In un film spagnolo del 1969, commedia dal significativo titolo di Una vez al año ser hippy no hace daño che voleva trattare nella maniera più innocua e frivola possibile le tendenze culturali giovanili di quegli anni, in mezzo a gruppi di capelloni e colorate minigonne compariva un personaggio dall’aspetto sgradevole e meschino, immancabilmente vestito di nero, che tentava infruttuosamente di adescare la giovane ed emancipata protagonista. Il pallido soggetto dalla mano morta, interpretato da un attore comico piuttosto noto ai cabaret televisivi di allora, presentava una caratteristica che ne sanciva l’efficacia di macchietta: farfugliava uno spagnolo dal forte accento catalano, con qualche parola catalana qua e là a condire il tutto. Di fronte agli aitanti e allegri protagonisti, il «catalano» da commedia non poteva, evidentemente, essere rappresentato in altra maniera: fuori moda, viscido, infido, ovviamente avaro, facilmente messo fuori combattimento dai più spartani e brillanti madrileni, mentre la controcultura giovanile era in verità ben lungi dal penetrare le spesse mura della arretrata (economicamente, politicamente) Spagna franchista degli anni Sessanta. Mentre il rock e l’Lsd travolgevano le vite di una generazione, e le piazze del mondo si riempivano di parole nuove e di nuove lotte, in Spagna i vinili passavano al vaglio immancabile della censura, con titoli modificati e copertine meticolosamente espunte da ogni segnale politico o erotico, la Paramount pagava l’aver prodotto Per chi suona la campana? con un embargo su tutta la produzione, la televisione trasmetteva vecchi film come Casablanca con un doppiaggio che ne ometteva ogni riferimento alla Guerra civile spagnola e al fascismo in Europa. Erano, insomma, altri tempi, quando era proibito l’uso della lingua catalana in pubblico, e le democrazie europee si trovavano in un universo lontanissimo; eppure gli stereotipi sanno scavalcare le grandi trasformazioni, si cuciono addosso adeguandosi ai cambiamenti, pronti per essere sfoderati quando altri riferimenti che sembravano ben più solidi si trovano a decadere.
Se il catalano è «altro», e lo stereotipo (in molti aspetti pericolosamente allineato, lo si noti, con quello dell’«ebreo», altrettanto avaro e subdolo) viene restituito dall’immaginario televisivo e cinematografico in maniera così definita, di tale alterità devono rispondere necessariamente le dinamiche politiche e sociali, s’insinua tra le pieghe del dibattito pubblico una lotta non dichiarata tra immagini contrapposte, tanto più confuse con gli argomenti politici quanto più giustificate, difese. Comprendere la forza di questo immaginario, la capacità che hanno alcuni modelli di attecchire e sedimentarsi nel discorso pubblico, può forse servire a orientarsi meglio nel mezzo del conflitto accelerato e inappellabile che ha preso il sopravvento negli ultimi mesi e che ha colto (quasi) di sorpresa buona parte dell’opinione pubblica europea. Oltre ai percorsi politici, al di là e al di sotto di essi, vive e vien coltivato un universo di simboli più o meno efficaci, trasmessi, rivendicati, che sopravvivono anche in tempi di democrazia parlamentare, anche ora che il catalano è la lingua ufficiale della Catalogna e la Guerra civile fa parte dei libri di storia, ora che l’autonomia regionale appare, agli occhi di ogni altro regionalismo europeo, del tutto ampia e garantita.
