Negli ultimi dieci anni Carlo Lucarelli ha intrapreso un nuovo percorso letterario che ha come sfondo l’Eritrea del periodo coloniale italiano negli anni intorno alla battaglia di Adua, un luogo e un’epoca poco raccontati e noti al grande pubblico. Nei tre romanzi che ne fanno parte (“L’ottava vibrazione”, “Albergo Italia” e “Il tempo delle iene”) lo scrittore si è calato in profondità in una differente ambientazione che ha dato vita a originali e coinvolgenti modalità narrative e linguistiche. Per ripercorrere l’origine di questa scelta e i motivi di fondo di queste opere, Lucarelli ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune domande. L’intervista è a cura di Francesco Neri.
Nel 2008, quando uscì “L’ottava vibrazione”, la prima delle tue opere ambientate nel periodo coloniale italiano in Eritrea, affermasti di sentirti “emozionato come un esordiente”. In che modo questo romanzo ha segnato un nuovo inizio nella tua produzione? Dalla tua dichiarazione sembrerebbe non trattarsi soltanto del differente contesto storico e geografico rispetto ai tuoi libri precedenti, ma di una svolta più profonda.
Con l’“Ottava Vibrazione” mi è successa la stessa cosa che mi accadde con “Almost Blue”: la sensazione di aver scoperto un altro senso, diverso dai soliti cinque, che mi permetteva di “sentire” cose mai sentite prima, vedere il mondo da un altro punto di vista. Andare in Eritrea la prima volta per preparare il libro (e poi anche quelle successive) mi aveva fatto scoprire una sinfonia di odori, colori e suoni che mi ubriacava. Ero già stato all’estero, naturalmente, e anche in Africa, ma collocare quelle sensazioni nel contesto storico che stavo a sua volta scoprendo e nella dimensione narrativa che si stava formando ha prodotto, appunto, quel senso nuovo. Che a sua volta si è dovuto tradurre in sperimentazioni stilistiche, per dargli voce. Parole straniere, tempi verbali, ritmi… l’esordio di uno scrittore alla ricerca di un nuovo modo di raccontare.
Ne “L’isola dell’angelo caduto” e nei romanzi che hanno per protagonista il commissario De Luca (“Carta bianca”, “L’estate torbida” e “Via delle oche”) avevi già collocato l’azione nel passato, in questo caso in epoca fascista e negli anni a cavallo tra la fine della seconda guerra mondiale e la nascita della repubblica italiana. Quale ruolo riveste la Storia nella tua scrittura? Definiresti questi romanzi e la trilogia sull’Africa dei romanzi storici?
Sì, sono tutti romanzi storici. Non solo, il “giallo” (o il “noir”) storico ha sempre avuto una forte tradizione che recentemente è diventata moda (senza nulla di dispregiativo nel termine). Abbiamo sempre detto che noi narratori facciamo in fondo lo stesso mestiere degli storici, mettendo in scena meccanismi, personaggi e fatti del passato. Se aggiungiamo poi la vocazione investigativa del noir l’accostamento è ancora più stringente. Nella maggior parte dei casi, poi, raccontiamo il passato per raccontare il presente: se ci è venuta in mente una storia di un’altra epoca è perché abbiamo riconosciuto nei suoi meccanismi un’attualità che ci ha colpito, e spesso è più facile vedere qualcosa più oggettivamente voltando il binocolo dall’altra parte per guardare da una certa distanza. Io faccio così e mi sembra di aver sempre raccontato nei miei romanzi un certo modo di essere italiani, in qualunque periodo storico.
Effettivamente in “Albergo Italia” e “Il tempo delle iene”, il passato coloniale è lo sfondo di due vicende che suonano molto familiari al lettore contemporaneo per la loro natura: il grande scandalo finanziario della Banca romana nel primo, il desiderio di arricchimento attraverso una spregiudicata speculazione nell’altro. La storia è per te evidentemente anche un’occasione per toccare temi del presente.
Assolutamente, anzi, è il motivo per cui mi riferisco a certi periodi storici e non altri. È anche una necessità: il cosiddetto “passato che non passa” e che resta attuale e quasi identico nei suoi meccanismi negativi (che sono quelli che racconto io) è “presente” e come tale rischia di diventare “futuro”.
“L’ottava vibrazione” è un grande romanzo corale in cui si intrecciano diversi destini di vari personaggi italiani e indigeni fino al culmine dell’emozionante descrizione della battaglia di Adua e della disastrosa sconfitta italiana. “Albergo Italia” e “Il tempo delle iene” sono due vicende più circoscritte in cui compare un personaggio de “L’ottava vibrazione”, il capitano dei carabinieri Colaprico accompagnato dal carabiniere indigeno Ogbà. Come hai elaborato la scelta di questi due “spin off” tratti dalla prima opera? Pensi che ne seguiranno altri, magari con altri personaggi?
