Dal febbraio 2014 presso il Campus di Rimini dell’Università di Bologna è attivo il Centro di Studi Avanzati per il Turismo (CAST) che unisce ricerca e alta formazione nel campo del turismo, configurandosi come l’unica realtà istituzionale del suo genere in Italia. In un’ottica di interdisciplinarietà il CAST propone iniziative integrate comuni connettendo gli aspetti economici, con quelli sociali, storici, giuridici e istituzionali del settore turistico. Elementi come sostenibilità, etica e turismo consapevole sono perciò fondamentali nelle analisi svolte dal Centro. Su questi temi abbiamo posto alcuni interrogativi a Patrizia Battilani e ad Alessia Mariotti, entrambe docenti dell’Università di Bologna, e rispettivamente direttrice in carica ed ex direttrice del CAST. L’intervista è a cura di Patrick Leech e Matteo Troilo.
Etica e sviluppo economico apparentemente non vanno d’accordo. Come è possibile conciliare questi due aspetti riguardo il turismo?
Patrizia Battilani: La dicotomia fra etica e sviluppo caratterizza il pensiero economico solamente dall’Ottocento in poi. Ad inizio Settecento Mandeville provò a proporre l’incompatibilità fra onestà e crescita economica con “La favola delle Api”, raccogliendo le critiche del maggiore economista dell’epoca, Adam Smith e di altri contemporanei. Era, infatti, convinzione di Smith che pur essendo l’economia quella parte di realtà in cui ciascuno cerca di perseguire il proprio interesse, essa fosse comunque guidata dagli stessi valori etici che governavano le altre azioni. Infatti, interagendo nel mercato, gli uomini non perdevano la capacità di capire i sentimenti dell’altro (la simpatia reciproca) e il senso di giustizia. Possiamo citare una sua frase, che purtroppo è ricordata raramente:
Ogni uomo, fino a quando non viola le leggi della giustizia, è lasciato perfettamente libero di perseguire il proprio interesse, la propria via e portare i propri industria e capitale a competere con quelli di ogni altro uomo1.
Ciò che oggi chiamiamo etica sono le leggi della giustizia a cui faceva riferimento Smith. Aggiungo la considerazione che secondo Smith una società avrebbe potuto sopravvivere in assenza di altruismo (anche se la qualità della vita sarebbe stata peggiore) ma non senza giustizia. Quindi, conciliare etica e giustizia significa ritornare ai classici, significa ritornare alla visione di Smith in cui economia e morale avevano bisogno una dell’altra. Le provocazioni di Mandeville, verranno utilizzate per concettualizzare i modelli economici solamente nella seconda metà dell’Ottocento, quando l’agire economico venne liberato dalle questioni morali.
Ma veniamo al turismo e al suo incrociare il senso di giustizia. Vorrei di nuovo partire da Smith. La sua concezione di giustizia includeva la convinzione che anche le classi popolari potessero avere accesso ai consumi. Anche qui si può riportare una sua famosa frase:
Di sicuro nessuna società può essere fiorente e felice, se la maggior parte dei suoi membri è povera e infelice. Inoltre è anche per una questione di equità che coloro che con il loro lavoro nutrono, vestono e alloggiano l’intera società, devono ottenere dal loro lavoro una quota che garantisca loro di essere adeguatamente nutriti, vestiti e alloggiati.
Ora pochi dubbi vi possono essere sul fatto che il turismo di massa in Europa abbia contribuito a far sentire equa e giusta la società del tempo. Esso è stato uno dei consumi che più hanno contribuito ad estendere la floridezza e la felicità a quelli che con “il loro lavoro nutrono, vestono e alloggiano l’intera società”. Non a caso molti degli attacchi alla diffusione del turismo di massa negli anni Sessanta vennero dall’élite che sentivano di aver perduto l’esclusiva su questa tipologia di esperienza.
Tuttavia dagli anni Ottanta il tema della giustizia sociale si arricchì di una nuova prospettiva che fece percepire il turismo di massa “meno giusto”, quella dell’equità intergenerazionale, della sostenibilità nel lungo periodo. Il tema della conservazione dell’ambiente, che significava non privare le generazioni future delle risorse ambientali, entrò nel dibattito sullo sviluppo economico e di conseguenza sul turismo. Ci si rese conto che l’estendere l’esperienza turistica a tutti i membri di una generazione poteva intaccare il capitale naturale delle generazioni future, per usare la terminologia di Herman Daly.