1. Stereotipi e rappresentazioni di un conflitto
L’immagine del “tipico” catalano noioso e pallido, attaccato avidamente al denaro (la regione ricca, produttiva, imprenditoriale, produce talvolta questi spauracchi) è andata sovrapponendosi a un’altra, del tutto opposta, ereditata fin dai tempi degli attentati dinamitardi d’inizio Novecento, quando Barcellona venne definita dai giornalisti la ciutat de les bombes: il catalano come sinonimo di ribelle, violento, pericoloso per l’ordine costituito, poco raccomandabile. La memoria di Barcellona come centro dell’anarchismo, territorio di formazione del primo sindacato anarchico (la CNT) nonché città che proclamò nel 1936 la rivoluzione proletaria, non poteva non fare parte della rappresentazione e dell’autorappresentazione dei catalani. La regione si è riappropriata positivamente del vecchio mito e ha raccontato se stessa come ribelle, fieramente indocile, oppressa da un potere oscurantista e retrogrado, proiettata verso l’esterno e fiduciosa nel progresso quanto il potere repressivo era rinserrato e conservatore, orgogliosamente repubblicana contro un potere monarchico e verticista, moderna e internazionalista contro il caciquismo di una Spagna eternamente fuori dal tempo. Così che per estensione è scivolato dentro questa rappresentazione contrapposta tutto l’immaginario legato alla leyenda negra spagnola, quel mito negativo ben radicato nell’Europa liberale d’inizio Novecento che identificava nella Spagna l’oscurantismo e il regresso civile, vedendovi una terra torbida e primitiva, di superstizioni e di autodafé, di corride e di Santa Inquisizione, in tutto opposta al positivismo illuminista e laico delle democrazie parlamentari europee. La memoria catalana ha ripreso tutte queste immagini proiettandole nell’«altro», nella Spagna in cui non si riconosceva, le ha di fatto legittimate trasferendole sul potere nazionale, lontano, esterno, ostile. Si aggiunge a questo lo strappo violento della Guerra civile, ferita che ha lacerato la memoria comune degli spagnoli lasciando spaccature insanabili (nelle città, nelle campagne, il conflitto di memorie è tuttora irrisolto, dolente, non condiviso) e che all’interno di questa rappresentazione si trova a essere semplificata, geograficamente appiattita: poiché la Catalogna vanta una tenace e prolungata resistenza all’avanzata franchista, ecco che laddove si collocano la corrida e il flamenco, in quel congiunto confuso che mette insieme i gitani con i gesuiti – là dove si trova la Spagna lontana e oscura – sono andati a insediarsi anche Francisco Franco e la Falange, il fascismo, la dittatura. Quella stessa dittatura che non permetteva l’uso del catalano e che vedeva nella Catalogna un territorio da reprimere e controllare. Il cerchio, in questa dinamica di contrasti, non può che chiudersi felicemente, peccato se tale linearità potrebbe essere interrotta dal ricordo delle barricate di Madrid (la capitale fu l’ultima città a cadere alle milizie di Franco), delle rivolte asturiane, delle mobilitazioni contadine in Andalusia: complessità che frammentano ma non mettono in discussione l’idea che il potere contro cui scontrarsi provenga di fatto da un’altra terra.
Se di questo immaginario si è nutrita soprattutto la memoria di sinistra, sia quella radicale che quella più istituzionale, si tratta ugualmente di un bagaglio di episodi che va a confermare e a rinsaldare il racconto comune di una Catalogna oppressa e in perenne conflitto con la penisola iberica. Un racconto che inizia tra le glorie del Principato di Catalogna e che ha una sua data tragica, la sua ferita fondativa, quella dell’11 settembre 1714, giorno in cui Barcellona cadde in mano alle truppe borboniche di Filippo V, durante la Guerra di successione spagnola. Le sconfitte sono fondamentali per formare l’identità, e la Catalogna ne ha una di cui fare blasone: l’11 settembre è festa nazionale, ogni anno il termometro delle aspirazioni indipendentiste si misura nelle strade di quel giorno (la Diada Nacional de Catalunya, la “giornata” nazionale), solcato da manifestazioni imponenti e adornato in ogni dove di bandiere. Un rimpianto, una speranza, di fatto una data di nascita della Catalogna moderna che racconta sé stessa come intrappolata in una identità imposta. Quando il governo di Madrid ha mandato la Guardia Civil a reprimere il referendum autogestito del 1° ottobre 2017, non si è trattato per i catalani di una sorpresa ma tuttalpiù di una inevitabile conferma.
