“Oriele e la fabbrica del tabacco”. La storia corale delle “paltadore” modenesi

Dalla storia al romanzo

«Lo storyteller professionista trasforma il racconto in consumo», ammoniva l’antropologo Pietro Clemente in un articolo di alcuni anni fa: «non è destino che sia così; forse può non farlo». Ma come evitarlo nello spettacolo, in cui l’ambiguità e un certo grado di manipolazione sono strutturali? Non ci sono altri metodi se non affrontare il rischio e attraversarlo, problematizzando, ascoltando, dando voce, dignità e complessità ai testimoni; allora la narrazione non sarà solo temporanea manipolazione emotiva ma attivazione di una memoria storica, collettiva e individuale. In assenza di testimonianze dirette, o a complemento di queste, si deve poi proficuamente dialogare con i documenti, con l’eredità presente, con i luoghi e, infine, con il pubblico.

È quanto è accaduto con uno spettacolo che ha debuttato lo scorso primo maggio – per ora in data unica – al Teatro Comunale di Modena “Luciano Pavarotti”: Oriele e la fabbrica del tabacco. Non uno spettacolo di cartellone e neppure un “evento”, ma un vero e proprio percorso collettivo, nato da tavoli di confronto e coronato sulle tavole del palcoscenico, che ha coinvolto un’ampia comunità di operatori culturali (associazioni, fondazioni, assessorato, sindacati), risvegliando una parte importante della storia cittadina e portando l’attenzione sul tema del lavoro delle donne, ieri e oggi.

Tutto ha inizio con il romanzo di Elena Bellei, Oriele e la fabbrica del tabacco, appunto, pubblicato dalla casa editrice digitale Il Dondolo. «La voglia di scrivere una storia sulle operaie del tabacco nasce da un vuoto, da una mancanza», spiega l’autrice. «La Manifattura a Modena ha suscitato sempre molto interesse dal punto di vista architettonico e urbanistico ma ci siamo dimenticati di chi l’ha abitata. Rischiavamo di perdere per strada un pezzo importante della storia delle donne. Il punto di partenza è stato il libro di una storica, Paola Nava, pubblicato una trentina di anni fa: La fabbrica dell’emancipazione. La sua ricerca, dettagliatissima, con un taglio sociologico e femminista, riportava anche una trentina di interviste a sigaraie che oggi non ci sono più. Quelle mi hanno suggerito un contesto storico circoscritto e lo stile da tenere scrivendo. Ho aggiunto altre interviste ai figli delle operaie, la ricerca all’Archivio di Stato, dove ancora si conservano i registri delle punizioni e le cartelle personali delle operaie, ho consultato i giornali dell’epoca e le delibere comunali all’Archivio del Comune di Modena, poi ho lavorato di fantasia. A quel punto le immagini in bianco e nero dell’Archivio di Fondazione Fotografia sono state preziose, era come se finalmente le conoscessi una a una».

Ambientata in gran parte durante il Ventennio fascista, la narrazione ha per protagonista un’operaia della Regia Manifattura Tabacchi di Modena, luogo di lavoro duro ma ambitissimo, dove si entrava solo col certificato di miseria e la raccomandazione di un qualche notabile della città. Oriele e le sue compagne Teresa, Argìa, Bruna, vengono dalla campagna; entrate in fabbrica, sperimentano le fatiche di un impiego estenuante, le lunghe ore in un ambiente tossico, trattamenti spesso punitivi e ritorsioni contro ogni ribellione o idea politica; ma emerge anche l’orgoglio di essere donne salariate, in grado di mantenere la famiglia e magari di comprarsi – ambito traguardo – un paltò nuovo («Io l’avevo davanti agli occhi giorno e sera. Blu. Con i rever larghi e una cintura in vita», racconta Oriele). Stupendo coprotagonista è il dottor Rolando Silvestri: medico borghese, pioniere della pediatria e della puericultura, animato da una fiducia incrollabile nella scienza, dedica tutte le sue energie a ottenere migliori condizioni per le lavoratrici e i loro figli – colpiti da malattie professionali legate alla tossicità dell’ambiente –, ma deciso anche a diffondere un’educazione della cura, della salute, dei diritti. «Un tipo strano», si dice di lui, «fa gli esperimenti coi topi per studiare gli aborti». «È socialista? – questo non lo so, certo infarcisce i discorsi con toni profetici». E il germe del socialismo, la rabbia per le ingiustizie, la parola “diritti”, nuova e proibita, ribollono ed emergono tra le vicende quotidiane delle operaie come un’inquietudine, via via che tra le donne comincia a sorgere una coscienza di classe, acerba ma agguerrita.

