Andrea Caracausi è professore associato di Storia moderna presso l’Università di Padova e Presidente della Società italiana di Storia del Lavoro. L’intervista è a cura di Eloisa Betti.
Come è nato e si è evoluto il “progetto” SISLav?
La Società italiana di Storia del Lavoro è nata ufficialmente a fine 2012, dopo che un appello lanciato nel corso di quell’anno aveva raggiunto centinaia di firmatari, e a seguito di una serie di convegni e seminari preparatori. L’obiettivo principale di quel gruppo fondatore era quello di rimettere al centro del dibattito pubblico, così come di quello scientifico, il lavoro, fornendo un luogo d’incontro a chi, in precedenza, si dedicava alla sua analisi, ma lo faceva principalmente in maniera individuale o all’interno di piccoli gruppi isolati. Dal punto di vista scientifico ci proponevamo di adottare una duplice ottica: da un lato guardare il lavoro in una prospettiva di lungo periodo, dall’antichità all’età contemporanea; dall’altro di aprire un dialogo interdisciplinare, coinvolgendo le altre scienze sociali e umane. Eravamo – e siamo ancora – convinti che, nel pieno rispetto della specificità degli interessi di ogni singolo studioso, un confronto fra epoche e approcci diversi sia decisivo per comprendere persistenze e cambiamenti nel tempo passato e nel presente.
Non è semplice riassumere l’evoluzione di quel progetto, per la ricchezza delle attività che si sono susseguite, l’entusiasmo e l’energia di chi vi ha partecipato. Mi piace ricordare soprattutto: la comunità che abbiamo con tenacia costruito, tramite un gruppo di soci ormai consolidato; il sito www.storialavoro.it, efficace e quotidianamente aggiornato, che permette di conoscere le novità riguardanti la storia del lavoro, grazie anche ai numerosi canali social; il progetto editoriale, innovativo e capace di garantire l’alta qualità dei lavori a costi contenuti, sostenendo anche la pubblicazione di ricerche originali attraverso il premio “Simonetta Ortaggi”; le numerose iniziative pubbliche, i seminari e i convegni. Non meno importante è l’impegno nell’ambito della formazione e nella collaborazione con il mondo sindacale. Insomma, mi pare che siamo riusciti a costruire un’associazione solida e visibile, grazie all’impegno di tutti i soci e, in particolare, di chi ha partecipato alle varie iniziative, dei componenti del Direttivo, della redazione web e dei gruppi di lavoro, che sono una delle ricchezze della Società.
Qual è stato il ruolo della SISLav nella “riscoperta” della storia del lavoro a livello internazionale?
La Società è nata in una fase di ripresa dell’interesse per le tematiche del lavoro grazie anche al lavoro di numerose giovani leve della ricerca, sia in Italia sia all’estero. Questo è testimoniato dal fatto che abbiamo avviato collaborazioni con Società nazionali consorelle, sia a livello europeo sia transcontinentale, contribuendo alla formazione di reti internazionali. Non è un caso che la SISLav abbia anche giocato un ruolo importante nell’organizzazione del primo convegno dell’European Labour History Network, tenutosi nel dicembre 2015, grazie soprattutto all’entusiasmo e al lavoro dell’allora Presidente, Stefano Musso. In quell’occasione abbiamo dato conferma delle nostre capacità e, lo dico senza false modestie, quando andiamo all’estero, siamo sempre oggetto d’ammirazione e simpatia per il nostro dinamismo e le nostre aperture.
Il fatto che il lavoro e la sua storia siano stati riscoperti, non può del resto meravigliare: dopo un periodo dominato dal trionfo della grande impresa e dalle multinazionali, dove l’imprenditorialità era vista come il motore dello sviluppo economico, ci si è accorti che questa cosiddetta “crescita” aveva un prezzo in termini di disuguaglianze a livello locale e globale, di crescente precarietà, del peggioramento delle condizioni salariali, dell’espulsione di uomini e, soprattutto, donne dal mercato del lavoro, e perfino la loro riduzione in forme di schiavitù “moderna”. Ci si è chiesti se veramente il lavoro fosse giunto alla sua “fine”, per parafrasare il famoso libro di Jeremy Rifkin, o se non ci trovassimo piuttosto di fronte a una delle ennesime ristrutturazioni globali del capitalismo; ci si è domandati come mai si fosse giunti a questo punto, quali forze, quali processi influenzassero la vita dei lavoratori e delle lavoratrici nella loro sfera economica, sociale, politica e culturale. Siamo, quindi, tornati a porci alcune domande che sono cruciali per la vita sociale di donne e uomini, grazie anche all’utilizzo di un concetto di lavoro più ampio, che includesse il più possibile tutte le forme di lavoro esistenti, senza cercare un unico modello interpretativo, il più delle volte visto in chiave teleologica.
