La fotografia può agevolare la costruzione di una nuova alleanza tra il rigore delle discipline storiche e l’arte della comunicazione e del racconto. L’obiettivo è una forma narrativa che sia, al tempo stesso, rigorosa e avvincente, esigente e popolare. La cooperazione tra storiografia e “altre narrazioni” sembra auspicabile per molti motivi. Il primo fra tutti è l’avvenire delle nostre scuole e università; ha a che fare quindi con la trasmissione culturale della conoscenza storica e richiama la necessità di uno sforzo comune per contrastare l’ignoranza della storia e la scomparsa del sentimento di essa nelle nuove generazioni.
In una intervista compresa in questo numero di “Clionet”, Roberto Grandi ricorda che una immagine non ha mai una sola interpretazione, ma contiene «una sovrabbondanza di senso»: una immagine racconta molte più cose di quelle che si percepiscono a una prima visione. Se per lo storico la fotografia rimanda alla realtà di un determinato periodo, per un narratore è qualche cosa di più. La narrazione tiene conto della documentazione fotografica, ma ne privilegia «le assenze, le ambiguità, i bordi». Narrare le molte storie che stanno all’interno di una determinata immagine è una grande opportunità che si offre alla comunicazione storica. La public history, prosegue Grandi, «si muove su questo crinale del verosimile» e fa sì che sia possibile partire da una immagine fotografica per creare un grande storytelling.
La fotografia sollecita, dunque, gli storici a fare i conti con essa, con il portato di ambiguità che le è proprio e che non può mai del tutto essere eliminato. «Li stuzzica con la sua forza», secondo le parole di Stefano Bartolini, per le vastissime possibilità che apre nel campo del fare e narrare storia. Il nostro Dossier intende portare alcuni esempi in questo senso, attraverso percorsi per immagini lungo il Novecento capaci di restituirci visioni d’insieme e snodi cronologici fondamentali, ma anche idee e passioni, biografie e luoghi, svariando dalla scala locale a quella transnazionale.
Nel contributo di apertura, Alberto Ferraboschi si impegna tempestivamente in una riflessione sull’esito delle celebrazioni del centenario della Prima guerra mondiale, assumendo come osservatorio privilegiato la città di Reggio Emilia. Un percorso per immagini che accompagna il testo ci introduce a una molteplicità di “microstorie” e a una gestione complessa della memoria del conflitto. Nel complesso, sembra profilarsi uno scambio virtuoso tra i risultati della discussione scientifica nazionale e regionale sulla Prima guerra mondiale e le sue ricadute sul piano della narrazione pubblica locale, con un apprezzabile contributo in termini di rivitalizzazione e radicamento della memoria della guerra sul piano del senso storico comune e sanando anche antiche “amnesie” legate alle lacerazioni dell’esperienza bellica.
A seguire, il saggio di Alessandro Luparini propone, attraverso un lavoro di attenta critica storica, una densa carrellata di immagini tratte dalla Cronistoria del fascismo ravennate dal 1921 a tutto il 1925, opera del fotografo Ulderico David oggi conservata dalla Biblioteca Oriani di Ravenna. Al momento dell’avvento del fascismo David aveva da poco passato i 40 anni ed esercitava la professione di fotografo da una decina di anni. Per la sua epoca, è un fotografo sui generis, che non fotografa su commissione ma documenta il suo tempo, proponendo mediante le immagini un racconto personale degli avvenimenti, che lo storico interpreta e contestualizza.
L’intervento successivo, firmato da Mattia Brighi, tematizza il rapporto tra biografie, carte personali e fotografie di famiglia, ricostruendo la vita dimenticata dell’antifascista cesenate Oddino Montanari. Una narrazione resa possibile da fotografie e documenti ancora conservati dalla figlia Norma e prima di lei dalla moglie Vittoria. I “cassetti” familiari riservano non di rado belle sorprese: nel caso di Montanari, le lettere sono centinaia e decine le fotografie che accompagnano tutta la sua esistenza: dall’Italia al Sud America, dalla Spagna alla Francia, tappe di una “vita globale” che attraversa la prima metà del Novecento.
Con il contributo di Stefano Bartolini arriviamo al secondo dopoguerra con due percorsi espositivi, recentemente promossi dalla Fondazione Valore Lavoro di Pistoia, incentrati sul mondo mezzadrile e su quello industriale nell’Italia centrale, e segnatamente in Toscana. L’obiettivo non è tanto quello di tratteggiare la trasformazione “da contadini a operai”, quanto riportare alla luce, nel primo caso, la mobilitazione sociale e politica dei mezzadri e nel secondo la presenza, ancora in qualche misura palpabile, del movimento operaio novecentesco.
