Storia di cinque giovani e di un libro

Sarebbe fin troppo facile iniziare dicendo che questa è la storia di un libro: un libro magico, misterioso, che allo stesso tempo è esistito davvero e che mai potrebbe esistere. È, più concretamente, la storia di un processo, ma non di un processo eclatante, per un fatto di sangue; ad ogni modo, è la storia di un processo che ha raccolto in sé tanti elementi caratteristici di un’epoca (la fine dell’Ottocento) e di un mondo (quello contadino, della provincia italiana).

In questa storia ci si occupa di suggestione e di esoterismo; di Cesare Lombroso e di prestidigitazione; di minacce a mano armata e di preti dotati di poteri memorabili. E vi assistiamo alla lotta (allora di grande attualità – come cambiamo le cose!) fra le vecchie superstizioni e il nuovo sapere scientifico, fra la follia e la ragione, così come alla lotta – altrettanto dura – fra diritto e medicina per affermare il proprio controllo su tutta una serie di comportamenti anormali, aberranti, pericolosi.

Se c’è un processo, deve esserci un (presunto) delitto: nel nostro caso, si tratta di un delitto non particolarmente efferato, come si diceva: siamo a Sassuolo, in provincia di Modena, nell’autunno del 1891; e ci sono cinque giovani, tutti di età compresa fra i venti e i trenta anni, i quali, mascherati e a mano armata, tentano di derubare un contadino, di nome Giuseppe Franchini, di un libro, anzi del libro: il Libro del Comando, un vero e proprio oggetto magico, uno dei tanti testi di magia cerimoniale di cui è piena la tradizione esoterica europea, capace di far compiere prodigi a chi lo detiene e, soprattutto, utile per recuperare tesori nascosti1. Come si può intuire fin d’ora, realtà e irrealtà, ambizioni e miseria sono i veri protagonisti di questa vicenda: cinque ragazzi, appartenenti a un mondo davvero intriso di pensiero magico e che credeva fermamente nell’esistenza e nel potere di spiriti e demoni, hanno cercato di fare fortuna, appropriandosi di un libro che avrebbe garantito di acquisire poteri straordinari. Potremmo liquidarli, e non senza ragione, come cinque creduloni, dei “montanari” ignoranti rimasti troppo indietro rispetto al progredire della civiltà e dell’emancipazione dalle superstizioni medievali. Fatto sta che il loro delitto innescò una breve, ma interessante diatriba (legale, criminologica, psichiatrica) sulla loro presunta irresponsabilità e, addirittura, sulla loro, sempre presunta, alienazione mentale.

La sera del 2 novembre 1891, verso le ore 20, i cinque, di cui sveleremo ben presto l’identità, bussarono a casa di Giuseppe Franchini, che già frequentavano, per farsi consegnare il Libro del Comando: erano certi, e vedremo poi per quale ragione, che lo stesso Franchini avesse nascosto in casa, nel solaio o in altro luogo, quel libro prodigioso, ed avevano appunto deciso di minacciarlo pur di farselo consegnare. Non volevano altro, né denaro né altri oggetti di valore: solo quel libro. Due di loro restano fuori a fare la guardia. Dopo un po’ di tempo, passato a tentare di convincere i cinque di non avere l’oggetto dei loro desideri, il padrone di casa riesce a saltare fuori da una finestra e a scappare, ovviamente gridando “Al ladro! Al ladro!”. I giovani, dopo che uno di loro ha sparato un colpo in aria come segnale di fuga, appunto fuggono, ma vengono presto individuati dai carabinieri e arrestati.