“Albergo Italia” è nato da una precisa richiesta dell’Arma, che voleva festeggiare il bicentenario con una serie di romanzi ambientati in vari periodi storici, che avessero come protagonista un carabiniere, affidati a diversi scrittori di gialli. La scrittura “a richiesta”, quando ti permette di rivolgere lo sguardo in una direzione a cui non avevi ancora pensato, è sempre un’ottima occasione (sempre che in quella direzione ci sia qualcosa di interessante, altrimenti è puro mestiere). Il capitano Colaprico era stato un personaggio di terza o quarta fila nell’Ottava Vibrazione, e lì sarebbe rimasto se non fossi andato a trovarlo per vedere se avesse avuto una bella storia da raccontare. Ce l’aveva e non solo, mi ha fatto conoscere il buluk bashi Ogbà, che a sua volta mi ha aperto un mondo pieno di contraddizioni, di domande, di eterni meccanismi e di diversi punti di vista sul nostro “essere italiani”. Seguiranno sicuramente altri romanzi, Ogbà e Colaprico hanno lasciato aperte ogni volta delle domande, soprattutto su di loro, di cui vorrei scoprire la risposta.
Nei tuoi libri sull’Eritrea compaiono di frequente frasi nella lingua locale, ma anche termini ed espressioni dialettali italiane di varie regioni, al punto da configurare un interessante esperimento di plurilinguismo in cui anche gli italiani (i ferengi in lingua locale), come il semplice soldato Sciortino che sceglie di vivere tra gli Etiopi, appaiono al lettore in qualche misura “esotici” come gli indigeni africani. Con quale intento hai mescolato italiano, tigrigna e dialetti?
Quando ho scritto “Almost Blue”, che aveva come protagonista un ragazzo cieco, gli amici non vedenti a cui mi sono rivolto per capirlo mi hanno insegnato a non usare soltanto il senso della vista. Usare le orecchie mi ha permesso di scoprire la sinfonia dei suoni ma soprattutto quella delle voci, che oltre a colorare il quadro che sto rappresentando definiscono profondamente il personaggio che le produce. Le differenze dialettali nell’Italia di allora erano fortissime, e un gruppo di giovani di varia estrazione sociale, soprattutto bassa, come un esercito coloniale, doveva essere davvero una sinfonia di suoni e di caratteri. Con l’Ottava Vibrazione ho aggiunto anche le parole degli “altri”, tigrigna, amarigna e arabo. Con “Albergo Italia”, poi, le parole straniere sono diventate qualcosa di più che suoni e musica. Cercare di capire come Ogbà avrebbe detto quello che Colaprico diceva in italiano, quale parola avrebbe scelto, è diventato una chiave per entrare meglio nel suo carattere e affacciarmi (con tutti i limiti, naturalmente) nel suo modo di pensare. Per esempio volevo che Ogbà dicesse in tigrigna “fate sempre cose inutili voi italiani”, che avevo letto di un osservatore straniero di quel periodo. Ma quando l’ho fatto tradurre (mia moglie è eritrea e ho a disposizione una famiglia molto estesa di “consulenti”), abbiamo raggiunto solo una traduzione banalmente letterale. Perché gli eritrei dicevano un’altra cosa: “quando l’italiano ride non ridere, quando si arrabbia non te la prendere”, che significa “non prenderli troppo sul serio, questi italiani”, concetto simile a quello espresso dall’osservatore straniero europeo e bianco, ma diverso quando ad esprimerlo è Ogbà, colonizzato, nero e anche inferiore di grado.
Quali elementi di questi romanzi vengono dalla tua diretta conoscenza dell’Eritrea? I tuoi libri sono stati tradotti e letti in Eritrea?
Quasi tutti gli elementi che utilizzo (a parte gli spazi bianchi del verosimile descritti da scrittori che vanno da Manzoni ai Wu Ming) vengono da una conoscenza diretta dell’Eritrea. Anche gli elementi storici cerco di trarli soprattutto dalle memorie e dai diari dei protagonisti, ma molte cose sono, letteralmente, “di famiglia”. Un esempio concreto è proprio il buluk bashi Ogbagabriel Ogbà, che è mio nonno acquisito, essendo il nonno di mia moglie e di cui ho “rubato” la biografia che ho messo nei romanzi.
I miei libri sono stati letti in Eritrea, ma in italiano, in ambito privato o in quello della Scuola Italiana di Asmara, che è molto attiva. Non si traducono molti libri in tigrigna e per di più non credo che il periodo coloniale italiano, soprattutto se raccontato da un italiano, per quanto io mi sforzi di farlo nel modo più oggettivo e corretto possibile, sia un argomento così ben visto, a livello ufficiale.