Infine dagli anni Novanta il senso di giustizia cominciò ad abbracciare la dimensione culturale e sociale e l’attenzione venne portata all’interazione fra turisti e residenti. Il turismo, quindi, che rapporto fra etica ed economia ha proposto? Sicuramente, in Europa per lo meno, il turismo ha vinto la sfida rappresentata dall’accessibilità a tutte le classi sociali tanto da diventare parte delle consuetudini di tutti nonché dei diversificati percorsi individuali verso la felicità. Sul fronte ambientale la capacità di preservare il capitale naturale è stata, invece, limitata, anche se sicuramente il suo impatto è stato minore di quello prodotto dalle attività manifatturiere. Ma qui possiamo dire che il turismo come la manifattura è figlio del suo tempo e che in generale gli ultimi tre decenni hanno visto una sottovalutazione non giustificabile del problema ambientale. Solo ora con il cambiamento climatico in atto, le società stanno, forse, prendendo consapevolezza della necessità di un diverso approccio al capitale naturale.
Infine, vi è la dimensione di interazione fra turisti e residenti che può assumere anche la connotazione di incontro/scontro fra diverse culture o consuetudini sociali. Manca complessivamente una valutazione storica di quanto il turismo abbia stimolato la reciproca conoscenza fra culture diverse e di quanto, invece, abbia contribuito a consolidare posizioni di potere e di predominio “della cultura ricca” su “quella più povera”. Sicuramente possiamo pensare al turismo come ad uno dei laboratori più importanti per la conoscenza e il dialogo. Possiamo immaginarlo come un soft power per usare la terminologia di Joseph S. Nye2.
L’impatto del comportamento dei turisti sul territorio è notevole, è possibile avere città affollate e allo stesso tempo vivibili anche per i non turisti?
Alessia Mariotti: Nel corso degli ultimi dieci-quindici anni, i flussi di visitatori sia verso destinazioni consolidate che verso nuove mete sono aumentati. Nuovi comportamenti di consumo nel tempo libero e nuove opportunità legate allo sviluppo delle compagnie aeree low cost hanno profondamente influito sulle modalità con cui i turisti ed i visitatori occupano spazi urbani tradizionalmente riservati ai residenti. In linea generale e alla scala internazionale, le trasformazioni nelle scelte di consumo turistico hanno portato ad una riduzione del tempo dedicato alla vacanza (i cosiddetti short breaks) e ad una moltiplicazione nell’arco dell’anno degli spostamenti dal proprio luogo di residenza per ragioni di svago. Le ragioni di questa trasformazione risiedono sia, come già detto, nella disponibilità di effettuare spostamenti a più ampio raggio a costi più contenuti e verso destinazioni ritenute fino a pochi anni fa desuete o periferiche, che in una trasformazione progressiva dei contratti di lavoro. Alla frammentazione dei tempi della vacanza ed all’incremento della distanza fra centri di irradiazione e aree di destinazione si è associata anche una forte segmentazione nella tipologia di prodotti turistici offerti, spesso ritagliati sul profilo del consumatore con l’obiettivo di offrire esperienze diversificate anche all’interno di un medesimo pacchetto.
L’Organizzazione Mondiale del Turismo (UNWTO), all’interno di una ricerca pubblicata nel 2018 dalla World Tourism Cities Federation, ha affermato che nell’arco degli ultimi 10 anni il turismo urbano è cresciuto del 50% a livello globale. In un contesto in cui ci si aspetta che per il 2030 le città accoglieranno i due terzi della popolazione mondiale, monitorare le performance e gli impatti che il turismo ha sulla vita dei centri urbani diventa cruciale anche per massimizzare la capacità del settore di influire positivamente sulle economie delle città. All’onore della cronaca (di solito estiva in coincidenza con i picchi stagionali) e sempre più anche di quella accademica, da circa un paio d’anni si sente parlare di overtourism, ad indicare un eccesso di frequentazione da parte di turisti e visitatori giornalieri delle destinazioni urbane, e di una corrispondente tourismophobia, ovvero una sorta di sindrome di rifiuto e timore del turista che colpisce i residenti delle città molto visitate e frequentate. Per quanto ritenga improprio il secondo termine, credo però che l’eccesso di turismo e le conseguenti dimostrazioni di insofferenza da parte dei residenti, in particolare in centri storici ed ambiti urbani di particolare interesse culturale, abbia come causa principale la mancanza di un approccio strategico alla pianificazione dello sviluppo turistico ed una conseguente carenza generica dei modelli di gestione dei flussi. La vivibilità degli ambiti urbani è costituita da diversi fattori, che vanno dal sistema dell’accessibilità, alla fruibilità dei servizi e degli spazi pubblici, al livello dei prezzi al consumo (per non citare quelli del mercato immobiliare) anche in relazione al reddito medio pro capite. All’interno di ambiti urbani in cui il livello dei servizi al cittadino è adeguato e resta tale anche in presenza di ingenti flussi di visitatori esterni, è più difficile che si creino situazioni conflittuali.
