1. Introduzione
Per le discipline umanistiche sembra essere ormai una prassi consolidata quella di interrogarsi sul significato e sui limiti della propria funzione all’interno delle società odierne. A questa analisi non si sottrae il sapere storico, sul cui stato di salute vengono spesso formulate diagnosi raramente incoraggianti. In una contingenza storica come quella attuale in cui la possibilità stessa di una conoscenza obiettiva è insidiata da una insicurezza epistemologica profondamente radicata nel confronto pubblico e riassunta in concetti quali post-truth o alternative facts, il valore di una disciplina fondata sull’accertamento critico dei fatti si presta ad essere se non negato, quanto meno messo in discussione. In particolare, come rilevato da diverse voci della storiografia internazionale, ad ottenere scarso riconoscimento oggi sarebbe soprattutto la capacità della storia – e degli storici – di operare nel presente; di fornire attraverso un’analisi scientifica del passato strumenti concettuali in grado di arricchire la nostra comprensione degli attuali processi sociali e di orientare la nostra azione su di essi1.
Se si osserva lo sviluppo del ruolo svolto dalla storia nella cultura politica europea dal XIX secolo ad oggi, si sarebbe tentati di descriverlo come un processo di involuzione. Tra il XIX secolo e la prima metà del XX secolo nella disciplina storica confluivano due compiti: il primo consisteva nel creare una rappresentazione coerente della nazione, dei suoi valori e del suo posto nel mondo; il secondo implicava la trasmissione di tale narrazione ai cittadini al fine di costruire intorno ad essa l’immagine di una comunità che condivideva non solo le stesse radici ma anche lo stesso avvenire2. Tale funzione, mitopoietica e didascalica insieme, attraverso la quale l’elaborazione del discorso storico si saldava alla costruzione dell’immaginario nazionale, si è andata gradualmente indebolendo a favore di una concezione della storia intesa come un sapere autonomo, volto a ricostruire in chiave critica lo sviluppo delle narrazioni nazionali e dunque a svelarne il carattere deliberato e artificiale.
Nonostante la progressiva affermazione di uno iato tra storiografia e politica, il sapere storico mantenne nella seconda metà del Novecento una valenza civile, configurandosi come uno strumento di comprensione e partecipazione al discorso politico. Di recente la storia sembrerebbe aver rinunciato ad ogni residua interazione con la politica, prediligendo l’isolamento della ricerca e dell’accademia, in una sorta di allontanamento dal mondo che non ha mancato di suscitare critiche tra gli stessi storici. Il britannico David Armitage, ad esempio, ha ribadito il legame profondo tra storia e politica e ha auspicato un rinnovato dialogo tra i due ambiti, sostenendo che la conoscenza storica sia uno strumento interpretativo necessario per migliorare l’agire politico. Nelle parole di Armitage: «historical thinking […] can and should inform practice and policy today […] History […] is a critical science for questioning short-terms views, complicating simple stories about causes and consequences, and discovering roads not taken»3.
L’invito ad assumere un ruolo di primo piano nel dibattito politico ricorda agli storici di abbandonare un atteggiamento passivo davanti a quel fenomeno spesso insidioso che è l’uso del passato da parte delle autorità pubbliche. Diverse controversie affrontate oggi dai governi coinvolgono direttamente la storia, chiamano in causa il rapporto che abbiamo con il nostro passato. La storia e le memorie ad esso legate costellano il dibattito pubblico, diventano terreno di scontro tra fazioni politiche che evocano avvenimenti passati per avvalorare una tesi o giustificare una determinata azione. La storia, volente o nolente, è frequentemente chiamata in causa nelle analisi politiche4, nei dibattiti parlamentari e perfino negli atti legislativi. Il rischio di politicizzazione della storia non è certo un fenomeno recente ma oggi si presenta in forme diversificate e pone nuove criticità.
Attraverso l’analisi di tre casi di studio l’articolo si propone di esaminare i tentativi delle autorità pubbliche di disciplinare la trasmissione del passato, e di osservare in che modo il discorso storico e quello politico si intersecano. Nei casi considerati storia e politica si incontrano su due piani: il primo normativo, il secondo didattico. In entrambe le circostanze l’incontro tra discorso storico e autorità pubblica assume le forme di una competizione per affermare le rispettive prerogative sull’interpretazione del passato. Coinvolti in tale confronto troviamo, da un lato, i rappresentanti politici intenti a formulare un indirizzo interpretativo ufficiale della storia destinato, in alcuni casi, ad essere inserito con successo e nei codici penali e nei programmi scolastici; dall’altro, gli storici, impegnati a ribadire il carattere indipendente della conoscenza storica e a difendere la libertà della ricerca.
L’articolo procederà illustrando anzitutto le leggi della memoria storica (memory laws) approvate in Francia e in Russia volte a decretare, tramite l’intervento del legislatore, l’interpretazione di alcuni momenti chiave della storia nazionale. In secondo luogo passerà in rassegna il dibattito svoltosi in Gran Bretagna relativo alla rappresentazione e all’insegnamento dell’impero britannico.