2. Barcellona, “Babilonia” di culture1
Sono arrivata, come molti, a Barcellona poco più di dieci anni fa. Come molti lasciavo un’Italia che sembrava deludente e senza prospettive per approdare in una città che appariva interessante e aperta, fertile di novità. Al di là dei percorsi personali (ognuno ha le sue ragioni, le sue scelte) Barcellona è stata ed è tuttora una delle mete privilegiate dell’emigrazione italiana all’estero, e la comunità italiana si attesta da anni come la più numerosa della città. Il mio arrivo ha coinciso con quello di una generazione in cerca di futuro, quei nuovi migranti italiani sfuggiti anche alle analisi sociali e politiche del proprio paese: in gran parte laureati, tra i venti e i trent’anni, facili al movimento, in cerca di spazi dove portare i propri progetti ma anche di una diversa qualità della vita. La maggior parte di loro non fa ritorno, popola le città d’Europa, dalle università ai locali notturni, dai ristoranti agli studi tecnici, in contatto con un mondo che dall’Italia non sembra aver voglia di affacciarsi. Come molte altre capitali europee, Barcellona è affollatissima di italiani, e l’italiano è una delle lingue che più si sente parlare per le strade. Insieme a molte altre: per chi viene dalla provincia (è il mio caso) l’immagine che più colpisce all’arrivo a Barcellona è senz’altro la mescolanza brulicante di lingue, volti, abbigliamenti diversi, di recente e antica emigrazione, che affollano le strade e i locali. Una città complessa con le sue contraddizioni e stratificazioni sociali, con le sue tensioni e conflitti, ma indubbiamente un luogo dove convivono ed entrano in contatto molteplici provenienze, culture e linguaggi, e questa è senz’altro una delle sue principali ricchezze.
La Barcellona Babilonia, internazionale, multiforme, disordinata, punto d’incontro tra il Sud America e l’Europa, bacino di lingue mediterranee, sembra viaggiare su altre lunghezze d’onda rispetto all’uniformità della proposta indipendentista, alla volontà di creazione di un nuovo Stato (nuovi confini, autorità, documenti) di cui dovrebbe essere la capitale. In verità, la maggior parte di noi stranieri che abbiamo fatto parte della vita culturale e sociale della città, abbindolati forse dal crocicchio di identità variabili che per noi rappresentava, ci siamo trovati a ignorare, o ad allontanare con un po’ di fastidio, il discorso catalanista, annoverato tuttalpiù tra i tanti che formano il coro della polifonia cittadina. Subìta dall’alto come necessità istituzionale, aggregata agli inevitabili argomenti di conversazione con gli autoctoni, la «questione catalana» gode però di una forza simbolica estremamente efficace e radicata di cui non abbiamo misurato il potenziale, esplosa in maniera dirompente quando ha avuto occasione di trovare spazio nella crisi del sistema politico.
L’imponente bagaglio di ritualità e tradizioni peculiari, che formano parte intrinseca dell’identità e del fascino della Catalogna, è diventato così strumento per la definizione dei confini, un fattore dirimente per identificare il territorio, che ha portato a ignorare le appartenenze culturali più estese e meno tracciabili. Una Comunidad Autónoma che gode di un proprio Parlamento, di un proprio corpo di polizia (i Mossos d’Esquadra), economicamente prospera, con una capitale che è meta di emigrazione da tutto il mondo e del turismo di massa (origine e causa di speculazioni edilizie feroci che l’attuale amministrazione cittadina sta tentando di controllare), e che vede riconosciuta la propria lingua come ufficiale, possiede di fatto pochi argomenti politici e strettamente pratici per giustificare un reale strappo istituzionale verso l’indipendenza. Prova ne è il fatto che le forze in campo nella crisi indipendentista hanno del tutto evitato di porre la questione valutando vantaggi e svantaggi concreti, di prospettare miglioramenti in termini economici e sociali2. Eppure la parola indipendenza, tanto a lungo battuta, ha trovato le condizioni favorevoli per attecchire e una cittadinanza che ne ha riconosciuto subito i termini e le ragioni. Da argomento di dibattito, da voce nel coro della pluralità cittadina, è diventata il sogno di una vita, l’occasione di riscatto, il futuro tanto atteso sbocciato all’improvviso.