La risposta al quesito è quindi affermativa, a patto che le amministrazioni locali e gli investitori privati siano in grado di considerare il turismo come un’industria, le cui fondamenta spesso poggiano sul sistema di infrastrutture e servizi per il cittadino e che devono quindi essere commisurate al volume di utilizzo ed equamente accessibili sia a turisti che residenti.
Cosa si intende per turismo sostenibile?
Alessia Mariotti: All’interno di un documento congiunto di UNEP e UNWTO del 2005 viene data la seguente definizione di turismo sostenibile: «Si tratta di quella forma di turismo che prende in piena considerazione i suoi impatti correnti e futuri di ordine economico, sociale ed ambientale, nel rispetto dei bisogni dei visitatori, dell’industria, dell’ambiente e delle comunità ospitanti». Poco oltre si legge che lo sviluppo del turismo sostenibile richiede una partecipazione informata di tutti i portatori di interesse oltre ad una forte leadership politica a garanzia di un’ampia partecipazione nella costruzione del consenso attorno ai progetti. Si tratta cioè di un processo continuo che richiede un monitoraggio costante degli impatti e l’introduzione ove necessario di misure correttive e preventive. Il turismo sostenibile deve inoltre garantire livelli elevati di soddisfazione turistica ed assicurare ai visitatori delle esperienze significative che ne accrescano la consapevolezza rispetto alle tematiche della sostenibilità e delle pratiche di turismo sostenibile.
A questa definizione promossa dalle Nazioni Unite fanno da corollario una serie di ulteriori definizioni relative a pratiche turistiche specifiche, sempre riconducibili ai pilastri della sostenibilità: si parla così di ecoturismo, turismo responsabile, turismo equo e solidale, pro poor tourism, ecc. Oltre ai tre pilastri fondamentali della sostenibilità a cui anche il concetto di turismo sostenibile fa riferimento (l’efficienza economica, la tutela dell’ecosistema e l’equità sociale inter e infra generazionale a cui si è fatto cenno poco sopra), vale la pena rilevare che la dimensione chiave dell’applicazione dei principi della sostenibilità allo sviluppo turistico è quella temporale. Il turismo è sostenibile solo nel momento in cui viene pianificato e gestito in un’ottica di lungo periodo, con l’obiettivo da un lato di tutelare e preservare le attrazioni turistiche sia naturali che antropiche già presenti e sfruttate dalla destinazione e dall’altro di conservare le risorse che siano passibili di trasformarsi in futuro in possibili attrazioni.
In un contesto in cui si affronta il tema del dissonant heritage come oggetto di turismo culturale, la sostenibilità come approccio alla pianificazione turistica assume un ruolo chiave nella costruzione dei contenuti attraverso un processo partecipato e consapevole di tutti gli attori del sistema turistico. Significa in altre parole partire dal contesto, dai contenuti storici e dalla sensibilità dei residenti per capire fino a che punto è possibile utilizzare il dissonant heritage per la costruzione di un prodotto turistico culturale consapevole e che non generi le fratture fra luogo e comunità di cui si parlerà qui di seguito.
C’è un limite allo sfruttamento delle risorse turistiche?