Quali sono i principali mutamenti avvenuti nella storia del lavoro in Italia a 50 anni dalla pubblicazione del libro di Luigi Dal Pane La storia come storia del lavoro?
Quando rileggo alcuni passi de La storia come storia del lavoro (e in particolare il relativo capitolo X) penso che siamo sicuramente andati avanti per quanto riguarda l’approfondimento di alcuni temi, l’utilizzo di concetti e metodologie (figlie ovviamente dei rispettivi tempi), l’acquisizione di nuove conoscenze in certi ambiti. Penso anche, però, che siamo rimasti tremendamente fermi, se non addirittura abbiamo indietreggiato, in relazione a quello che era il progetto scientifico di Dal Pane. Mi spiego. Dal Pane concepiva la storia del lavoro non come una semplice storia speciale, ma una storia che non perdeva mai di vista la storia generale, partendo dal presupposto che nessuna opera dell’uomo, anche la più modesta, poteva essere disconosciuta o negletta. Una ricerca per totalità, insomma, che – per riprendere le sue parole – raccogliesse materiali capaci di dare ai nostri giudizi il senso dell’equilibrio e delle proporzioni e che fosse poi funzionale a intendere il presente, vero lavoro della ricerca storica. Oggi, invece, vi è l’idea – totalmente errata a mio avviso – che fare storia del lavoro significhi fare storia settoriale, chiudendosi in un orticello e studiando un piccolo aspetto. Un errore che compiono non solo i detrattori, ma anche molti studiosi, anche di spessore, che la praticano. Da un lato, infatti, chi si occupa di schiavitù non parla con chi studia il salariato (e viceversa), dall’altro, invece, c’è l’idea che si possa capire la servitù senza studiare il più ampio sistema feudale all’interno del quale era inserita. E, così facendo, oggi non si capiscono appieno le schiavitù moderne perché non si guarda in maniera più ampia al capitalismo globale d’inizio XXI secolo. C’è, poi, una grande attenzione alle metodologie e alle definizioni, laddove invece al centro delle nostre ricerche dovrebbero tornare le domande: questioni che, soprattutto, ci permettano di ricostruire le interazioni, le negoziazioni, i conflitti e le strategie di gruppi e individui. Una storia del lavoro che quindi non divida ancor più la conoscenza, ma che contribuisca a evidenziare alcune rilevanze e fornisca alcuni strumenti per la comprensione del presente, senza per questo voler essere elitaria o esclusiva.
Quali sono le prospettive per l’insegnamento della storia del lavoro nel nuovo millennio?
L’insegnamento della storia del lavoro ci offre una grande possibilità, perché permette di educare le giovani generazioni alla comprensione di temi centrali nel mondo presente. Penso alle diverse forme del lavoro, che ho in parte ricordato prima: dallo sfruttamento del lavoro alle nuove schiavitù, dalle differenze di genere all’importanza del lavoro in famiglia e del lavoro riproduttivo, dal lavoro domestico e di cura alla rinnovata centralità del lavoro autonomo, fino alle nuove forme di lavoro a domicilio e di pluriattività. Ma penso anche, poi, alle forme di resistenza e alla tutela dei diritti, ai multiformi processi con cui si formano le classi e al ruolo – non necessariamente esclusivo – che il lavoro svolge nella costruzione dell’identità di una persona. Insegnare tutto questo è una sfida; farlo in una prospettiva di lungo periodo, leggendo e discutendo libri e articoli sul lavoro forzato nell’antica Mesopotamia, sui cantieri medievali, sulle piantagioni settecentesche e sul lavoro a domicilio novecentesco, tanto per fare alcuni esempi, può aiutare gli studenti e le studentesse a far comprendere meglio la complessità del mondo in cui vivono, educando le giovani generazioni a evitare di guardare solo al presente e cadere nell’idea che tutto sia nuovo, in continuo mutamento, che nulla abbia una storia e che, quindi, non possiamo trovare elaborare risposte ai problemi che ci affliggono o guardarli sotto una diversa prospettiva.