2. Le memory laws in Francia e Russia
Le memory laws sono provvedimenti volti a tutelare giuridicamente l’esistenza di un fatto storico. Esse attribuiscono alla norma una funzione interpretativa, per cui quest’ultima non si limita a sancire la veridicità di un avvenimento storico ma lo inscrive all’interno di una precisa categoria giuridica (genocidio, crimine contro l’umanità ecc.). Fin dall’inizio degli anni Novanta, con un certo anticipo rispetto al resto d’Europa, la Francia ha fatto del diritto un baluardo in difesa della memoria storica5. Nel luglio 1990 venne approvato il provvedimento noto come legge Gayssot, dal nome del deputato comunista suo promotore, il quale istituiva il reato di negazionismo. Secondo l’articolo 9 della legge sarebbero stati puniti coloro che avessero negato l’esistenza dell’Olocausto secondo la definizione elaborata dal Tribunale Militare Internazionale di Norimberga6. Alcuni osservatori hanno individuato nell’articolo 9 della legge Gayssot l’origine di quell’inedita gerarchizzazione tra storia e diritto considerata dagli storici una minaccia alla libertà del lavoro storiografico. Secondo Françoise Chandernagor, vicepresidente dell’associazione Liberté Pour l’Histoire, «l’articolo 9 [della legge Gayssot] stabilì un pericoloso precedente […] le sentenze per la prima volta divennero sacre e intoccabili. Una nuova categoria legale – la verità storica – venne implicitamente creata»7. Chandernagor aggiunge inoltre un secondo capo d’accusa alla legge Gayssot, ovvero quello di aver innescato una vera e propria battaglia tra le memorie di alcune minoranze presenti all’interno della società francese, le quali si sentirono legittimate a richiedere un riconoscimento giuridico delle ingiustizie subite in passato.
Nel gennaio del 2001 venne approvata una norma, simile per impostazione alla legge Gayssot, la quale decretava l’esistenza del genocidio perpetrato dai turchi a danno della popolazione armena nel 1915. La legge definiva il massacro degli armeni un crimine contro l’umanità. Al pari della legge Gayssot, quella sul genocidio armeno suscitò forti critiche da parte degli storici francesi che non mancarono di sottolineare sia l’ambiguità di una legge che si arrogava la facoltà di legiferare sulla storia di una nazione straniera quale la Turchia8, sia le ragioni di opportunismo politico che sembravano celarsi dietro di essa. Approvato in concomitanza con le elezioni, diversi osservatori videro nel provvedimento uno strumento volto a suscitare consenso presso la numerosa e politicamente attiva minoranza armena9.
L’elaborazione delle memory laws è da considerarsi in primo luogo una reazione alla diffusione di una storiografia negazionista di stampo neonazista che, fin dai tempi di Maurice Bardeche e Paul Rassinier, ha trovato in Francia un terreno fertile su cui crescere. Ma la codificazione del passato può essere considerata anche uno degli esiti del confronto dialettico tra storia e memoria. Assunta a nuova popolarità nel corso degli anni Ottanta, la nozione di memoria si distingue dalla storia per il diverso grado di obiettività: mentre l’indagine critica dello storico presuppone un certo grado di distacco rispetto all’oggetto di studio, la memoria pone a fondamento dell’interpretazione del passato i ricordi di chi lo ha vissuto. La memoria si basa, in altre parole, sul presupposto che ciò che conferisce forma e senso alla conoscenza del passato è l’esperienza del testimone. L’attenzione alla dimensione del ricordo e dell’esperienza comporta dunque uno spostamento del focus della ricerca «sull’agency, su colui che ricorda» e sulle modalità e i tempi in cui il ricordo è interpretato e trasmesso10. L’irruzione della memoria, nel discorso storiografico prima e nel dibattito pubblico poi, ha portato a una polarizzazione crescente tra la figura dello storico e quella del testimone, le quali si contendono il ruolo di depositari del significato della conoscenza storica.
Attualmente la lettura e la comunicazione del sapere storico avvengono all’interno di un contesto multipolare caratterizzato da un accesso sempre più democratizzato alle fonti storiche il quale consente a una composita massa di utenti di consultare fonti documentarie non sempre rispettose dei criteri di attendibilità, accuratezza e autenticità. Il dibattito sul passato si è perciò ampiamente espanso al di là delle analisi critiche dello storico e delle memorie del testimone, fino a coinvolgere un pubblico più o meno specializzato che va dal giornalista al comune osservatore11. Se davanti a una tale atomizzazione di memorie e interpretazioni gli storici devono tentare di salvaguardare la scientificità della propria disciplina, l’autorità pubblica affronta due imprese altrettanto ardue: mantenere la coesione sociale a fronte di gruppi che rivendicano e chiedono riconoscimenti ufficiali per le proprie ricostruzioni del passato, e preservare una narrazione coerente del passato nazionale, soprattutto quando ad essere contestata è l’interpretazione di eventi sui quali si costruisce l’idea che una società ha di se stessa. Assumendo come punto di vista quello dello Stato, le memory laws possono essere intese come il mezzo attraverso il quale l’autorità cerca di mettere ordine tra memorie divergenti e, allo stesso tempo, di eliminare il rischio di mistificazioni della conoscenza storica sottraendola al conflitto destabilizzante tra memorie e alle contraffazioni dei negazionisti12.
Tuttavia nel caso francese le memory laws sembrano aver fallito proprio nell’intento di pacificare il conflitto tra memorie. La legge Gayssot e quella sul genocidio armeno, tributando un riconoscimento al passato di gruppi determinati, non appianano il conflitto tra memorie divergenti e finiscono, al contrario, con il giustificare le critiche di coloro che vedono nelle memory laws degli strumenti che operano non per la ricomposizione delle memorie ma per una loro ulteriore divisione e rimozione: «although memory laws attempt to protect social harmony, their exclusionary reality in fact harms social harmony by provoking bitterness […] from those left on the outskirts of the State’s sympathies»13.
Tale contraddizione emerge chiaramente dall’analisi della legge del 23 febbraio 2005 la quale riconosceva il ruolo positivo svolto dalla colonizzazione e cercava di introdurre tale interpretazione nei programmi d’insegnamento. L’articolo 4 della legge prescriveva che i programmi d’insegnamento descrivessero la colonizzazione francese del Nord Africa come un fenomeno positivo e tributassero il giusto riconoscimento ai soldati che avevano prestato servizio nelle colonie d’oltremare14. Benché destinato a una breve esistenza, venendo abrogato appena un anno più tardi, l’articolo 4 fece della legge sul colonialismo una delle memory laws più detestate. La reazione degli storici fu pressoché unanime nel criticare un provvedimento che non si limitava ad accertare l’esistenza di un fatto ma stabiliva i termini in cui un intero processo storico andasse interpretato e che, nel suo tentativo di introdurre l’idea di una verità storica di Stato, minacciava a un tempo la pratica storiografica e democratica della Francia.
