È in uscita per le edizioni del Mulino il libro Storia economica della felicità. Abbiamo intervistato l’autore, Emanuele Felice – in questo caso il nome è un presagio! – che è professore associato di Storia economica all’Università “Gabriele D’Annunzio” di Chieti-Pescara. L’intervista è a cura di Carlo De Maria.
Come è nata in te l’idea di scrivere un libro sulla storia della felicità?
L’idea è nata rileggendo alcuni autori dell’Illuminismo. Ad esempio, François-Jean de Castellux che nel XVIII secolo scrisse Considerazioni sopra la sorte dell’umanità nelle diverse epoche della storia moderna, che in effetti è il primo tentativo di tracciare una storia della felicità. Anche gli illuministi italiani hanno studiato la felicità come dimensione pubblica. E mi sono accorto che questi intellettuali avevano una visione della felicità umana che era in sostanza legata ai diritti dell’uomo. Una concezione diversa rispetto a quanto emerge, oggi, da studi condotti a livello internazionale dall’ONU, dove si predilige una interpretazione soggettiva della felicità essenzialmente rilevata attraverso sondaggi, in base alla quale paradossalmente alcuni Stati assoluti, in cui i diritti umani vengono violati, come Emirati Arabi e Uzbekistan, mostrano di avere i cittadini più felici.
Nelle mie ricerche da tempo mi occupo di Amartya Sen, dell’indice di sviluppo umano e degli altri indicatori alternativi al Prodotto interno lordo (PIL). In ambito internazionale, negli ultimi decenni due alternative al PIL si sono affermate, almeno in parte: l’approccio dello sviluppo umano e delle capabilities di Sen e Nussbaum e l’approccio dell’utilitarismo basato invece sui sondaggi, su domande del tipo “Quanto ti senti felice?” (che Sen critica perché i suoi risultati sono inevitabilmente frutto di condizionamento mentale).
L’approccio delle capabilities di Sen e Nussbaum (o delle libertà reali di van Parijs) è molto in linea con la visione che avevano gli illuministi (non tutti), fondata sui diritti umani e, in particolare, sul diritto a ricercare la felicità (“the pursuit of happiness”) sancito nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti. In aggiunta, l’Illuminismo ha anche valenza nella storia economica mondiale, dal momento che costituisce la base ideale da cui poi prenderà slancio la rivoluzione industriale. Da queste premesse, sorgeva l’esigenza, e l’utilità, di scrivere una storia economica della felicità che fosse diversa dalla vulgata oggi prevalente.
Alla luce dello studio che hai condotto, è possibile rispondere alla domanda: qual è la natura della felicità?
La felicità è fortemente condizionata dall’idea che gli esseri umani si fanno su di essa. Cambia, dunque, nel corso della storia. Però è sicuramente legata a un aspetto, che è il senso della vita. Ovviamente quale sia il senso della vita è una risposta mutevole. Oggi, il senso della vita e, dunque, la nostra visione della felicità si orientano generalmente in due modi: cercare di soddisfare quanti più desideri possibili di arricchimento e godimento, oppure avere una visione che contemperi benessere materiale, libertà (soprattutto libertà da e, dunque, diritti umani), possibilità di realizzarsi (capabilities) e relazioni umane.
Un bivio, questo, che comincia a delinearsi, grosso modo, con l’Illuminismo, quando si superano le visioni precedenti della felicità, proprie del mondo preindustriale e agricolo. Anche in questo caso possiamo individuare due grandi modelli, entrambi influenzati da un contesto nel quale il progresso scientifico non era ancora contemplato: una felicità ultraterrena – “la felicità non è di questo mondo” – tipica delle grandi religioni monoteiste nella parte occidentale dell’Eurasia, e una felicità ascetica, soprattutto di impronta buddista, ma presente anche nel mondo romano (pensiamo ai cinici, agli epicurei, per certi versi agli stoici), che invece porta ad affermare che la felicità si ottiene limitando i desideri. In altre parole, la felicità si può avere anche su questa terra, a patto però di limitare i desideri. Isaiah Berlin, criticando questa visione, affermava ironicamente che, a forza di ridurre i desideri, “alla fine la persona più felice è quella morta…”. Si trattava, in ogni modo, di una visione terrena della felicità, ma ancora prettamente individuale e non orientata alla trasformazione del mondo.
Gli stoici articolarono una posizione in parte diversa, legando sì la felicità all’atarassia però insistendo anche sull’importanza di un principio attivo, il logos, e cioè il connettersi con la ragione universale, alludendo in questo modo a una possibile trasformazione del mondo. La cultura stoica, tuttavia, non riuscì a trasformare il mondo romano perché non contemplava la conoscenza pratica, il progresso tecnologico.
Il lungo processo che parte dall’Europa medievale, si accelera con la Riforma e culmina nella rivoluzione scientifica e nell’Illuminismo, cambia radicalmente la visione della felicità. Si crea un nuovo paradigma che insiste sulla conoscenza utile: la conoscenza, cioè, deve essere orientata al cambiamento, al progresso. Questo porta all’idea che la felicità sia possibile su questa terra, e per tutti, attraverso la trasformazione delle istituzioni e la crescita economica. Alla conoscenza utile si lega anche l’uguaglianza formale tra le persone. L’idea che tutti abbiano il diritto a ricercare la propria felicità.
L’Illuminismo rappresenta, dunque, un cambiamento di paradigma che si associa alla Rivoluzione industriale. Cesura che porta alle due visioni odierne della felicità: quella improntata all’edonismo e quella che cerca di conciliare il piacere con l’etica, e quindi con i diritti umani. Naturalmente resistono anche le visioni preesistenti della felicità, quella ultraterrena e quella ascetica, che si confrontano faticosamente con le visioni odierne.
Arrivando agli anni Duemila, intravedi nel tempo presente una “curvatura” peculiare dell’idea di felicità?
C’è il rischio di una distopia della felicità, cioè il rischio che la felicità diventi non più un diritto, ma quasi un dovere. Questo avviene, ad esempio, in certe aziende, multinazionali e non solo, che obbligano di fatto i loro dipendenti a mostrarsi sorridenti verso i clienti (e ne controllano puntualmente l’atteggiamento). Oppure, in una monarchia assoluta come gli Emirati Arabi Uniti, dove è stato creato un ministero per l’happiness, la felicità. Un modello di felicità imposto, dove manca la dimensione genuina delle relazioni umane.
Un altro rischio incombente è quello di una felicità sintetica e artificiale, unicamente legata ai sensi, raggiungibile attraverso farmaci o droghe a buon mercato e facilmente disponibili (anche nei paesi meno sviluppati): un dollaro al giorno, una pilloletta, la prendi e sei felice… Manca però il senso della vita.
Contro questo modello distopico – anticipato da alcuni capolavori della fantascienza, come Brave New World (1932) di Aldous Huxley – rimane l’altra strada, che è quella che si rintraccia appunto ripercorrendo la storia degli ultimi secoli, nei quali alla crescita economica, alla crescita delle nostre disponibilità materiali, si è accompagnato anche un miglioramento etico, dei diritti e delle libertà. Questo collegamento (tra crescita economica e progresso etico) non è scontato, come ci mostra proprio la storia del Novecento con il nazismo e lo stalinismo, ma è comunque una partita aperta, che vale la pena di giocare. Si tratta di una partita individuale e collettiva, allo stesso tempo.