La molteplicità culturale che caratterizza la città è parsa a un tratto appiattita, priva di argomenti. Chi non ha abbracciato e conosciuto da vicino la causa, è rimasto in silenzio e in attesa: la voce opposta, che si è fatta sentire in seconda battuta, è stata quella del nazionalismo spagnolo, spalleggiato ai lati dall’estrema destra, una bandiera contro un’altra che ha tolto lo spazio a ogni complessità.
Il territorio identitario proposto dalla battaglia indipendentista non è infatti strettamente geografico, ma culturale, e da questo territorio la pluralità che fa parte della vita di Barcellona è del tutto esclusa. Un territorio formatosi negli anni e che ha visto coincidere, passaggio dopo passaggio, la memoria della Guerra civile con quella della Guerra di successione, il racconto delle glorie passate con la critica alle politiche governative del presente, le tradizioni culturali con i confini regionali. E il principale veicolo di questo territorio è stato l’uso della lingua, passato nel giro di una generazione da proibito e casalingo a istituzionale e di massa.
3. Il catalano, territorio d’appartenenza
Una lingua parlata da pochi milioni di persone, in un mondo globalizzato e interconnesso, ha bisogno di difendersi per non essere travolta. Posta nell’intercapedine tra il francese e lo spagnolo, il catalano ha cercato di imporsi nuovamente come lingua d’uso negli anni Settanta, sfidando gli strascichi dell’ingiunzione franchista e le minacce della modernità. È entrato così nelle scuole, nella vita pubblica, nella produzione culturale. Ha ripreso il filo lasciato in sospeso della propria tradizione letteraria. A distanza di cinquant’anni non si può dire che la battaglia non sia stata vinta: il catalano è parlato e scritto a tutti i livelli, da quello colloquiale a quello scientifico e istituzionale. La toponomastica è esclusivamente in catalano, sono scritte in catalano le insegne e le indicazioni stradali, affiancate sotto dallo spagnolo e, spesso, anche dall’inglese. La vita pubblica e politica ha di fatto una lingua sola, impossibile pensare di entrare a farne parte senza possedere un livello di madrelingua. Il socialista José Montilla y Aguilera, presidente della Generalitat dal 2006 al 2010, era di origine andalusa benché del tutto naturalizzato, ma il suo catalano con accento del sud risultava molto singolare e i suoi errori e inciampi linguistici erano, ovviamente, oggetto di caricatura da parte della satira. Il bilinguismo non è pensabile negli esercizi pubblici, nei comizi, nei discorsi ufficiali: lo spagnolo, il castellano, è diventata la lingua di comunicazione con i non catalani, una traduzione che viene fatta se le condizioni lo impongono.
È naturale che una lingua prevalga sull’altra, e lo sforzo di rendere il catalano la sola lingua della Catalogna è stato ripagato: resta il fatto che chi arriva da fuori, soprattutto coloro che provengono da paesi di madrelingua spagnola (tutta l’emigrazione del Centro e del Sud America, quindi) trova un ostacolo imprevisto nella relazione con la vita pubblica, vissuto talvolta come uno strumento di discriminazione. Per poter lavorare in un esercizio commerciale è obbligatorio che almeno uno dei dipendenti conosca il catalano, e la regola, forse di dubbia efficacia, è percepita come un limite imposto allo straniero. Nelle scuole la lingua d’uso è il catalano, e l’insegnamento dello spagnolo è considerato quasi alla stregua di una materia a parte. Chi lavora con i bambini e non parla il catalano in maniera fluente può trovare molte difficoltà, perché in particolare l’infanzia sembra dover essere protetta dalla “confusione” del bilinguismo. Questo percorso ha reso più frequente la scelta di considerare l’inglese come lingua veicolare da insegnare nelle scuole e nei campi estivi, a scapito dello spagnolo, con risultati piuttosto grotteschi. La ricchezza della doppia lingua ne esce così del tutto castrata, prerogativa e privilegio dei figli degli immigrati e dei loro amici. Considerata e promossa come strumento di integrazione e coesione, l’obbligatorietà del catalano si trasforma facilmente in tirannia, passaggio troppo stretto per accedere alla vita lavorativa, culturale e pubblica. La lingua diventa strumento di separazione, timone per definire l’appartenenza, per distinguere alleanze e ostilità.