La legge inaspriva inoltre il confronto pubblico sulle memorie legate al passato coloniale francese. Come ha notato Thierry Le Bars, professore di diritto all’università di Caen, la legge sul colonialismo si basava su un procedimento inverso rispetto alle precedenti leggi della memoria: non l’accertamento di un crimine, bensì la sua rimozione. La complessità e le contraddizioni del colonialismo venivano cancellate da una norma che ne imponeva una lettura virtuosa, nella quale le violenze commesse dall’amministrazione coloniale, in particolare quelle a danno della popolazione algerina, venivano sottaciute anziché accertate15. Così formulata la legge precludeva la coesistenza pluralista tra memorie storiche diverse e cercava anzi di escludere i ricordi delle vittime dei soprusi coloniali e dei loro discendenti16.
In generale, tutte le leggi della memoria sono state giudicate dalla comunità accademica francese come una minaccia all’autonomia della ricerca nonché come un serio ostacolo al mantenimento di un rapporto consapevole tra la società contemporanea e il passato nazionale. Nel confronto tra Stato, giudici e storici questi ultimi hanno costruito la propria opposizione alle memory laws sulla base di due argomentazioni. Gli storici hanno innanzitutto denunciato i rischi derivanti dal sostituire la storia e il suo metodo con la memoria, facendo di tale strumento soggettivo e immediato la sola lente attraverso cui analizzare il passato. Come osservato da Pierre Nora «la tendenza generale a reinterpretare e giudicare il passato attraverso la memoria conduce alla soppressione di qualsiasi ragionamento storico» che sia fondato sulla messa in discussione del punto di vista di colui che ricorda anziché sulla sua sacralizzazione17. I ricercatori, inoltre, operando dentro un contesto gioco forza condizionato dalla verità storica scelta dallo Stato e difesa dal diritto, sarebbero meno propensi a sostenere delle tesi che potrebbero essere considerate una violazione della legge. In secondo luogo gli storici hanno ribadito l’esistenza di una divisione netta tra il proprio campo d’azione e quello dei poteri pubblici, affermando che non spetta all’autorità legittimare una particolare interpretazione del passato e bandirne un’altra. La separazione dei ruoli si rivela, al contrario, necessaria per assicurare la possibilità di una ricerca storica indipendente, libera dalle logiche del consenso che sono parte costitutiva dell’attività politica e che, secondo il giudizio di alcuni storici, sono anche alla base delle memory laws. Particolarmente severo è, a tal proposito, il giudizio di René Rémond secondo cui le leggi della memoria, nate con l’intento di punire coloro che definivano l’Olocausto un «dettaglio della storia», si sono trasformate in un espediente per riscuotere l’approvazione di gruppi sociali influenti, riducendo la storia «un ostaggio, un intermediario» all’interno di un confronto puramente politico18.
È possibile rinvenire lo stesso intreccio tra storia e politica anche nel caso del piano di codificazione della storia elaborato dal governo russo tra il 2009 e il 2014, volto a fissare la narrazione del ruolo svolto dall’Unione Sovietica nella lotta contro il nazismo. Il 9 maggio 2009 il partito di governo Russia Unita presentò per la prima volta una proposta di legge contro la riabilitazione del nazismo nelle ex repubbliche sovietiche, iniziativa alla quale fece eco la decisione dell’allora presidente Dmitrij Medvedev di istituire una commissione che vigilasse sui tentativi di falsificazione del passato. In particolar modo la legge avrebbe dovuto contrastare la campagna di disinformazione condotta dai «media occidentali […] contro la Russia e la sua storia»19. La bozza presentata nel 2009 affermava che, tra gli obiettivi della legge, vi erano quelli di “combattere la riabilitazione del nazismo, dei criminali nazisti o dei loro collaboratori, nei territori delle ex repubbliche sovietiche e di «ostacolare la profanazione delle vittime della Grande guerra patriottica e preservarne la memoria»20.
Dopo averlo accantonato tra il 2010 e il 2013, il parlamento tornò a discutere il progetto di legge finendo con l’approvarlo il 23 aprile 2014. Il testo finale, oltre a ribadire la condanna per il reato di apologia del nazismo, rendeva perseguibile anche la diffusione di informazioni volte a dileggiare la memoria della «gloria militare» russa21. Il percorso di approvazione della memory law riflette il mutamento degli equilibri sia nella politica interna russa – caratterizzata da una «svolta conservatrice» e dall’accentuata importanza riservata all’eredità sovietica nel discorso pubblico22 – sia nella politica estera, contrassegnata da una crisi nei rapporti tra la Russia e l’occidente europeo, culminata con l’invasione della Crimea da parte dei russi nel 2014, anno in cui la legge è stata approvata23. Secondo alcuni osservatori la legge contro la riabilitazione del nazismo avrebbe fornito un utile strumento al governo russo, quasi del tutto isolato sul piano internazionale, per consolidare il fronte interno attraverso una norma che non solo si poneva a tutela di una vulgata agiografica del passato nazionale, ma la cui retorica contro «i nazisti e i loro collaboratori» si rivelava anche funzionale a rafforzare la propaganda contro la resistenza ucraina, definita dai media di Stato russi come filo-nazista24.
Rispetto al caso francese si possono notare significative differenze. Se in Francia l’elaborazione di una lettura istituzionalizzata del passato era frutto di un confronto interno allo Stato e alla società francese, in Russia la memory law nasce come reazione a un processo di revisione storiografica elaborato da elementi che sono descritti estranei od ostili al popolo russo. Secondo i suoi promotori la legge è nata difatti per proteggere la memoria del sacrificio compiuto dall’Unione Sovietica (URSS) nella Seconda guerra mondiale e per difendere l’immagine del soldato sovietico come «soldato liberatore» dalle parole di chi ne vorrebbe fare un sanguinario invasore25. D’altra parte, se alcuni dei più accaniti critici delle memory laws francesi hanno rimproverato a queste ultime di criminalizzare il passato della Francia e dunque l’operato della nazione francese, alla legge russa è sottesa al contrario un’idea della nazione come vittima, impegnata in una lotta per preservare l’autentico significato del proprio agire storico.
