Al di là delle “mode” storiografiche del momento, mi sembra il caso di ribadire come sia nelle ricerche a livello locale che risulta concretamente realizzabile l’obiettivo di intrecciare diversi livelli di indagine, quali la storia delle istituzioni, la storia sociale, la storia “di genere” e la storia comparata. Concentrarsi su un ambito di scala ridotto (locale/regionale) consente, da una parte, di fare interagire compiutamente questi diversi tipi di approccio metodologico; e dall’altra permette di costruire, parallelamente, percorsi di partecipazione (conferenze, mostre, interventi nelle scuole) che diano seguito alla convinzione – affermata da tutti i migliori manuali di didattica della storia, ma a volte dimenticata in ambito accademico – che l’utilità della storia come disciplina di studio e di ricerca è tanto maggiore quanto più alto è il sapere diffuso che essa genera.
La storia locale ha il pregio di praticare ancora un uso intensivo degli archivi e, dunque, delle fonti primarie, a differenza di quanto accade per molti studi transnazionali che sempre più spesso sono costruiti unicamente su fonti secondarie (cioè, la letteratura internazionale già esistente su un determinato argomento). Esistono percorsi di indagine che hanno peculiarità proprie per quanto riguarda le fonti e che richiedono necessariamente una lente d’ingrandimento assai potente, richiedono cioè di concentrare l’ambito di scala della ricerca a livello municipale o regionale: si pensi, ad esempio, alla storia del mutualismo e dell’associazionismo popolare, o alla storia delle autonomie territoriali. Ciò non impedisce, del resto, che indagini in campi ristretti conducano ad aperture ad ampio raggio, a patto che la storia locale, riesca a confrontarsi con orizzonti interpretativi più ampi. Capita sovente che dal locale si passi rapidamente al globale, seguendo ad esempio i percorsi tortuosi, ed umanamente avvincenti, dell’emigrazione economica e politica.
Proprio per questo la prospettiva locale, e il cortocircuito locale/globale che si può produrre in qualunque momento (a volte in maniera sorprendente!), sono utili al progresso della ricerca storica. Non si abbia dunque paura di essere troppo aderenti alle fonti (il rimprovero supponente che alcuni paladini della storia culturale e della word history – sempre meno “storici” e sempre più “scienziati sociali” in senso lato – fanno oggi a chi lavora ancora con impegno sulle fonti primarie), a condizione, come si diceva, di tenere aperto lo sguardo sul mondo e di non chiudersi in una dimensione localistica e di mera erudizione. Le fonti primarie costituiscono i mattoni di base sui quali poggia la ricerca storica e, a ben vedere, uno storico che non abbia esperienza e familiarità con le fonti primarie non dovrebbe essere considerato veramente tale.
Abbiamo detto del rapporto tra storia locale e metodologia della ricerca storica, proviamo ora ad approfondire il tema del rapporto tra storia locale e didattica della storia, già evocato in apertura. In un contesto che vede un’inedita accelerazione nei cambiamenti sociali e dei contesti ambientali, la conoscenza storica costituisce una componente fondamentale per rendersi conto delle trasformazioni in atto. Sappiamo bene che partire dal territorio di cui gli studenti, soprattutto i più piccoli, possono acquisire diretta esperienza, corrisponde a precise esigenze di carattere formativo, perché suggerisce importanti riflessioni sul passaggio dal “vicino” al “lontano”, dal familiare all’ignoto, dal concreto all’astratto. Dal punto di vista pratico-operativo, un percorso didattico di storia locale può partire dalle tracce lasciate dal divenire storico, grazie alla possibilità di sperimentarne direttamente la consistenza e, in questo senso, l’educazione al patrimonio appare come un approdo necessario, intendendo precisamente i beni culturali come eredità del passato che si manifesta nel presente. Si può partire, altresì, dalla raccolta di testimonianze orali su fenomeni ed eventi anche minori di storia della propria comunità: ciò consente a bambini e adolescenti di riflettere sulla stratificazione storica di un quartiere, di un paese o di una città, e sul succedersi di generazioni diverse, portatrici di esperienze e di storie di vita proprie, ponendo anche le basi per sviluppare l’idea di una responsabilità transgenerazionale verso i beni comuni. Sul piano formativo la storia locale è in grado di contribuire in maniera significativa alla formazione dell’identità personale, al suo radicamento, alla sua integrazione in un determinato contesto, rinsaldando la “zolla” dei legami culturali e sociali di cui ognuno di noi è portatore. In estrema sintesi, la dimensione locale può essere utilmente sperimentata come una porta di accesso alla conoscenza storica e, in questo senso, esiste un nesso significativo tra il concetto di formazione e quello di “educazione al patrimonio” per il comune impegno a sviluppare processi di apprendimento “attivo” attraverso il contatto e il dialogo con le fonti.