Se coloro che hanno visto la fine della dittatura franchista hanno promosso l’uso del catalano con la convinzione di preservare e valorizzare una ricchezza culturale, la generazione successiva ha vissuto la questione linguistica con molta maggiore conflittualità. L’indipendentismo presenta spesso una manifesta ostilità verso l’utilizzo dello spagnolo come lingua di comunicazione, considerato un vero e proprio avversario a cui contendere la parola. Tra catalani e non, la maggior parte delle conversazioni è naturalmente bilingue, si passa facilmente da un uso all’altro a seconda delle conoscenze e necessità del dialogo, eppure c’è chi dichiara esplicitamente di provare fastidio nell’esprimersi in spagnolo e di preferire a questo ogni altra lingua europea. Sto parlando di una generazione di persone benestanti e colte, che viaggiano e conoscono bene le lingue straniere, che si relazionano frequentemente con appartenenze diverse dalla propria. Il problema è dunque solo politico, poiché lo spagnolo (una lingua parlata da un terzo della popolazione mondiale, oltre che dal resto della Spagna) viene identificato con l’ostile e perennemente nemico governo di Madrid. Ci sono state campagne contro l’uso dello spagnolo nei cartelloni pubblicitari, proteste per affermare l’esclusività del catalano nelle università. Il direttore dell’Universitat Pompeu Fabra fu tacciato dagli studenti come enemic del poble català perché aveva rimosso la norma che imponeva il livello C di catalano per i docenti universitari, scelta votata a dare all’Università un respiro più internazionale e a non limitare la collaborazione con le università sudamericane. «Scrivi, parla, pensa in catalano!», recitava uno dei cartelli di protesta posti dagli studenti nell’atrio del campus. A questa inquietante presa di posizione studentesca corrispondono alcune politiche universitarie che portano il segno ambiguo dell’affermazione nazionale, come la presenza di esami obbligatori sulla storia e cultura catalana nelle facoltà umanistiche, o la promozione di borse di studio per tesi in catalano, sorte probabilmente per favorire un uso scritto della lingua che oramai è del tutto naturale per chi è nato in Catalogna e altrettanto ostico e impraticabile per chi viene da fuori.
La maggior parte degli stranieri pertanto, soprattutto quelli meno scolarizzati, fatica a integrarsi in questo predomino del catalano vissuto perlopiù come una imposizione. Ci sono corsi gratuiti, promossi dalle amministrazioni, per favorire il primo approccio alla lingua, che non è studiata né conosciuta (e questo è un vero cruccio!) al di fuori della Catalogna. Sono però corsi che non distinguono né la provenienza linguistica né la scolarizzazione degli iscritti, così che in una stessa classe si possono trovare europei di madrelingua latina insieme ad asiatici e anglofoni, laureati insieme a semianalfabeti: ovvio che l’insegnamento è solo superficiale e non va oltre la conoscenza delle frasi di circostanza. Lo studio e la pratica reale della lingua richiede uno sforzo maggiore che molti, soprattutto i meno acculturati, o coloro che non intendono fermarsi a lungo, non sono in grado di fare. Si tengono lo spagnolo (che per molti è la lingua materna) come mezzo di comunicazione, che sottilmente si trasforma in barriera divisoria ulteriore nella relazione con gli autoctoni.
Nell’accelerata tensione che ha solcato quest’anno 2017, uno degli argomenti di conflitto nei confronti del governo di Madrid è stata la decisione di tagliare i fondi destinati alla promozione della lingua catalana. Non uno dei numerosi tagli alla cultura che tutti purtroppo abbiamo dovuto subire nell’Europa della crisi economica, ma una provocazione intollerabile, un attacco all’identità e alla sopravvivenza della Catalogna, una dichiarazione di guerra.