La contesa che la Russia ritiene di combattere in difesa della propria memoria storica si svolge su un fronte ben preciso, ovvero lungo il confine che separa Mosca dagli Stati baltici. Le relazioni russo-baltiche, in seguito al crollo dell’URSS e all’ingresso di Estonia, Lettonia e Lituania nell’Unione Europea (UE), sono state caratterizzate da forti tensioni politiche che in parte derivano da un complesso confronto identitario, il quale chiama in causa il diverso significato attribuito dai quattro Paesi allo stanziamento dei sovietici nei territori baltici nel 1940, in seguito alla firma del patto Molotov-Ribbentrop. Se per la vulgata ufficiale del governo russo le popolazioni baltiche decisero di federarsi spontaneamente all’URSS, al cuore delle narrazioni degli Stati baltici vi è il ricordo di un’occupazione violenta che determinò la fine dell’indipendenza nazionale26. La dissonanza nel modo di concepire un medesimo evento storico non potrebbe essere maggiore. In tempi recenti, la decisione da parte delle repubbliche baltiche di rimuovere i simulacri dell’era sovietica è stata tacciata dai rappresentanti del governo di Mosca come un «tentativo di negare l’identità della Russia»27. È il caso, ad esempio, della rimozione del memoriale dedicato ai soldati sovietici dal centro di Tallinn, giudicata dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov come un «atto di blasfemia»28.
La legge che penalizza la produzione di una storiografia critica nei confronti dell’URSS è soltanto uno degli strumenti con cui la Russia ha cercato di ostacolare il revisionismo baltico. Ad essa va infatti aggiunta l’introduzione di una politica culturale volta a propagandare l’identità nazionale russa incentrata su una ricostruzione mitizzata della Russia sovietica. Tale indirizzo ha influenzato da vicino il modo di concepire e di insegnare la storia. A partire dal 2009 il governo ha lanciato e perfezionato una riforma del curriculum storico, favorendo l’introduzione di un indirizzo «incentrato sugli ideali patriottici» e prescrivendo l’adozione di manuali scolastici che rileggono la storia attraverso le direttive del governo29. I nuovi libri di testo si distinguono per la descrizione nostalgica e fortemente ideologizzata dell’era sovietica, la quale viene fatta coincidere con l’acme della nazione russa30. Seguendo la volontà del nuovo indirizzo storico, i manuali dedicano un’attenzione particolare alla figura di Stalin, il cui operato è giudicato positivamente sia sul fronte della politica interna (in particolare si sottolinea la modernità delle misure economiche adottate dal dittatore)31, sia sul fronte della politica estera (in tal caso si celebrano la partecipazione vittoriosa alla guerra contro il nazismo e la condotta mantenuta durante la guerra fredda, considerata come l’esito delle provocazioni americane)32.
Davanti a un revisionismo ritenuto denigratorio, lo Stato è intervenuto per custodire una memoria del passato sovietico congeniale alla retorica nazionalistica del governo di Vladimir Putin. Eppure l’uso che le autorità russe fanno della storia non è puramente difensivo, come dimostrano le campagne propagandistiche promosse da Mosca nei territori delle repubbliche baltiche. Questo genere di interferenze sono state denunciate ad esempio dalle autorità di Vilnius, le quali hanno affermato che le distorsioni storiche diffuse dai media russi fanno parte di un’ampia strategia volta a delegittimare l’esistenza dello Stato lituano e che lo scontro sull’interpretazione del passato, lungi dall’essere una disputa tra di natura puramente storiografica, è parte integrante del conflitto che le ex repubbliche sovietiche, ormai inquadrate nell’UE e nella Nato, combattono contro la Russia in difesa della propria identità storica e della propria autonomia politica33.
3. Empire 2.0. Ricordare l’impero nella Gran Bretagna contemporanea
L’insegnamento della storia nelle scuole britanniche si è a lungo fatto carico del compito di trasmettere un’immagine costruttiva dell’identità nazionale. Nel 1988 il segretario all’istruzione Kenneth Baker dichiarò che l’obiettivo del curriculum storico avrebbe dovuto essere quello di tramandare «the spread of Britain’s influence for good throughout the world»34. In tempi recenti l’idea che la storia nazionale rischiasse di essere trattata senza la dovuta attenzione, insidiata da approcci transnazionali allo studio del passato, ha suscitato più di una preoccupazione nell’establishment britannico. Secondo alcuni osservatori era soprattutto la storia dell’impero britannico a correre il rischio di essere trascurata, se non addirittura deformata da un diffuso «senso di colpa post-coloniale»35. Eppure alcune indagini recenti condotte sui programmi d’insegnamento dipingono un quadro sensibilmente diverso, in cui l’impero non solo emerge come tema presente nelle aule scolastiche ma anche come un argomento trattato senza pregiudizi negativi da parte degli insegnanti36.
Ad oggi la memoria della tradizione imperiale sembra essere più presente che mai. L’impero è ancora un concetto carico di istanze valoriali e suggestioni culturali, come suggerisce l’inclinazione, da parte dell’industria dell’intrattenimento, ad offrire prodotti ispirati a una rappresentazione estetizzata e disimpegnata dell’epoca coloniale37. Ma la memoria dell’impero non pervade solo gli spazi immateriali della televisione e del marketing bensì anche quelli del dibattito pubblico, all’interno del quale l’idea di impero è riemersa con ricorrenza in seguito al lancio della campagna referendaria sulla permanenza della Gran Bretagna nell’UE.