Alessia Mariotti: Per rispondere a questo quesito occorre fare una premessa di ordine concettuale. All’interno della letteratura accademica, l’analisi delle destinazioni turistiche presuppone che al cuore delle stesse vi siano le risorse turistiche, attorno alle quali si costruisce l’immagine della destinazione, sempre che le risorse siano sia accessibili che fruibili. Le risorse di una destinazione se fruibili, accessibili o comunque acquistabili all’interno di una pratica di consumo del tempo libero, divengono fattori di richiamo o attrazioni primarie della destinazione. Esse possono essere classificate in vario modo a seconda che si tratti di elementi naturali (ad esempio una spiaggia, un bosco, un lago) o antropici (una manifestazione religiosa o culturale, un monumento, un parco a tema), riproducibili (un impianto sportivo, un vigneto, un museo) o non riproducibili (un vulcano, un centro storico, un sito archeologico). L’eccessiva pressione turistica su una determinata destinazione rappresenta perfettamente il paradosso della crescita: il turismo a livello globale è un driver di sviluppo economico molto potente, circa uno ogni dieci posti di lavoro è in questo settore, che nell’arco degli ultimi anni è cresciuto a ritmi non paragonabili con gli altri e che le stime del World Economic Forum danno in crescita media del 4% per i prossimi 10 anni. Non sorprende quindi che sia gli investitori privati che pubblici vedano molto spesso nel turismo una soluzione perfetta per uscire da situazioni di crisi o di stallo economico. Al tempo stesso la scarsa attenzione nei confronti degli effetti negativi nella crescita dei flussi turistici, la mancanza di una cultura della pianificazione nel settore e una corrispondente difficoltà nell’adozione di strategie di gestione che vedano allo stesso tavolo il settore pubblico e quello privato può mettere in serio pericolo le risorse stesse su cui il turismo basa la sua forza.
Al contempo si potrebbe anche riflettere su un altro elemento, connesso più in generale con i limiti dello sfruttamento turistico, ovvero la tipologia di risorse su cui costruire l’attrattiva delle destinazioni. Effettivamente la capacità di costruire sempre nuove esperienze turistiche o la volontà di assecondare il mercato su determinate abitudini di consumo ha portato a spingere da un lato all’allargamento del mercato su pratiche che un tempo erano elitarie. Basti pensare al dibattito attorno al turismo montano e ad attività quali l’uso dell’eliski per salire in quota o l’uso di biciclette elettriche per la pratica del downhill, entrambe con conseguenze spesso gravi per il fragile sistema montano. Dall’altro si sono costruite o sdoganate pratiche turistiche su elementi a volte di dubbio gusto, quando non totalmente opinabili dal punto di vista etico (basti pensare ad alcuni prodotti legati a quello che in letteratura viene chiamato Dark Tourism).
In buona sostanza il limite allo sfruttamento delle risorse turistiche dovrebbe essere facilmente identificato monitorando la pressione antropica sull’ambiente e sulle risorse naturali, il grado di stress delle comunità ospitanti e il livello di soddisfazione del turista stesso.
Il conflitto tra turisti e residenti può portare alla lunga ad una perdita economica per le località turistiche?
Patrizia Battilani: Sì, sicuramente un conflitto non risolto comporta anche perdite dal punto di vista economico. Gli episodi di protesta di alcune popolazioni locali che hanno caratterizzato gli ultimi anni, segnalano una conflittualità e un problema al quale va cercata soluzione, se non si vuole indebolire “il clima di accoglienza” che sempre caratterizza le destinazioni di successo. Vorrei però portare l’attenzione su due aspetti: il pattern di possibili soluzioni e il ruolo degli investimenti.
Le soluzioni alla conflittualità (anche solo potenziale) fra turisti e residenti è stata storicamente risolta attraverso due modalità: la separazione fra i due gruppi, oppure la selezione dei visitatori. La separazione fra turisti e residenti è possibile solamente in contesti particolari. Qui è immediato fare l’esempio delle Maldive, dove all’epoca dei piani di sviluppo turistico si decise di concentrare gli investimenti turistici su isole praticamente disabitate, in modo da ridurre al minimo i contatti fra popolazione locale e visitatori internazionali.
Un altro percorso è quello dell’identificazione di proposte e di prodotti turistici che attraggano tipologie diverse di visitatori, per selezionare quelle più capaci di interagire con la popolazione locale. Questo è un percorso piuttosto frequente e che in piccolo è stato portato avanti anche nella riviera romagnola. Negli anni ottanta e novanta la conflittualità fra il turismo giovanile “trasgressivo”, discotecaro, low cost e i residenti raggiunse il suo apice in molte località, come si può vedere dalla stampa locale di località come Rimini e Riccione. La risposta che le due città diedero fu di porre dei limiti ai comportamenti dei visitatori (ad esempio impedire che i giovani dormissero lungo le strade o sulle panchine pubbliche), ma soprattutto di riposizionare il prodotto turistico, alla ricerca di nuovi target. Riccione cercò di darsi un’immagine di luogo per lo shopping e Rimini puntò sul turismo congressuale, mentre nel prodotto tradizionale, entrambe riportarono l’attenzione alle famiglie. I giovani, il turismo low cost continuò ad essere accolto, ma si riuscì a bilanciare meglio la composizione dei turisti. Mi è sempre rimasta impressa un’intervista ad una albergatrice riminese, nella quale si diceva che la vera arte dell’albergatore che le era stata trasmessa nel passaggio generazionale era quella di bilanciare la presenza dei diversi tipi di clienti. Ecco questa forse può davvero essere una best practice.