Di recente la SISLav ha iniziato a muovere importanti passi in questa direzione: dopo un primo incontro seminariale, abbiamo organizzato in collaborazione con l’Istituto di storia contemporanea di Ferrara, fra dicembre e settembre 2017, un corso di formazione rivolto agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie nei confronti di temi inerenti il lavoro, in un’ottica di lungo periodo dall’antichità a oggi e intitolato “Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?” La storia come storia del lavoro dall’antichità a oggi. Questa progettualità si sta ampliando e sta guardando ora anche al mondo sindacale e, soprattutto, all’università, poiché solo formando con rigore e competenza nuovi studiosi e inserendo a pieno titolo la storia del lavoro nella storia tout court si può svolgere quell’opera di valorizzazione della questione “lavoro” che ci siamo proposti con la nascita della Società. Certo, il contesto nel quale ci muoviamo è, se vogliamo, drammatico, dal momento che gli insegnamenti di storia del lavoro si contano sulle dita di una mano a fronte di un proliferare degli specialismi anche nelle lauree magistrali. Ma non dobbiamo scoraggiarci e, anzi, l’entusiasmo di nuove leve della ricerca interessate a capire il lavoro (quel mondo con il quale devono combattere ogni giorno) deve essere uno stimolo a organizzare nuove forme e occasioni d’incontro per la formazione. Con questo fine, per esempio, nel corso del 2018 organizzeremo una scuola estiva. Più in generale, è evidente la necessitá di favorire l’apertura di una discussione ampia sull’insegnamento della storia e sul suo ruolo nella formazione delle giovani generazioni.
Qual è il rapporto della SISLav con la public history e le digital humanities?
Farei una premessa: penso che qualsiasi forma, modalità e strumento che avvicini il pubblico alla storia sia lodevole e meritoria, in particolare in un periodo in cui la disciplina specifica e le scienze umane in generale stanno affrontando un momento di attacco e crisi rispetto ad altre forme del sapere più dominanti. La SISLav del resto, come ho già ricordato, si è sempre posta in maniera aperta al dialogo con altre discipline. Concretamente, poi, abbiamo fin da subito sostenuto la necessità di un incontro con il mondo “esterno” all’accademia e con la ricchezza e varietà di contesti in cui il lavoro è tema di iniziative, ricerche militanti, archivi della memoria: la nostra assemblea annuale nel 2015 (a soli tre anni dalla fondazione della Società) ha affrontato direttamente questi temi in collaborazione con operatori di musei, archivi storici, associazioni culturali. Del resto, e purtroppo, gran parte delle nuove generazioni svolge il suo percorso, in forme più o meno precarie, al di fuori dell’accademia, in associazioni e gruppi che curano la memoria del lavoro e la salvaguardia di esperienze di lavoro che oggi rischiano sempre più di scomparire a causa di miopi visioni politiche che considerano la cultura come qualcosa di improduttivo. La SISLav vuole così essere uno spazio di confronto, discussione e conoscenza reciproca, di circolazione di idee ed esperienze in tutte le attività di divulgazione, diffusione ed elaborazione di senso comune intorno al lavoro ed alla sua storia. Al rapporto con le digital humanities, poi, si lega tutta una riflessione che da poco abbiamo iniziato sulla situazione degli archivi e su tutti i problemi di tutela e valorizzazione della documentazione, questione che senza dubbio rappresenta un punto d’incontro tra le esigenze della storiografia scientifica e le iniziative di impegno sul territorio di gruppi e associazioni.
Tutto questo, però, non deve far dimenticare alcuni punti che ritengo essenziali. Il primo è la necessità di evitare, in seno all’Associazione come in altri contesti, le divisioni, le contrapposizioni e gli isolamenti che hanno contribuito a impoverire, in un verso o nell’altro, la scienza storica. Per dirla in altri termini: non esistono, nella SISLav, storici di uno o dell’altro tipo, “veri” storici o storici “del futuro” (come purtroppo sento dire in più contesti), così come non esistono modi privilegiati di fare o di comunicare la storia del lavoro, perché l’importanza di una ricerca non dipende dal contenitore con cui è trasmessa, ma dal contenuto e da come è stato realizzato. Il secondo punto – e il più importante – risiede nel fatto che la centralità delle domande è più importante dei temi, delle metodologie e delle forme di comunicazione: perché solo concentrandoci su quelle potremo contribuire a far conoscere la complessità del mondo che ci circonda.