La ricomparsa dell’impero come orizzonte di riferimento per una Gran Bretagna al di fuori del consesso europeo evidenzia i rapporti continui che intercorrono tra la rappresentazione del passato e il discorso politico del presente. In particolare il dibattito di seguito analizzato sul passato imperiale e sulle sue più opportune modalità di insegnamento riflette un discorso più profondo sul modo di concepire l’identità nazionale in un frangente storico in cui i britannici sono chiamati a ripensare i propri legami con il mondo esterno, sia da un punto di vista culturale sia, rispetto all’Europa continentale, giuridico.
Non è la prima volta, del resto, che si assiste a un mutamento – o all’invocazione di un mutamento – nel modo di insegnare l’impero. Possiamo anzi notare come i primi cambiamenti significativi nella trasmissione dell’imperial legacy siano avvenuti in concomitanza con una ridefinizione del ruolo della Gran Bretagna sul piano internazionale, dapprima con lo svolgersi della decolonizzazione e, in seguito, del processo di integrazione europea. Nei testi didattici pubblicati tra il 1950 e il 1970 il movimento di conquista che portò la Gran Bretagna a irradiare la propria influenza a livello globale era interpretato come il compimento della missione storica della nazione britannica, ovvero quella di estendere la civiltà alle cosiddette backward peoples38. Le prime crepe in questo modello apologetico comparvero intorno al 1972, in seguito alla pressione esercitata da gruppi di studiosi e insegnanti che si espressero a favore di un approccio didattico capace di fornire una visione critica del fenomeno coloniale39. L’introduzione di testi in cui l’impero veniva trattato come oggetto da analizzare, anziché come simulacro da celebrare, coincise con un evento che ad alcuni parve sancire la fine della vocazione globale della Gran Bretagna: di lì a poco, nel 1975, i britannici avrebbero votato a favore dell’ingresso nella Comunità Europea.
Benché nel tempo si sia registrato lo sforzo da parte di alcune forze politiche di perfezionare l’approccio critico al passato imperiale40, tra il 2010 e il 2013 si è assistito a una decisa inversione di tendenza. In corrispondenza con la rapida ascesa dell’ala euroscettica all’interno del partito conservatore e l’irrigidirsi dei rapporti tra Londra e Bruxelles, alcuni esponenti della maggioranza guidata allora da David Cameron espressero il desiderio di riesumare la narrazione apologetica della storia imperiale.
Il simbolo di questa restaurazione può essere identificato con la riforma del curriculum storico proposta nel 2013 dal segretario all’istruzione Michael Gove. Il nuovo programma avrebbe dovuto fornire agli studenti una conoscenza approfondita della storia britannica e illustrare il modo in cui «the British people shaped this nation and how Britain influenced the world»41. Sebbene le linee guida inserissero tra le finalità anche quella di spiegare gli sviluppi principali della storia mondiale, le vicende dei Paesi extra-britannici venivano considerate solo alla luce dei rapporti con la storia britannica. Tale approccio è esemplificato dalla tendenza a dare maggior rilevanza all’espressione locale di fenomeni transnazionali. Così ad esempio lo storico David Priestland ha criticato la vocazione insulare del programma commentando la parte relativa all’Illuminismo: «children will learn about the Enlightenment in England […] but Voltaire and Rosseau are worthy insofar as they had an impact on the British»42.
L’enfasi sulle specificità nazionali rispecchiava le dichiarazioni programmatiche di Gove secondo cui l’insegnamento della storia avrebbe dovuto essere mondato dei pregiudizi anti-patriottici e rendere il giusto tributo agli «eroi britannici»43. La convinzione secondo cui occorresse una diversa narrazione del passato nazionale, e in particolare dell’impero, era inoltre condivisa da Niall Ferguson e Andrew Roberts, chiamati in un primo momento ad assistere la redazione del nuovo programma. Sia Ferguson che Roberts si erano contraddistinti per aver affermato che l’imperialismo, giudicato da Roberts «an idea whose time has come again»44, potesse guidare la politica estera della Gran Bretagna nel XXI secolo.
La volontà di riproporre l’impero sia come simbolo storico della grandezza britannica, sia come un concetto capace di catalizzare un senso di appartenenza nazionale, è stata interpretata da un composito gruppo di osservatori più come un tentativo di reintrodurre una lettura politicizzata del passato che non come espressione di un piano volto a riqualificare l’insegnamento della storia, riconsegnando a quest’ultima la funzione di istruire i futuri cittadini sulle radici della comunità nazionale. La Royal Historical Society e la Historical Association hanno richiamato l’attenzione sull’importanza di insegnare agli alunni la storia dei popoli stranieri. Assumere come unico punto di vista sul passato lo sguardo della nazione britannica è stato giudicato un grave errore metodologico, soprattuto in relazione alla storia dell’impero. Come ha ricordato lo storico Anthony Seldon raccontare il British Empire significa spiegare una complessa realtà transnazionale, per comprendere la quale è necessario assumere la prospettiva tanto dei dominanti quanto dei dominati45. Il programma, caratterizzato da una prospettiva distintamente anglocentrica del fenomeno imperiale, non avrebbe potuto offrire agli studenti una lettura esauriente del passato coloniale, inteso come un processo in cui l’impulso a diffondere un progresso tecnico e culturale nei territori conquistati coesiste con l’esercizio della violenza nei confronti delle popolazioni subalterne. Come notato da un osservatore, le violenze perpetrate dall’amministrazione coloniale «are forgotten under the subtitle Britain’s global impact in the 19th century. Figures like Gordon of Khartoum and Clive of India are lauded as British heroes when in reality they were involved in the worst atrocities of the Empire»46.