Qui naturalmente entrano in campo anche le potenzialità didattiche della Public History e vale dunque la pena approfondire le ragioni del crescente successo di questa disciplina, che ha stabilito un rapporto molto forte e proficuo con la dimensione digitale e multimediale, proprio per consentire il più ampio accesso e la più ampia partecipazione alla conoscenza storica. La Public History è la storia narrata, rappresentata e comunicata per un pubblico ampio, di non specialisti, di non addetti ai lavori. Questa espressione, che potremmo tradurre come “storia per il pubblico”, comincia a essere usata negli Stati Uniti e, più in generale in ambito anglosassone, verso la fine degli anni Settanta. Le sue origini si legano alla crescita della storia sociale e della storia delle donne, si lega cioè a una nuova attenzione che in quegli anni si afferma verso identità e gruppi sociali fino ad allora sostanzialmente esclusi dalle grandi narrazioni storiche, per poi arricchirsi degli spunti che arrivano nei decenni successivi dalla nuova storia culturale (la valenza culturale di spazi e luoghi, soprattutto in ambiente urbano) e della nuova storia politica (l’importanza delle biografie, dei percorsi individuali e collettivi).
Se i luoghi deputati alla ricerca storica sono in primo luogo i dipartimenti universitari, e se i luoghi destinati alla didattica della storia sono per antonomasia le scuole di ogni ordine e grado, credo che un primato nella Public History possa essere rivendicato o comunque conquistato con il tempo dagli Istituti storici e dalle loro reti regionali e nazionali, oltre che da quelle realtà associative e culturali che, negli ultimi anni, con sempre più efficacia, si muovono nel settore della comunicazione storica.
La Public History ha rapporti con la ricerca storica (che ne costituisce in qualche modo la premessa, il nutrimento, e che da essa talvolta riceve stimolo per ulteriori approfondimenti) ma se ne differenzia in quanto rifugge lo specialismo e il complicato formalismo accademico. La Public History ha, altresì, affinità con la didattica della storia, con la quale condivide un obiettivo di chiarezza, di comprensibilità, di divulgazione. Ma rispetto alla didattica della storia, essa gode di maggiore libertà, di orizzonti più ampi, non avendo i vincoli legati ai programmi da svolgere e ai meccanismi di valutazione. Quel che è certo, la Public History può essere una risorsa importante per la didattica della storia, sia a livello scolastico che universitario.
Potenzialità che sono ben presenti anche in un progetto come Bologna metalmeccanic@. Percorsi di public history tra politica, fabbrica e territorio dal 1968 a oggi, co-promosso da Clionet insieme a Istituzione Bologna Musei, al Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna e a FIOM CGIL Bologna, che è stato recentemente presentato nel corso di una conferenza stampa tenutasi al Museo del Patrimonio industriale di Bologna (http://clionet.it/progetto-bologna-metalmeccanica). Intrecciando le acquisizioni della ricerca storica, le strategie comunicative della Public History e le raccomandazioni metodologiche della didattica della storia, il corso tematizzerà le trasformazioni che hanno caratterizzato in età contemporanea i luoghi della produzione e del lavoro tra deindustrializzazione e rigenerazione urbana. I luoghi della produzione e del lavoro, intesi come patrimonio culturale, offrono l’opportunità di aprire la scuola al suo contesto, coniugando lo spazio del territorio con il tempo che l’ha modellato e rendendo possibili percorsi multidisciplinari a partire dall’interconnessione e dal reciproco sostegno tra storia e geografia.
In conclusione, conviene fare chiarezza su un punto, soprattutto per quanto riguarda un contesto come quello italiano, che è stato per lungo tempo caratterizzato (a partire dal secondo dopoguerra fino almeno all’inizio degli anni Novanta) da un rapporto molto stretto tra ricerca storica e dimensione politico-partitica. Faccio riferimento alla confusione che si fa, spesso, nel nostro paese fra “uso pubblico della storia” e Public History. Sono due cose diverse, anche se esistono possibili margini di sovrapposizione. Mentre l’uso pubblico della storia allude a un intervento politico nel presente condotto attraverso un uso selettivo della storia, la Public History è una modalità di racconto e di narrazione che si pone un obiettivo, in senso lato, di educazione civica e formazione culturale. Conoscere il proprio passato e rendere leggibile l’esperienza umana nel tempo è una delle condizioni indispensabili per formare dei cittadini consapevoli e indipendenti. Un obiettivo di formazione ed educazione alla cittadinanza che non si dovrebbe coltivare solo a scuola, ma che dovrebbe essere un’opportunità che si offre anche in altre fasi e in altri contesti della vita pubblica a livello locale, nazionale e sovranazionale.