Il saggio di Enrico Biasin affronta il contesto italiano degli anni Cinquanta e Sessanta dal punto di vista culturale e simbolico, esponendo i primi risultati di una ricerca innovativa su cinema e mascolinità. L’autore propone una descrizione della figura del giovane uomo italiano del “boom” industriale che fa leva sulla dimensione spettatoriale della sua soggettività. La ricerca si avvale di una sezione etnografica basata sulla raccolta di questionari e di interviste a testimoni maschi, nonché la contestuale collezione di materiali documentali biografici: fotografie, diari e scritti vari.
Eloisa Betti e Marta Magrinelli ci accompagnano lungo un articolato percorso nel fondo fotografico dell’Unione Donne in Italia (Udi) di Bologna, costituito da oltre 3.000 fotografie che documentano iniziative e attività organizzate e sostenute dall’associazione a Bologna, e in altre città italiane, dalla seconda metà degli anni Quaranta del Novecento fino ai primi anni Duemila. Le vere protagoniste del fondo sono le donne, bolognesi, italiane e persino straniere, ritratte sia collettivamente che individualmente in spazi pubblici e privati. I grandi temi che emergono attraverso le carte e le fotografie sono quelli dell’infanzia, della solidarietà, delle relazioni internazionali e della pace, del lavoro, dei servizi sociali e della maternità, del divorzio e del diritto di famiglia.
Nel saggio successivo, Pietro Adamo analizza un aspetto centrale della controcultura degli anni Sessanta negli Stati Uniti e in Europa e, cioè, l’affascinante progetto di rivoluzione sessuale che la caratterizzava, articolato come un “piano” per abbattere la società tardocapitalista in nome del corpo e del piacere. Entro questo magmatico contesto si assiste anche alla legalizzazione della pornografia e alla sua trasformazione in fenomeno di massa, interpretato da molti sostenitori della liberazione come un contributo indispensabile alla distruzione della morale sessuale tradizionale.
Tornando alla dimensione regionale e locale, Fabrizio Monti ed Elena Paoletti ricordano quanto di buono si è fatto negli ultimi decenni nell’ambito della promozione archivistica con l’intento di rendere comprensibile e fruibile al pubblico dei non specialisti il patrimonio dei piccoli e dei grandi archivi. Giustamente, si ritiene sempre più importante per un archivio “portarsi fuori”, entrare in relazione con il territorio, con le scuole. Ne è un esempio il lavoro realizzato con la mostra fotografica “Forlì, anni ’70: emancipazione, solidarietà, costituzione”, che ha avuto un duplice obbiettivo: da una parte, di valorizzare il fondo fotografico “Michele Minisci” e, dall’altra, di avviare una ricerca e una riflessione sulla città di Forlì negli anni Settanta e dintorni, attraverso l’analisi e la valorizzazione dei fondi documentali conservati presso l’Istituto storico cittadino.
Il Dossier si chiude con due lunghi e densi contributi di Romana Michelini dedicati alla documentazione fotografica conservata presso l’Archivio storico della Regione Emilia-Romagna; un patrimonio che riserva non poche sorprese al ricercatore. Se è vero, infatti, che l’Archivio storico regionale conserva prevalentemente la documentazione amministrativa della Regione a partire dalla sua nascita istituzionale nel 1970, non bisogna dimenticare che esso custodisce anche fondi di ragguardevole interesse storico provenienti da uffici statali trasferiti e contenenti documentazione risalente ad anni ben anteriori alla nascita della Regione stessa. Parallelamente al costante lavoro di riordino e di inventariazione dei materiali cartacei e progettuali, è stata avviata, ed è tuttora in corso d’opera, un’accurata attività di ricognizione, individuazione e descrizione analitica della documentazione fotografica allegata alle varie pratiche amministrative. A questo proposito, il primo articolo della Michelini fa riferimento, con particolare attenzione, ad un fondo archivistico come quello dell’Ente Delta Padano, poi Ente regionale di sviluppo agricolo (ERSA), attraverso il quale è possibile raccontare le conseguenze della Riforma agraria dei primi anni Cinquanta del Novecento che influenzarono notevolmente la realtà della zona del Delta Padano: l’attività di bonifica delle aree depresse e i piani di trasformazione fondiaria incisero non solo sulla morfologia del territorio ma anche sul suo assetto sociale.
Nel secondo e ultimo intervento, la stessa Michelini fa il punto sul nucleo fotografico più antico conservato dall’Archivio storico della Regione Emilia-Romagna, quello contenuto nei fondi archivistici che hanno origini storiche ed istituzionali tra Otto e Novecento provenienti dagli ex uffici statali del Genio Civile. Un incredibile patrimonio di immagini che copre l’intero XX secolo, trasmettendo una memoria sedimentata nel tempo sia delle persone riprese nel loro contesto di vita vissuta sia del territorio segnato da innumerevoli trasformazioni, naturali e artificiali.