4. Dalla politica alla nazione. La vittoria dell’immaginario
Gli stereotipi e i simboli sono difficili da definire, appena si prova a descriverli perdono consistenza, sfuggono dalle mani. La loro forza è garantita proprio dalla mancata definizione: fanno parte di tutti i discorsi, senza che vi sia mai bisogno di nominarli. Ho proposto qui solo alcune immagini, osservazioni dirette, per aggiungere qualche riflessione alle analisi più argomentate proposte dalla stampa internazionale di fronte alla crisi catalana. Nell’avanzare degli ultimi mesi, i punti di mediazione e ragionevolezza si sono ritrovati a decadere, i simboli ad allinearsi tra loro all’unisono. La complessità dei rapporti politici e delle strutture sociali ha lasciato spazio alla linearità efficace dell’immaginario, che ha trovato il modo di prorompere e di trascinare con sé una parte importante della popolazione.
Quando nel maggio del 2011 Plaza Catalunya fu occupata dalla acampada (il movimento definito degli Indignados, che destò un certo interesse nell’opinione pubblica europea) la questione dell’indipendenza catalana sembrava passata del tutto in secondo piano. Le realtà che in quella piazza si sono ritrovate a discutere non parevano troppo interessate a sventolare la bandiera, la cui presenza era minoritaria, soppiantata da altre appartenenze e rivendicazioni. Nello stesso momento, una analoga occupazione di suolo pubblico si costruiva nella piazza principale di Madrid e in molti altri centri della Spagna, la conflittualità sociale e la critica al sistema economico si poneva su linee di convergenza e solidarietà del tutto trasversali rispetto alle autonomie regionali. Il contraccolpo della crisi economica e delle politiche di austerità, che avevano comportato pesanti tagli all’istruzione e alla sanità, si faceva sentire in tutto il paese, soprattutto nelle due città principali, dove il movimento era unito in una protesta condivisa. L’11 settembre del 2012, solo un anno e mezzo dopo, per le strade di Barcellona una manifestazione imponente celebrava la Diada vedendo marciare sotto l’egida della bandiera l’allora presidente Artur Mas (destra moderata catalanista), i partiti dell’indipendentismo radicale, insieme agli anarchici e a una parte dei movimenti cittadini. L’attenzione posta sui tagli economici e sulla crisi sociale riuscì in poco tempo a essere catalizzata verso il tema dell’indipendenza, le bandiere tornarono ad arredare i balconi della città, la squadra del Barça scelse le strisce rosso gialle come colori per la seconda maglia. Le scelte politiche del governo di Madrid furono indicate come sole responsabili della crisi, il mito dell’indipendenza tornò a splendere come soluzione dei problemi, panacea universale.
Di fronte al decadere delle appartenenze politiche, di fronte alla crisi dei partiti che ha caratterizzato la storia d’Europa degli ultimi anni, l’indipendenza si è dimostrata un elemento di coesione, un rifugio ideale, capace di riunire forze diverse. Le elezioni catalane del 2015 hanno rimosso l’ultimo ostacolo dell’identità politica: nella difficoltà di stabilire un vincitore, in quella medesima ambiguità che abbiamo riscontrato in ciascuna delle elezioni europee degli ultimi anni, l’indipendentismo si è rivelato l’unico elemento di forza, l’unico argomento comune. Si sono uniti nel nuovo governo partiti provenienti dalla destra moderata e dalla sinistra radicale, che non avevano altri fattori di condivisione se non quello dell’indipendentismo. E a quello si sono dedicati.