Se alcuni hanno attribuito le mancanze del programma di Gove all’assenza di un serio confronto tra il Department for Education e le associazioni di storici, secondo altri esse rifletterebbero l’esistenza di un progetto politico perseguito dai tories volto a reintrodurre una concezione dell’identità nazionale britannica basata su un’artefatta omogeneità etnica e culturale47. La tesi secondo cui i tories avrebbero cercato di sovraimporre una lettura politica all’insegnamento della storia imperiale potrebbe essere accolta qualora si consideri l’importanza che diversi conservatori, molti dei quali appartenenti alla fazione euroscettica del partito, hanno attribuito all’idea imperiale nel corso della campagna per la Brexit.
L’impero come destino geostorico della nazione britannica ha rappresentato un topos ricorrente nella campagna per il Leave, la quale ha saputo abilmente coniugare il tema della perdita-riconquista della sovranità con i riferimenti a un passato in cui il potere della Gran Bretagna appariva pressoché assoluto. Il bisogno di progettare una nuova gerarchia internazionale ha indotto i sostenitori della Brexit a rispolverare una tassonomia politica originariamente elaborata nei circoli imperialisti a partire dalla tarda età vittoriana. L’influenza dell’immaginario imperiale è ben evidente negli scenari economici post-Brexit immaginati dai conservatori. Così, ad esempio, il segretario al commercio internazionale Liam Fox ha denominato la propria strategia di riavvicinamento commerciale tra Londra e i Paesi del Commonwealth Empire 2.048. I progetti per costruire una Global Britain49, imperniati su un consolidamento dei rapporti con il Commonwealth, riecheggiano il mito vittoriano della Greater Britain, entità data dall’unione del Regno Unito con Canada, Australia e Nuova Zelanda – le ex settler colonies a cui l’attuale governo britannico guarda per rilanciare l’economia una volta conclusa l’uscita dal Mercato unico – che secondo i suoi fautori avrebbe permesso alla Gran Bretagna di preservare lo status di grande potenza in un momento storico in cui quest’ultima vedeva il proprio primato economico e militare insidiato dalla Germania e dagli Stati Uniti50.
Alcuni commentatori euroscettici hanno salutato la ricerca di una nuova partnership con il Commonwealth come il simbolo del ritorno della Gran Bretagna nel suo specifico luogo di appartenenza, il mondo dei popoli di lingua inglese, suggerendo però di sfruttare le possibilità offerte dalla Brexit per perseguire il progetto di riunione del ramo britannico e del ramo americano della stirpe anglosassone. Il sogno di un’unione pan-anglosassone, composta dalla Gran Bretagna, dalle ex settler colonies e dagli Stati Uniti, racchiuso nel concetto di Anglosfera, è stato presentato dai sostenitori della Brexit come un modello di integrazione sovranazionale alternativo a quello europeo. Mentre l’UE costituirebbe una forma associativa eretta forzatamente su un insieme di tradizioni culturali e interessi politici divergenti, l’Anglosfera rappresenta l’associazione spontanea di nazioni caratterizzate da un’omogeneità linguistica e culturale «which largely explain commonalities in terms of law, macroeconomics and foreign policy»51.
Il riavvicinamento al kith and kin del Commonwealth è un argomento di cui si è appropriato lo United Kingdom Independence Party (UKIP), il quale lo ha definito una tappa necessaria nel processo di restaurazione dell’identità britannica. Quest’ultima si sarebbe dissolta sotto l’influenza dell’europeismo ma anche a causa di una politica culturale perseguita dagli stessi governi britannici «[that] has spent decades undermining British values. It has casts […] Britain as a historical villain guilty of slavery, colonialism and other real and imagined wrongs»52. Davanti a quello che è percepito come un processo di alienazione materiale e intellettuale dell’identità nazionale lo UKIP ha incluso nel proprio programma un piano educativo intenzionato a utilizzare l’insegnamento della storia come laboratorio di ricostruzione della Britishness. Come si legge nella sezione relativa alla politica scolastica «UK schools would be required to teach about Britain’s contribution to the world, such as British inventions, promoting democracy and the rule of law and the role of Britain in fighting slavery and Nazism»53.
Benché la presenza dell’autorità pubblica nel dibattito sulla trasmissione della conoscenza storica sia stata piuttosto invadente, il caso britannico si discosta da quello francese e russo poiché, finora, la Gran Bretagna si è rivelata immune da quel processo di «giuridicizzazione del passato» che è all’origine delle memory laws54. Eppure il tentativo di regolare l’interpretazione del passato da parte del governo sembra essere animato da intenti affini a quelli che hanno ispirato le leggi della memoria in Francia e in Russia. Soprattutto, tale intervento regolatore suscita difficoltà e contrasti simili nei tre Paesi considerati.
Per quanto concerne le motivazioni, l’intervento da parte dell’autorità pubblica nella costruzione e legittimazione del discorso storiografico sembra essere funzionale, in tutti e tre i casi, al bisogno di proporre una narrazione politica capace di generare consenso all’interno della società e, soprattutto in Gran Bretagna e in Russia, di proiettare all’esterno una rappresentazione simbolica, ma cionondimeno suggestiva, della nazione. Accade così che la descrizione liturgica del passato imperiale diventa uno strumento nelle mani dei nazionalisti russi e dei conservatori britannici, entrambi alla guida di Paesi impegnati in una complicata ridefinizione della propria immagine a livello internazionale. Non sorprende dunque che, in entrambe le circostanze, la ricostruzione storica promossa dalle autorità non soltanto associ con insistenza il passato nazionale a idee positive quali modernità e progresso ma condanni al tempo stesso qualsiasi ricostruzione storiografica che si discosti dalla narrazione celebrativa come il frutto di una nociva cultura della colpa. «Non possiamo accettare di essere descritti come colpevoli»: questa dichiarazione, esternata da Vladimir Putin in occasione della presentazione dei nuovi manuali di storia55, sembrerebbe racchiudere il principio che ha ispirato la riforma del curriculum storico in Gran Bretagna e la legge sul colonialismo in Francia.