Questo però ci rimanda al secondo punto che vorrei toccare e che riguarda gli investimenti. Con uno slogan si potrebbe dire che il momento cruciale in cui si pone mano alla conflittualità fra turisti e residenti è quando si fanno gli investimenti, quando si disegna l’offerta e l’uso della città da parte di turisti e residenti. È lì che si delineano le diverse possibili soluzioni.
Quali sono le opportunità e i pericoli di un turismo culturale orientato verso il patrimonio materiale del ’900 europeo?
Patrizia Battilani: Il patrimonio materiale del ’900 è molto complesso, soprattutto quello che fa riferimento all’età della catastrofe, per citare Eric Hobsbawm3. Come è stato spesso ricordato si tratta di un patrimonio che contiene in sé la celebrazione del totalitarismo e che, quindi, va “decostruito” in modo che esso diventi testimone e memoria critica delle contraddizioni di quelle ideologie. Da questo punto di vista è un’opportunità. Soprattutto lo è quella parte di patrimonio alla quale non sono direttamente riconducibili atrocità o la persecuzione contro gli oppositori. Essa, infatti, ci permette di far comprendere quello che Hannah Arendt ha chiamato la “banalità del male”, quell’insieme di pratiche quotidiane, di passaggi burocratici, di senso del dovere di impiegati e dipendenti, che hanno reso possibile le atrocità stesse4.
Molti sono però anche i rischi. Si tratta, infatti, di un patrimonio dissonante, la cui dissonanza è implicita nel messaggio stesso che esso promuove, per seguire la tassonomia proposta da Tunbridge e Ashworth5. Anche se una certa dissonanza è presente in qualunque tipologia di patrimonio, come ci ricorda Laura Jane Smith, quello dell’età della catastrofe ha una sua specificità che va riconosciuta. L’uso di tale patrimonio nella costruzione di prodotti turistici espone le comunità ad una varietà di rischi di cui è giusto avere consapevolezza. Il primo è un rischio di tipo culturale, quale quello di dare visibilità ai nostalgici dei regimi totalitari e voce ai progetti di revisionismo storico. Su questo si può innestare anche il rischio politico di contribuire alla promozione di quei segmenti di società che auspicano il superamento della democrazia e l’abbandono dei principi contenuti nella Dichiarazione dei diritti dell’Uomo. Per questa ragione molto spesso i simboli di un passato dissonante vengono nascosti o marginalizzati quasi per una sorta di amnesia sociale o di uno spontaneo abbandono.
La dissonanza può poi avviare anche processi sociali più ampi, come la disaffezione verso il proprio territorio che viene percepito come portatore di valori che contrastano con i diritti universali dell’Uomo. Il concetto di identità del luogo si collega all’idea di appartenenza ad una comunità, al senso di orgoglio e alla condivisione di valori che permangono nel tempo. Il patrimonio dissonante in primo luogo indebolisce il senso di orgoglio per le proprie radici. Poi è rivelatore di una frattura temporale in termini di valori di riferimento, di memorie che possono rendere difficile fare dei luoghi stessi un’ancora per la propria identità. Così anche la distinzione di un luogo finisce con l’assumere una connotazione negativa. Se ad emergere sono questi elementi il legame fra la comunità e il luogo in cui essa vive si fa più debole.
Ci può essere un impatto in termini di sostenibilità del turismo dal punto di vista sociale, che come abbiamo visto implica non solo il coinvolgimento dei residenti nella proposta turistica, ma anche un’interazione positiva con i turisti. Se attorno ad un patrimonio dissonante si genera un flusso di visitatori che ha le caratteristiche negative che abbiamo ricordato sopra (negazionismo storico, nostalgia e celebrazione del totalitarismo), quella particolare attività turistica risulterà non sostenibile perché non solo produrrà un impatto negativo sul senso di appartenenza ma genererà anche un rifiuto del turismo in sé.
