Subito, dalle prime parole cantate in italiano della prima canzone, il disco enuncia la filosofia di quarant’anni di musica di Flavio Giurato: “Il nostro canto è made in Italy, la nostra mission è cuori liberi”. Uno dei massimi cantautori italiani torna con un nuovo disco e ancora una volta tocca nel profondo, alla soglia dei settanta anni d’età è ancora un visionario sperimentatore dentro una sua semplicità senza tempo.
Dagli esordi del 1978 fino a oggi con momenti di lungo silenzio, pochi ma fondamentali album che resteranno nella storia della musica italiana, nonostante la loro distribuzione sotterranea e incostante. Sei album in studio in quattro decenni, con una pausa dal 1984 al 2007, tempi fuori da ogni industria musicale e da ogni pretesa di successo, adesso pubblica se stesso con la sua Entry produzioni musicali, con la figlia ai cori e un gruppo di giovani musicisti ad accompagnarlo.
Un breve momento di fama nel 1982 con i passaggi tv a “Mister Fantasy” della title track de “Il tuffatore”, inserito dalla rivista “Rolling Stone” nei cento dischi italiani più belli di sempre, un culto alimentato dai rari concerti, Giurato affiora improvvisamente e ciclicamente nel mondo della musica per poi inabissarsi nella vita vissuta. Classe 1949, figlio di un diplomatico e figlio del quartiere Montesacro di Roma, fratello del conduttore tv Luca Giurato, busker in gioventù in metropolitana a Londra e regista televisivo per la Rai, giocatore ed allenatore di baseball, musicoterapeuta nelle carceri e nei manicomi è il cantautore indie rock italiano, alter ego tricolore e inconsapevole di un Mark Kozelek o di un Bonnie Prince Billy.
Personaggio appartato da sempre, non riconducibile a un cantautorato tradizionale e neppure alla scuola romana nata attorno al Folk Studio negli anni Sessanta, ha sviluppato una sua poetica particolare, non riconducibile ad alcun genere specifico, e quindi classica. Dopo solo due anni da “La scomparsa di Majorana” Giurato pubblica un disco unico nel panorama italico per la ricerca accurata dei suoni, la complessità delle canzoni (spesso di lunga e inusuale durata) e i temi trattati.
Il tema dell’emigrazione aleggia per tutto l’album, fin da “Soundcheck”, il primo stupendo brano, un crescendo di nove minuti cantato in alcune parti in inglese, introdotto da un recitato, concluso con una esplosione strumentale collettiva. Diversi registri linguistici si susseguono per tutto l’album, la musica colta con il dialetto, l’italiano con l’inglese e lo spagnolo, saliscendi musicali tra chitarre acustiche ed elettriche creano un’atmosfera molto particolare e carica di pathos. Su tutto i testi, un flusso di coscienza che parla per metafore, allusioni, controtempi, salti logici, cambiando il narratore anche all’interno della singola canzone, rendendo in maniera personalissima il mondo di Giurato.
La sezione ritmica particolarmente presente e a tratti ossessiva accresce il pathos e la drammaticità, inevitabile in un lavoro che da Roma spazia verso il Mediterraneo, i Balcani, il Sudamerica (“Agua mineral”, in spagnolo e italiano), scavando nelle contraddizioni. Tensione narrativa costante, senso di drammaticità che si sposa col tema trattato, ricordo delle radici (la struggente “Ponte Salario”) e sguardo migrante al futuro (“le promesse del mondo”): tutto questo rielaborato in chiave attuale e originale, senza riferimenti espliciti alla tradizione musicale italiana.
Disco cesellato nei suoni, pensato per essere ascoltato in cuffia con la massima concentrazione, ipnotico per lunghi tratti grazie all’iterazione delle parole e ai saliscendi della musica, fluviale e inarrestabile in molte composizioni (nessuna canzone inferiore ai cinque minuti di durata), tocca l’apice in “Digos”, una storia poliziesca dura e antiretorica, traslata nella quotidianità romana e italiana.
Persone in cammino che inseguono le promesse del mondo, Papa Francesco evocato lungo il percorso, il lavoro antico di popoli antichi che serve oggi più che mai a comprare il pane, un senso di urgenza nel raccontare la tragedia dell’oggi in modo asciutto e cristallino, senza una parola inutile, senza mai giudicare la Storia che scorre.
Roma matrigna sempre sullo sfondo, trasfigurata nel “centro accoglienza alieni di Tor Sapienza”, celebrata nelle sue radici migliori con la storia di Ugo Forno, attraversata nelle sue svariate stratificazioni, “nasce Roma dal puzzo di fogna al cielo stellato”, capitale cianotica in “Digos” ma sempre irrinunciabile.
Un’opera di una bellezza scarnificata, complessa in ogni sua parte, scritta e composta in libertà e controllo assoluto, focalizzata sul presente delle migrazioni: Flavio Giurato si conferma oggi uno dei massimi songwriter italiani di sempre, in quanto riesce a esprimere un punto di vista originale sul mondo, senza ripiegarsi su se stesso. Un disco tragicamente bello per il tema trattato, potente per il tessuto musicale, magmatico nel suo svolgimento inarrestabile, senza compromesso alcuno: un disco necessario.