La seconda parte del romanzo (giustamente omessa nella resa teatrale) vede gli stessi personaggi, ormai anziani, muoversi tra ricordi e dimenticanze, in una città ormai cambiata, anche grazie a loro. I personaggi sono costruiti sulla base di testimonianze e dati storici rigorosi, ma hanno una loro autonomia poetica che emerge bene dalle parole dell’autrice: «Oriele si è disegnata nella mia mente, è uscita da sola, come sempre avviene quando si scrive. Sembra una figura fragile, un po’ svagata. Sua madre la chiama Incantesimo perché si incanta a guardare una luce, una foglia, ma poi è lei che ha il gesto della ribellione. La figura del dottor Silvestri è suggerita da un modenese illustre, Riccardo Simonini, docente e pioniere della pediatria in Italia, che per un certo tempo fu medico delle operaie della manifattura. Pubblicò saggi e ricerche sulla tossicità della fabbrica e sugli effetti delle sostanze inquinanti sulla gravidanza. Lo chiamavano con una certa ironia al dutor di putein, quando non si capiva perché mai i bambini avessero bisogno di un dottore tutto per loro».

Sono personaggi “veri”, che parlano una lingua viva: «In dialetto c’è solo qualche frase mentre c’è in abbondanza un linguaggio sgrammaticato. È una questione di coerenza storica ma anche affettiva. All’epoca, in casa si parlava in dialetto (la vicenda si svolge tra la prima e la seconda guerra), a scuola si arrivava alla terza elementare quando andava bene, nelle situazioni formali si aggiustava come si poteva un italiano sgangherato. Non avrei rinunciato a questo aspetto linguistico per nessun motivo, neanche sulla scena. Così rappresentate, con i loro strafalcioni sono donne più vere, più simpatiche e anche a volte commoventi, almeno per me molto amate».

Le vicende delle paltadore risuonano nel presente senza bisogno di richiami didascalici: la precarietà strutturale del lavoro delle donne e la retorica (fascista) della tutela della maternità da una parte, la solidarietà tra compagne, l’esperienza del lavoro e dell’indipendenza come passaggi fondamentali per l’emancipazione femminile dall’altra sono temi di evidente attualità. Le sigaraie, poi, pioniere dell’autonomia femminile, erano temute e non di rado disprezzate: «Son paltadore. Le sente come parlano? Han vita libera, anche sessualmente, son delle selvatiche, non mi meraviglia che il loro modo di stare al mondo, così scomposto, direi quasi animale, abbia a lungo andare degli effetti nocivi sulla loro salute», afferma in un passaggio il professor Campagnoli, negatore degli effetti nocivi che le esalazioni della fabbrica avevano sulle gravidanze delle lavoratrici.

Emergono, tra le altre, la questione della sicurezza del lavoro, dell’autoritarismo, delle molestie, e, più in generale, del corpo delle donne: temi che vanno ben oltre i confini di Modena, come racconta ancora Bellei. «Le manifatture dei tabacchi erano sparse per tutto il territorio nazionale. Le condizioni erano simili in tutte, così come la miseria, le angherie, i maltrattamenti, le punizioni, le malattie a cui le donne andavano incontro. Ma oltre a questo c’è un aspetto universale in questo racconto che sta nel corpo, che è protagonista assieme a Oriele e alle compagne. Il corpo strumento di lavoro (le operaie lavoravano con il tabacco fermentato sulla pancia, per questo perdevano i figli) e poi il corpo usato dal regime per fare più figli e ingrossare le fila degli eserciti. Corpi affaticati, appesantiti che non avevano l’attenzione dovuta nemmeno in famiglia. Se devo fare un riferimento al presente posso ricordare che solo due anni fa è stata cancellata la pratica barbara della dimissione in bianco, che costringeva le donne a firmare una lettera di autolicenziamento in caso di gravidanza. Posso ricordare le bufere ideologiche quando si tenta di legiferare sugli obiettori di coscienza nei reparti maternità. Solo di recente è nato il movimento “basta tacere” per fare conoscere i casi di violenza ostetrica negli ospedali. Il corpo delle donne è rimasto fuori dalla Storia e anche evidentemente dall’agenda politica».

 

Dal romanzo alla scena

Il passaggio dalla pagina (digitale) al palcoscenico avviene con naturalezza. «Chi ha letto il romanzo lo ha trovato molto vicino a una sceneggiatura teatrale, a quel punto ho chiesto un parere all’amico Gigi Pedroni di Emilia Romagna Teatro che mi ha suggerisco la strada da seguire per metterlo in scena. ERT mi ha messo in contatto con Emanuele Aldrovandi, che ha curato la drammaturgia, e due assessorati modenesi (Cultura e Pari opportunità) hanno dato da subito un sostegno incondizionato».