È possibile un turismo consapevole sulle tematiche del ’900 in Italia oggi?
Patrizia Battilani: È possibile solamente se siamo in grado di attivare buone pratiche che evitino i rischi che abbiamo richiamato prima. Questo richiede un impegno e un investimento culturale non banali. Occorre decostruire il significato dei luoghi e offrire ai visitatori una narrazione che contenga già i risultati di tale analisi e rilettura. Se i luoghi, grazie ad un loro uso quotidiano hanno già assunto un nuovo significato simbolico, il processo diventa più semplice perché da un certo punto di vista l’allontanamento dai valori che incarnavano nel passato si è già consumata. Sicuramente è di aiuto anche una narrazione che potremmo definire transnazionale, che cioè include le vicende di un luogo nel processo storico più ampio che ha caratterizzato un continente o il mondo in una determinata fase. Volendo indicare delle parole chiave per rendere possibile un turismo consapevole attorno ad un patrimonio dissonante, suggerirei: l’individuazione di nuovi significati simbolici e la narrazione transnazionale.
Il processo conoscitivo che viene avviato dall’esperienza turistica così come da quella culturale segue sia un percorso razionale che uno emotivo. Sino ad ora abbiamo fatto riferimento alla dimensione razionale, ma anche quella emotiva veicola messaggi e genera conoscenza. Faccio un esempio per essere più chiara. L’esperienza turistica deve essere piacevole, comunicare sensazioni positive, che con il tempo creeranno un legame anche emotivo fra il visitatore e il luogo. Quando parliamo del patrimonio dissonante del ’900 facciamo riferimento ad una memoria che contiene emozioni sgradevoli, sensazioni di paura, disperazione, lutto, perdita e tanto altro. Come conciliare allora questi due mondi emotivi così diversi?
Perché il rischio diventa di creare esperienze piacevoli che attraverso le emozioni veicolino un’immagine distorta del patrimonio dissonante. Nelle esperienze che come CAST abbiamo seguito a Forlì, questa contrapposizione di emozioni è emersa soprattutto in riferimento alle esperienze che veicolano le informazioni sul cibo e sui consumi. Se si organizza una cena ambientata nel periodo fra le due guerre o ancora di più sul finire degli anni Trenta, non ci si può limitare a proporre pietanze “autarchiche” rielaborate nel modo più attraente e gustoso possibile, in modo da permettere agli ospiti di trascorrere una piacevole serata. Occorre durante la serata creare situazioni e interazioni che comunichino e richiamino le emozioni vere di quel periodo storico, che si caratterizzò per la scarsità di molti prodotti alimentari, soprattutto dopo le sanzioni della Società delle Nazioni.
Prima abbiamo proposto due parole chiave, adesso ne aggiungiamo una terza: veicolare le emozioni giuste, capaci davvero di comunicare il senso profondo di quel periodo storico. Però forse la domanda voleva anche porre la questione se è possibile in qualunque periodo storico utilizzare il patrimonio dissonante. Qui vorrei rispondere richiamando la public history, visto che in realtà ogni esperienza turistica o culturale costruita attorno al patrimonio del Novecento, altro non è che public history. Come è noto la public history si caratterizza per due dimensioni: da una parte la collaborazione fra i professionisti della storia e il resto della società, dall’altra la definizione di un obiettivo da perseguire che può essere il rafforzamento del legame identitario con il territorio, la promozione dell’impegno civile, la promozione dei diritti universali dell’Uomo, il contributo alla pacifica convivenza fra comunità e tanti altri. Io penso che anche in anni vicini ai fatti che si vogliono evocare, si possano pensare interventi di public history. Però ogni volta occorre definire con chiarezza quali sono gli obiettivi che ci si prefigge.
Quali possono essere gli esempi di turismo consapevole all’estero da seguire?