Sul versante delle conseguenze, non si può mancare di osservare che l’uso della storia come strumento di coesione politica ha finito, nel caso francese e britannico, col rinfocolare il conflitto tra memorie contrastanti legate al periodo coloniale. Le interpretazioni giuridiche e le costruzioni mitopoietiche contenute nei testi di legge e nei programmi scolastici sono rappresentazioni elaborate da gruppi pubblicamente influenti i quali, nell’intento di istituzionalizzare una particolare visione del passato, ne riducono le possibilità di lettura. Il confronto sulla storia diviene particolarmente insidioso quando ad essere legittimato è un unico punto di vista. Nel commentare il rinnovato interesse verso il progetto imperiale, uno storico britannico si è posto un quesito che appare cruciale: «what they – the peoples of the former empire and the current Commonwealth – felt about [the empire] then, and think about it now, rarely enters into this solipsistic debate»56. Parimenti, nel caso russo, l’uso della storia come arma nella lotta per l’affermazione della memoria nazionale russa, ha esacerbato il confronto con le ex repubbliche sovietiche e ha confermato il volto bifronte delle politiche della memoria, strumenti capaci di creare a un tempo coesione identitaria e dissidi tra concezioni diverse di uno stesso passato.
Note
1 John Tosh, Why History Matters, Londra, Palgrave, 2008; Ludmilla Jordanova, How History Matters Now, in “History and Policy”, 27 novembre 2008.
2 Wim van Meurs, History and Politics: Recommendations from a New Comparative Agenda, in Hannes Swoboda, Jan Marinus Wiersma (a cura di), Politics of the Past: The Use and Abuse of History, Vienna, Renner Institut, 2013, p. 87.
3 David Armitage, Why Politicians Need Historians, in “The Guardian”, 7 ottobre 2014.
4 Un esempio interessante in tal senso è la rinnovata popolarità di cui godono Tucidide e le sue Storie negli Stati Uniti. In seguito alla pubblicazione del libro di Graham Allison, Destined for War. Can America and China Escape Thucydide’s Trap?, diversi osservatori hanno iniziato a ritenere che il resoconto dello storico greco sulla guerra del Peloponneso possa offrire una chiave di lettura per interpretare le sfide poste alla politica estera americana. Tobin Harshaw, Can an Ancient Greek Win America’s War?, in “Bloomberg”, 25 giugno 2017.
5 In Europa la comparsa di provvedimenti per tutelare la memoria storica dagli attacchi del negazionismo si colloca tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. Una delle prime misure per contrastare il reato di negazionismo è contenuta nell’Azione Comune del 15 luglio 1996, la quale invitava gli Stati membri a introdurre delle pene contro l’apologia o “la negazione pubblica” di crimini contro l’umanità. Per approfondimenti si veda Uladzislau Belavusau, Historical Revisionism in Comparative Perspective: Law, Politics and Surrogate Mourning, EUI Working Papers, Firenze, European University Institue, 2013, pp. 1-21: 11.
6 Loi n. 90-615 du 13 juillet 1990 tendant à réprimer tout acte raciste, antisémite ou xénophobe.
7 Françoise Chandernagor, L’Historien sous le coup de la loi, Liberté pour l’Histoire, URL: http://www.lph-asso.fr/indexcafc.html?option=com_content&view=article&id=150&Itemid=179&lang=en.
8 Raffi Wartanian, Memory Laws in France and their Implications: Institutionalizing Social Harmony, Humanity in Action, URL: http://www.humanityinaction.org/knowledgebase/117-memory-laws-in-france-and-their-implications-institutionalizing-social-harmony.
9 Samir Durrani, Censored By Memory, in “Harvard Political Review”, 5 marzo 2014.
10 Stiina Löytömäki, Law and the Politics of Memory. Confronting the Past, New York, Routledge, 2014, p. 4.
11 Nadine Fink, Competition: The Power of Contemporary Witnesses, in “Public History Weekly”, 9 febbraio 2017.
12 Wartanian, Memory Laws in France and their Implications, cit.
13 Ibidem.
14 Loi n° 2005-158 du 23 février 2005 portant reconnaissance de la Nation et contribution nationale en faveur des Français rapatriés. Occorre sottolineare come le politiche della memoria storica francesi siano percorse da una incoerenza di fondo. L’articolo 4 della legge sul colonialismo è difatti in aperta contraddizione con la legge Taubira del maggio 2001, la quale definiva il commercio degli schiavi un crimine contro l’umanità ed esprimeva una netta condanna nei confronti del sistema coloniale.
15 French Angry At Law To Teach Glory Of Colonialism, in “The Guardian”, 15 aprile 2005.
16 Yifat Gutman, Memory Laws: An Escalation in Minority Exclusion or a Testimony to the Limits of State Power?, in “Law&Society Review”, 2016, n. 3, pp. 575-607: 601.
17 Pierre Nora, Malaise dans l’identité historique, Liberté pour l’Histoire, URL: http://www.lph-asso.fr/indexc927.html?option=com_content&view=article&id=152&Itemid=182&lang=en.
18 René Rémond, L’Histoire et la Loi, Liberté pour l’Histoire, URL: http://www.lph-asso.fr/indexe9e5.html?option=com_content&view=article&id=154&Itemid=184&lang=en.
19 Russia Acts Against “False” History, in “BBC News”, 24 luglio 2009.
20 Memorandum on the Russian Draft Federal Law “On Combating the Rehabilitation of Nazism, Nazi Criminals or their Collaborators in the Newly Independent States Created on the Territory of Former Union of Soviet Socialist Republics”.
21 Ivan Kurilla, The Implications of Russia’s Law against the “Rehabilitation of Nazism”, in “PONARS Eurasia Policy Memo”, 2014, n. 331, pp. 1-5: 2.