Si deve all’iniziativa di Irene Guadagnini, assessora alle Pari opportunità e alle Politiche giovanili del Comune di Modena, la doppia scelta, operativa e simbolica, di portare Oriele in teatro come evento del primo maggio e di farlo attraverso un lavoro di messinscena collettivo che riunisse, intorno a un unico testo e un’unica storia, le compagnie professionali di Modena (Amigdala, Čajka, Drama Teatro, Peso Specifico, STED – Teatro), in dialogo con le due grandi fondazioni del territorio, Teatro Comunale di Modena ed Emilia Romagna Teatro.

Una scelta interessante non solo per la volontà, pur meritoria, di offrire alla cittadinanza un evento gratuito complementare rispetto alla tradizionale iniziativa sindacale della mattina, ma soprattutto per il lavoro corale che ha preparato l’evento. Qui la scelta operativa si è fatta contenuto, poiché si è finiti a parlare di lavoro mettendo al lavoro, nella fattispecie, tutti i gruppi teatrali professionali del territorio: un vero e proprio cantiere, riorganizzato sulla pagina da Emanuele Aldrovandi e diretto sul palco dal regista Tony Contartese. Di entrambi vanno sottolineate l’abilità e la modestia, senza le quali un così delicato lavoro di cucitura e armonizzazione non sarebbe riuscito.

Aldrovandi, autore prima ancora che dramaturg, ha lavorato di fino per modificare – senza mai tradirlo – il testo di partenza, tenendo conto delle difficili condizioni organizzative: cinque compagnie (a cui si aggiunge Olivia Corsini, splendida Oriele) con specificità e organici diversi avrebbero lavorato separatamente su scene singole, da rendere poi organiche in un’ultima, breve fase di prove d’assieme. È stato dunque necessario isolare dei nuclei narrativi da affidare ai singoli gruppi, attuando espedienti drammaturgici come la creazione di nuovi personaggi o la diversa attribuzione delle battute; inoltre, per ragioni di tempo e di chiarezza, alle scene agite si sono alternati momenti a leggio – il tutto avendo cura di mantenere un filo che facesse procedere la narrazione. È la «banale vita del teatro», racconta Aldrovandi: «si fa con quello che c’è», e così, in mani abili, i limiti diventano una risorsa.

Lo sa bene Tony Contartese, che ha lasciato a ogni gruppo la libertà di esprimere la propria poetica ma ha poi saputo creare un efficace amalgama agendo sugli ingredienti “classici” del teatro: luci, spazio scenico, immagini. Di queste ultime, realizzate tra gli altri da Andrea Capucci, ha voluto prendere «il minimalismo» e riproporlo sulla scena; una scena povera di elementi ma popolata di ottimi attori sostenuti da pochi elementi fortemente simbolici, come gli scheletri di leggii e camici di lavoro, disseminati in proscenio come a ribadire una presenza-assenza costante: quella dei corpi delle donne lavoratrici, affaticati e sapienti, rievocati davanti a un pubblico numeroso e partecipe.

Ne risulta un racconto polifonico e organico, accompagnato da immagini e coreografie e incorniciato da canti, con tre ambientazioni che sono altrettante angolature da cui guardare il mondo del lavoro: la fabbrica, l’esterno, il sogno. E forse grazie a questa patina onirica lo spettacolo, come già il romanzo, riesce ad accostare alla denuncia per le condizioni di sfruttamento e di deprivazione delle donne la forza del sentirsi comunità, della giovinezza, della speranza.

Poi c’è il teatro: una vecchia metafora che non sembra mai logora. Così, nella scena in cui Rolando Silvestri inaugura proprio in un teatro dismesso il suo nuovo ambulatorio (il vecchio è stato bruciato dai fascisti), il tempo del racconto e quello della rappresentazione si sovrappongono; e allora ci rendiamo conto che i topi su cui il dottore fa i suoi esperimenti (ricorrenti e inquietanti già nel romanzo) sono come noi, anzi siamo noi stessi: noi spettatori, noi attori, sul palco e nella vita. Noi che ci perdiamo, ci sacrifichiamo nel presente, come rivela il regista, «in cerca di una cura per il futuro».

E se lo spettacolo avrà un futuro questo dovrà essere, secondo l’auspicio di tutti coloro che si sono affaticati per realizzarlo, proprio nella sede della Manifattura, scenario reale ed emotivamente potente in grado di rievocare concretamente la presenza e il peso della storia nei luoghi che i modenesi quotidianamente abitano. Non per chiudere il cerchio, ma per mantenerlo aperto e problematico, perché, come scriveva ancora Pietro Clemente, «contro la smemoratezza e contro il passato come “macchietta vernacolare”, contro le epiche ideologiche che ricostruiscono ad hoc, che danno una idea del moderno come progresso e non come tendenza alla catastrofe, la polifonia dei racconti, la pluralità delle veglie è forse l’unica possibilità di contrasto alle voci unidirezionali che ci vengono da luoghi senza contatto con la vita».

 

Bibliografia