In questa lotta tra stereotipi contrapposti, il governo di Madrid ha fatto appieno la parte che gli spettava. Fin da quando ha iniziato ad agitarsi lo spettro del referendum la chiusura, come sappiamo, è stata totale, e ha tagliato le gambe a ogni tentativo di mediazione. Nell’ordinare gli arresti il 20 settembre 2017, e ancor più platealmente nell’inviare la Guardia Civil (la polizia nazionale, perché di quella catalana non c’era da fidarsi) a reprimere il referendum, il governo di Rajoy ha dimostrato quanto l’immagine di una Catalogna ribelle da reprimere e controllare sia ancora radicata nella destra spagnola. Ha mandato le armi laddove non ci si aspettava altro, ha mostrato di non avere nessun rispetto per le istituzioni catalane ma soprattutto di considerare quel territorio qualcosa di altro da sé, non parte integrante del proprio paese ma una minaccia esterna da arginare. E qui è venuto a cadere un altro tassello, quello della conflittualità sociale interna: in Catalogna hanno visto arrivare le divise della Guardia Civil, simbolo ineguagliabile della repressione franchista, e ogni immagine di violenza istituzionale è stata trasferita su di loro. I Mossos d’Esquadra, spogliatisi della divisa antisommossa, hanno fatto la parte dei difensori della democrazia e del confronto civile, ed è sorprendente come la rappresentazione pubblica degli eventi abbia adottato interamente questa interpretazione. Il ministro degli Interni catalano, la sera del 1° ottobre 2017, ha detto alla televisione che «violenze del genere non si vedevano da cinquant’anni» (ovvero, dai tempi della dittatura), eppure gli abitanti di Barcellona dovrebbero avere memoria dei conflitti violenti che hanno solcato le strade della città negli ultimi anni. I Mossos hanno represso brutalmente manifestazioni e scioperi, hanno usato indiscriminatamente l’arma del fucile a palle di gomma (provocando numerose mutilazioni, fino a quando un forte movimento di protesta non è riuscito a ottenere la soppressione dell’arma), hanno sgomberato con mezzi discutibili l’acampada del maggio 2011. Queste violenze sembrano al momento dimenticate, rimosse, mentre lo stesso comandante si è eretto a paladino della libertà, guadagnando il plauso e la solidarietà della cittadinanza. Ancora una volta i simboli si sono allineati, la violenza e la repressione sono stati collocati fuori, la complessità delle dinamiche sociali e politiche si è appiattita sotto l’egida della bandiera. Una voce come quella di Podemos e di Barcelona en Comù, di cui fa parte la sindaca di Barcellona Ada Colau, non ha potuto far altro che denunciare le violenze della Guardia Civil, costretta a prendere posizione in un conflitto territoriale che non fa parte del suo orizzonte.
Attendiamo tutti con il fiato sospeso i prossimi sviluppi, consapevoli che la ferita prodotta in questi mesi difficilmente potrà sanarsi. In una realtà connessa e globale, il tema antico dell’indipendenza sembra avere ancora successo, presentarsi come soluzione felice alla crisi dei sistemi complessi. Il bisogno di individuare un cammino e una battaglia comune, nella confusione del presente e nelle ambiguità del futuro, risulta una molla potente per veicolare le tensioni sociali e rifondare le appartenenze. L’Europa, nel frattempo, è rimasta assente, in silenzio, incapace di proporre soluzioni. Forse la Spagna è ancora, agli occhi delle democrazie del nord, quella terra arretrata e torbida che si figuravano nel XIX secolo. Un’altra Europa è però presente e vigile, quella che popola le strade di Barcellona e di molte altre città, che si muove con la carta d’identità in tasca e che in fretta sa fare le valigie, che costruisce relazioni di amicizia, di lavoro e di studio in una rete che scavalca ogni giorno i confini nazionali e le lingue d’uso. È forse l’unica Europa in cui possiamo aver fiducia. Contiamo su di lei.
Note
1 Per una riflessione sulla particolarità di Barcellona, definita precisamente “Babilonia”, rispetto alla più uniformata Catalogna, rimando all’analisi di Steven Forti, Barcellona o Babilonia? Una città stato multiculturale che sfugge ai sovranisti, “Limes”, 2017, n. 10.
2 A proposito della situazione economica e degli interrogativi non chiariti del progetto indipendentista: Emanuele Felice, Catalogna, i conti sbagliati dell’indipendenza, “Repubblica”, 30 settembre 2017.