22 Ibidem.
23 Gutman, Memory Laws, cit., p. 589.
24 Kurilla, The Implications of Russia’s Law, cit., p. 3.
25 Gutman, Memory Laws, cit., p. 586.
26 Eva-Clarita Onken, The Baltic States and Moscow’s 9 May Commemoration: Analysing Memory Politics in Europe, in “Europe-Asia Studies”, 2007, n. 1, pp. 23-46: 37.
27 Eiki Berg, Piret Ehin (a cura di), Identity and Foreign Policy: Baltic-Russian Relations and European Integration, New York, Routledge, 2009, p. 30.
28 Estonia Removes Soviet-Era Monument After a Night of Violence, in “The New York Times”, 27 aprile 2007.
29 Tatyana Tsyrlina-Spady, Michael Lovorn, Patriotism, History Teaching, and History Textbooks in Russia: What Was Old Is New Again, in Joseph Zajda (a cura di), Globalisation, Ideology and Education Policy Reforms, vol. 14, Dordrecht, Springer, 2010, pp. 41-57.
30 Joseph Zajda, The New History School Textbooks in the Russian Federation: 1992-2004, in “Compare. A Journal of Comparative and International Education”, 2007, n. 3 pp. 291-306.
31 Leonid Bershdisky, Russian Schools to Teach Putin’s Version of History, in “Bloomberg”, 18 giugno 2013.
32 The Rewriting of History, in “The Economist”, 8 novembre 2007.
33 Secondo il governo lituano giornali e canali televisivi legati a Mosca sarebbero impegnati nella creazione di una storia alternativa intesa a spogliare la Lituania della propria sovranità affermando, ad esempio, che né Vilnius né Klaipėda apparterrebbero per diritto alla Lituania, bensì alla Polonia e alla Russia. Cfr. Lithuania Fears Russian Propaganda Is Prelude To Eventual Invasion, in “The Guardian”, 3 aprile 2017.
34 Mark Donnelly, Claire Norton, Doing History, New York, Routledge, 2011, p. 128.
35 Terry Haydn, How and What Should We Teach about the British Empire in English Schools?, in Joanna Wojdon (a cura di), Yearbook of the International Society of History Didactics, Schwalbach, Wochenschau Verlag, 2014, p. 25.
36 British Empire Study “Prevalent in Most Schools”, British Educational Research Association, 13 settembre 2016.
37 Kehinde Andrews, Colonial Nostalgia Is Back In Fashion, in “The Guardian”, 24 agosto 2016.
38 Susanne Grindel, The End of the Empire: Colonial Heritage and the Politics of Memory in Britain, in “Journal of Educational Media, Memory and Society”, 2013, n. 39, pp. 38-39.
39 Ivi, p. 41.
40 Si consideri la decisione, presa dal governo laburista di Gordon Brown, di rendere obbligatorio lo studio della tratta degli schiavi e i rapporti tra tale fenomeno e l’impero britannico. Slavery History Lessons to be Compulsory, in “The Guardian”, 26 agosto 2008.
41 United Kingdom Department for Education, The National Curriculum in England. Framework Document for Consultation, febbraio 2013, p. 165. In seguito a vivaci proteste provenienti dal mondo accademico, la bozza iniziale presentata da Gove è stata sottoposta a sostanziali modifiche. In una versione successiva il passaggio sopracitato appare così modificato: «the national curriculum for history aims to ensure that all pupils know and understand […] how Britain has influenced and been influenced by the wider world». United Kingdom Department for Education, The National Curriculum in England. Framework Document for Consultation, settembre 2013, p. 245 [corsivo aggiunto].
42 Michael Gove’s New Curriculum. What Experts Say, in “The Guardian”, 12 febbraio 2013.
43 Michael Gove, Why Does The Left Insist on Belittling True British Heroes?, in “Daily Mail”, 2 gennaio 2014.
44 Seumas Milne, This Attempt To Rehabilitate Empire Is A Recipe For Conflict, in “The Guardian”, 10 giugno 2010.
45 British Empire: Students should be taught colonialism “not all good”, say historians, in “The Independent”, 22 gennaio 2016.
46 Michael Gove’s British History for British Students: For and Against, in “The Manchester Historian”, 14 maggio 2013.
47 Richard Evans, The Wonderfulness of Us. The Tory Interpretation of History, in “The London Review of Books”, 2011, n. 6, pp. 9-12.
48 Post-Brexit Delusions about Empire 2.0, in “Financial Times”, 7 marzo 2017.
49 Theresa May’s Brexit Speech: A Global Britain, in “The Spectator”, 17 maggio 2017.
50 Per una ricostruzione dell’idea di Greater Britain si veda Duncan Bell, The Idea of Greater Britain. Empire and the Future of World Order, 1860-1900, Princeton, Princeton University Press, 2007.
51 John Hulsman, The Anglosphere is Britain’s Past, Present and Future, City A.M., URL: http://www.cityam.com/246025/anglosphere-britains-past-present-and-future-lets-embrace.
52 United Kingdom Independence Party, Restoring Britishness. A Cultural Policy for an Independent Britain, 2010, p. 7, https://devolutionmatters.files.wordpress.com/2010/02/ukip-britishness.pdf.
53 Ivi, p. 9.
54 Emanuela Fronza, Il negazionismo come reato, Milano, Giuffrè Editore, 2012, p. X. Per spiegare l’assenza di memory laws in Gran Bretagna varrà la pena considerare che quest’ultima non ha sottoscritto la Decisione Quadro del 28 novembre 2008 relativa alla lotta contro il razzismo, la quale richiedeva agli Stati membri di rendere punibili comportamenti quali «l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra». Il testo della Decisione Quadro è consultabile all’indirizzo http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=LEGISSUM:l33178.
55 Anne Porter, The Ghosts of Europe. Journey Through Central Europe’s Troubled Past and Uncertain Future, Vancouver-Toronto, Douglas & McIntyre, 2010, p. 8.
56 David Olusoga, Empire 2.0 Is Dangerous Nostalgia For Something That Never Existed, in “The Guardian”, 19 marzo 2007.