che si firma, non a caso, “La Donna Nuova”); si mette in strada quasi senza un soldo in tasca e ritorna con denaro guadagnato con la sua attività. Così la mitica Alfonsina Strada, la già citata pioniera del Giro d’Italia del 1924, riesce a emanciparsi dall’estrema povertà dell’infanzia trasformando la sua passione in lavoro e abbattendo le barriere in un modo eminentemente maschile.
Un riflesso non secondario è poi quello che tutta questa vicenda ha sulla letteratura: a un estremo si trovano le Rime di Argia Sbolenfi (1897) di Lorenzo Stecchetti, alias Olindo Guerrini, in cui l’immaginaria ciclista e grafomane Argia è sostanzialmente la caricatura delle “scalmanate” che pretendevano di andarsene in giro in bicicletta (traendone, secondo alcuni, improbabili godimenti erotici); all’altro, l’angelica e quasi angelicata Grazia che Gozzano delinea ne Le due strade (1907). In fondo, si ripropone la solita dicotomia maschilista, se non altro perché per troppo tempo sono stati gli uomini a scrivere e a raccontare la storia. Ma a un certo punto le cose cominciano a cambiare: per le donne della Resistenza, la bicicletta diventa infatti simbolo indiscusso del loro ruolo attivo durante l’occupazione dell’ingresso nella sfera pubblica. Se è vero che su questo fronte le ricerche non mancano, sono le testimonianze (tra cui quelle inedite di Anna Zucchini e Bianca Vighi Baravelli) a staccare le parole dalle pagine dei libri di storia, rendendole di nuovo immagini vive, frementi. Un potere sempre più forte e più radicale ora che gli anni passano e i protagonisti di un’epoca ci lasciano.
Tra le possibili tappe di questo viaggio, va almeno attraversata l’epoca della nascita dello sport popolare, che nel secondo dopoguerra si pone il problema dell’inclusione delle donne, quando accesso alla pratica sportiva e alla dimensione pubblica si toccano in modo programmatico, in uno snodo ancora oggi irrisolto. Una trattazione a parte richiederebbero, difatti, il contesto di grande svantaggio economico e di discriminazione anche esplicita di cui sono ancora oggetto – in modo eclatante in Italia, ma non qui soltanto – le donne che tentano la strada dell’agonismo.
La seconda parte del libro, come già lo spettacolo aveva fatto in modo più sintetico, è dedicata alle testimonianze contemporanee: Margherita Ianelli, bracciante emiliana che grazie all’uso della bicicletta riesce a tornare a scuola dopo i cinquant’anni; le blogger Mila Brollo, Silvia Ronzoni e Linda Gottardi che affrontano grandi viaggi sulle due ruote per diffondere messaggi sociali; le migranti di oggi (già presenti nello spettacolo) che oggi scoprono nella bicicletta, con entusiasmo ma anche con timore, un’alleata decisiva per l’autodeterminazione e l’integrazione.
Il criterio che ha guidato la scelta delle storie è stato, in entrambi gli esiti, quello di selezionare temi e personaggi di grande potere esemplificativo tenendoli entro semplici confini temporali e geografici. Senza dunque nessuna pretesa di esaustività, si è quindi deciso di concentrarsi sul Novecento e su storie italiane – con qualche sconfinamento sia geografico che temporale – privilegiando per ragioni contingenti storie del nord Italia e in diversi casi emiliane. È qui, infatti, che è nato lo spettacolo che ha dato il via a tutto ed è qui che la bicicletta ha avuto ed ha la sua massima diffusione urbana.
Per affrontare tutti questi temi è stato necessario, come si diceva in principio, cercare la mediazione delle associazioni e delle organizzazioni specializzate: sedi territoriali di UDI, UISP, FIAB, Casa delle Donne Migranti di Modena, nonché ricorrere alla consulenza di singole figure competenti; una genesi comune all’esito performativo come a quello narrativo, identici anche nella loro aspirazione: proporre a spettatori non necessariamente già interessati alla storia della liberazione femminile esempi virtuosi di uscita dalla solitudine e dalla discriminazione di cui molte donne sono ancora oggi oggetto.
L’intrattenimento tipico dello spettacolo, dunque, viene soddisfatto ma superato e completato dall’informazione storica e, a sua volta, riempito di un messaggio politico: lo spazio pubblico si conquista anche fisicamente, invadendolo, calpestandolo, percorrendolo e raccontandolo. Per farlo può essere utile procurarsi – parafrasando il celeberrimo saggio di Virginia Woolf – una bici tutta per sé.