Patrizia Battilani: La consapevolezza può riguardare diverse dimensioni, da quella culturale a quella ambientale. Spetta alle destinazioni costruire la cornice entro la quale i turisti vivranno la loro esperienza e quindi creare le condizioni per la sostenibilità. Se portiamo l’attenzione alla dimensione culturale possiamo citare come esempi di turismo consapevole quelle situazioni in cui il soggiorno in un luogo permette di comprenderne gli stili di vita, le consuetudini e le contraddizioni di un luogo, anche attraverso la sua storia. È chiaro che gli investimenti culturali che i residenti fanno per sé (con occhio ovviamente alla generazione di attrattori turistici) creano le condizioni per la consapevolezza dei turisti. A volte sono proprio finalizzati a generare un processo culturale volto a promuovere l’impegno civile, a tenere aperto il dialogo fra comunità con un passato divisivo, a mantenere viva l’attenzione sui diritti umani. Ad esempio il recente museo nazionale sull’ebraismo inaugurato a Ferrara nel dicembre 2017, oltre ad ampliare la proposta di turismo culturale della città crea una nuova narrazione sulla millenaria presenza della comunità ebraica in Italia e del suo contributo allo sviluppo culturale ed economico del paese. Ma ovviamente è anche un museo che si interroga sul tema dell’integrazione e della convivenza fra comunità che mantengono caratteristiche distintive. Oppure l’investimento fatto a Philadelphia nella Independence Mall dove qualche anno fa, a fianco della Liberty Bell che celebra l’origine della democrazia americana si è creata una installazione che dà visibilità ai limiti con i quali questa democrazia ha convissuto: nel primo secolo di vita ha accettato la schiavitù e nel secondo ha trovato come unica soluzione la segregazione razziale. Atlanta sulla storia dei diritti civili ha costruito un intero museo, che propone non soltanto la sua collezione permanente ma un programma intenso di workshop per residenti e visitatori che in qualche modo vogliono contribuire ad una maggiore consapevolezza su questi temi. Più difficile è però lavorare direttamente sui territori, senza musealizzare i contenuti complessi del presente o della storia dei luoghi. Interessante da questo punto vista è il percorso avviato in Irlanda del nord, per fronteggiare quello che è stato chiamato il decennio dei centenari, cioè il periodo 2012-2022, durante il quale cadono gli anniversari degli episodi più divisivi della storia di quella regione. Qui il percorso è stato di creare eventi, workshop che abituassero le persone ad ascoltare narrazioni contrapposte di tali eventi. In sostanza i turisti si inseriscono sui percorsi di consapevolezza creati dai residenti. Faccio un controesempio per essere più chiara. Nonostante l’emigrazione sia stata un elemento fondante dell’identità italiana, nel nostro paese nessuno ha mai voluto creare un museo nazionale che si confrontasse con questo aspetto della nostra storia. Sono nati con il tempo tanti musei e allestimenti locali e regionali, ma l’unico museo nazionale venne concepito solamente nel 2009 a Roma e dopo alcuni anni chiuso. Oggi si ragiona del suo trasferimento a Genova e di una sua riapertura nel 2020. Per qualche ragione questo è un passato dissonante, con il quale il paese fa fatica a confrontarsi. L’Irlanda invece lo ha fatto. Si veda il sito del loro museo nazionale a Dublino dedicato all’emigrazione: https://epicchq.com/.
Alessia Mariotti: Il tema della consapevolezza è fortemente legato al processo di acquisizione del concetto di sostenibilità nel turismo di cui si è parlato poco sopra. All’inizio degli anni ’90 è partita sia a scala nazionale (in Italia nasce AITR, Associazione Italiana Turismo Responsabile) che a scala internazionale (in Inghilterra Tourism Concern, in Francia ATES, in Spagna il Centro Espanol de Tursime Responsable, ecc.) una riflessione sul ruolo dei comportamenti del turista e sulla necessità di una sua responsabilizzazione sia rispetto alle ricadute ambientali che sociali delle sue pratiche nel tempo libero. Sulla scorta di queste riflessioni sono nate in Europa e nel mondo singole associazioni nazionali che promuovono forme di turismo più consapevole e che hanno dato vita ad una ulteriore definizione di turismo: il turismo responsabile. L’accento è posto in questo caso sia sul comportamento della domanda, cioè sulle scelte dei visitatori fin dal momento della scelta del viaggio, che prevede incontri preparatori e di “educazione” ad un comportamento responsabile e consapevole nei luoghi di destinazione, che sulla composizione del pacchetto turistico da parte dei tour operator specializzati. Gli ambiti di intervento e la tipologia di pacchetti turistici offerti con il marchio di turismo responsabile vanno dalla vacanza attiva in contesti naturali a vacanze presso villaggi rurali di paesi in via di sviluppo in cui le ONG associate hanno avviato progetti di turismo di comunità. Il limite di questo approccio è legato alla dimensione del mercato di riferimento, che resta estremamente marginale rispetto alla grande industria turistica, che dal canto suo, per quanto sia fra i primi settori mondiali ad aver integrato strumenti di Corporate Social Responsibility, fa comunque fatica ad inserire nel proprio sistema organizzativo delle routine che le consentano di implementare la sostenibilità ed adottare una prospettiva di lungo periodo.
Alla scala internazionale, le grandi organizzazioni ambientaliste come il WWF hanno fortemente investito sulla promozione di vacanze in cui il focus della consapevolezza è orientato alla tutela ambientale. Recentemente (2017) la sezione Mediterraneo di WWF, grazie al supporto di Boston Consulting e con anche il contributo del CAST, ha pubblicato un report sulle strategie per il supporto all’economia del bacino del Mediterraneo, in cui il ruolo del turismo sostenibile ed in particolare la consapevolezza ambientale sono cruciali per la massimizzazione degli effetti della crescita blu sulle economie dei paesi rivieraschi. Fra i casi di studio inseriti nel report, Barcellona, Rimini e Calvià vengono identificate come grandi destinazioni di turismo di massa che hanno iniziato ad interrogarsi sulla migliore modalità per riconvertire il proprio prodotto verso una maggiore attenzione ambientale, anche attraverso processi di riconversione urbana ed incremento degli spazi verdi all’interno della città. In ognuno dei casi citati, le amministrazioni locali hanno portato avanti un percorso di consultazione partecipata fra settore privato e residenti, volto a costruire consenso e ad incrementare la consapevolezza circa la necessità di intervenire sulle modalità di fruizione degli spazi per il tempo libero al fine di preservare la qualità della vita degli abitanti, ma anche la competitività stessa della destinazione.
Un ulteriore esempio, questa volta di cooperazione internazionale fra enti pubblici in cui il tema della consapevolezza ha costituito il collante e la ragion d’essere della collaborazione è NECSTour (http://www.necstour.eu/). Si tratta del network delle regioni europee per il turismo sostenibile e competitivo nato nel 2007. La rete raccoglie quasi 40 regioni europee in 20 Stati membri dell’Unione con forti competenze turistiche, che vantano sul proprio territorio organismi accademici e centri di ricerca specializzati sul tema, associazioni ed imprese impegnate nel turismo sostenibile e responsabile. La rete ha come obiettivo quello di sviluppare strumenti di coordinamento dei programmi di sviluppo regionale e di ricerca sul turismo sostenibile e competitivo. Anche questa rete si è data una definizione di turismo “sostenibile e competitivo” in cui viene ribadita la necessità di costruire un giusto equilibrio fra il benessere dei turisti, i bisogni dell’ambiente e del contesto culturale e lo sviluppo della competitività di imprese e destinazioni. Uno dei servizi della rete è un archivio di oltre 90 buone pratiche con numerosi esempi di applicazione dei principi della sostenibilità (ambiente, equità sociale efficienza economica) a prodotti e destinazioni, con la consapevolezza che questo significa utilizzare una prospettiva di lungo periodo ed un forte orientamento al futuro.
Può il patrimonio dissonante essere un oggetto legittimo di un turismo culturale?
Patrizia Battilani: Non è legittimo usare il patrimonio dissonante per promuovere ideologie che rifiutano i diritti universali dell’uomo. Qui è facile richiamare Popper e il suo paradosso della tolleranza. “La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi”. Senza semplificare eccessivamente e pur nella consapevolezza che tutti i grandi filosofi del Novecento si sono confrontati con questo paradosso, offrendo anche risposte diverse da Popper, credo che la sua visione ci sia di grande aiuto nella pratica quotidiana della progettazione turistica di esperienze attorno ai patrimoni dissonanti.
All’interno del limite definito da Popper, è sempre legittimo costruire prodotti turistici che insistano su un patrimonio dissonante. Anzi proprio la public history ci insegna che queste esperienze possono diventare importanti strumenti di conoscenza del proprio passato, di costruzione di una memoria critica, dell’avvio di un dialogo con il presente e di promozione dell’impegno civile.
Note
1 Adam Smith, The Wealth of Nations, IV.9.17, 1776.
2 Joseph S. Nye, Soft Power: The Means to Success in World Politics, New York, PublicAffairs, 2004.
3 Eric Hobsbawn, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano, Rizzoli, 1995.
4 Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1964.
5 G.J. Ashworth, J.E. Tunbridge, The Tourist-Historic City: Retrospect and Prospect of Managing the Heritage City (Advances in Tourism Research), London, Routledge, 2000.