Dedichiamoci ora a conoscere un po’ da vicino i personaggi di questa storia. Giuseppe Franchini, di Varana (non lontano da Sassuolo), era un contadino che possedeva la propria terra, ma che si dedicava anche ai libri di magia, e non solo per passione, ma per farne commercio. Si vantava, infatti, di possedere diversi volumi di magia e antichi documenti esoterici, ereditati da uno zio abate. In particolare, Franchini affermava di essere in possesso del Libro del Comando, portentoso strumento per diventare ricchissimi e onnipotenti. I nostri cinque protagonisti avevano, prima del misfatto di cui ci stiamo occupando, tentato a lungo di ottenere (o anche soltanto di farsi mostrare) da Franchini quel libro, ma, appunto, invano. Quest’ultimo «soltanto si era limitato a mostrare loro una antica pergamena ebraica, che diceva valere come talismano contro le disgrazie e le aggressioni e come un mezzo per favorire la ricerca dei tesori»2. Carlo Cassani – il capo del nostro gruppo di malfattori – era lui stesso un esperto di “cose magiche” e credeva fermamente che Franchini possedesse il Libro del Comando. Ma lo stesso Franchini da chi e come lo avrebbe ottenuto? Franchini, che non si approfittava in alcun modo, per una questione di scrupoli di coscienza a suo dire, dei misteriosi e potenti documenti di sua proprietà, viveva in una casa dove, qualche generazione prima, era vissuto un sacerdote, don Ortensio Giacobazzi, priore di Varana. La fama dei “miracoli” compiuti da don Giacobazzi era rimasta forte ancora decenni dopo la sua morte, e sicuramente fino all’epoca del processo contro i giovani sassolesi. Don Giacobazzi avrebbe letteralmente venduto l’anima al diavolo pur di acquisire i poteri “custoditi” nelle formule del Libro del Comando. Quel libro sarebbe giunto nelle mani di Franchini perché il priore, morente, avrebbe chiesto ai suoi parenti di chiuderlo in un astuccio di legno e di murarlo in una nicchia di una parete della casa. Di don Giacobazzi si favoleggiava dunque una serie infinita di prodigi:

Si raccontava anche che coniasse monete false, ma «che quando i carabinieri lo perquisirono, cambiò il conio in un bel mazzo di fiori e le monete in gusci di ghiande». Un’altra volta, «trovandosi in un’osteria, fatta empire con acqua, in presenza di molta gente, una comune pentola, si levò le scarpe e, rimpicciolendosi, vi andò dentro con tutta la persona». Questo straordinario don Ortensio era anche in grado di evocare il demonio dietro richiesta, ma era pure un bonario cultore di magia bianca, tanto che mai su Varana, lui vivente, cadde un chicco di grandine3.

Il valore del Libro del Comando dipendeva soprattutto dal fatto che il possessore avrebbe potuto servirsene a suo piacimento, senza dover “corrispondere” nulla al diavolo o ad altre potenze. Ciò che Franchini voleva far passare per il famoso Libro del Comando, “ereditato” da don Giacobazzi, era in realtà un volume, in due fascicoli, stampati ad Altona in Germania, negli anni Ottanta del Settecento e che risalivano alla setta dei Rosa-Croce, presentando astruse figure cabalistiche.

Ed eccoci ai cinque rapinatori. Il leader, Carlo Cassani, aveva all’epoca dei fatti 23 anni ed apparteneva a una famiglia abbiente, di civile condizione, come si diceva allora. La sua figura è stata quella che ha interessato di più gli inquirenti e, in particolar modo, gli psichiatri chiamati, come periti4, ad occuparsi dell’equilibrio mentale dei cinque giovani. Carlo era quello del gruppo che aveva studiato, essendo arrivato alla quinta ginnasio. Si interessava di fisica e di meccanica, ma, soprattutto, di magia, di stregoneria e di negromanzia. Era stato suo nonno a spingerlo, ancora bambino, verso l’occultismo e, da adolescente, aveva iniziato a cercare tesori, che le leggende popolari affermavano essere nascosti nei dintorni, usando la magia. Va da sé, ogni tentativo andava invariabilmente fallito, anche perché – avrebbe ricordato poi – capitava spesso che comparissero degli spiriti (dalla forma umana o bestiale, e comunque spaventosa) a far allontanare Carlo e i suoi compagni di ricerche. Anche per questa ragione, il Libro del Comando gli era indispensabile. Altra notazione interessante, in Carlo – così come negli altri imputati – gli psichiatri trovarono “inequivocabili” segni di degenerazione: anomalie fisiche e psichiche di vario tipo, le quali, d’accordo con la scienza dell’epoca – dominavano allora Cesare Lombroso e la sua Scuola positiva –, erano molto utili per sostenere la tesi di una alterazione mentale degli imputati e, di conseguenza, della loro irresponsabilità dal punto di vista penale. Carlo era per gli psichiatri un ragazzo intelligente, ma assolutamente dominato da credenze assurde, da idee anormali, che lo avrebbero condotto fino al delirio.

Anche i profili, tracciati dai periti, degli altri componenti della “banda”, sono, in un certo senso, una vera sintesi di tutti gli stereotipi che la scienza psichiatrica di fine Ottocento sapeva produrre. Volendo dimostrare la “follia” delle credenze sostenute con tanta forza dagli imputati, nonostante la loro apparente normalità5, gli psichiatri andarono alla ricerca di ogni possibile anormalità, nelle idee, nei comportamenti e, in primo luogo, di ogni tara ereditaria, anche remota: così vediamo che nessuno dei cinque era praticamente immune dalle conseguenze di aver genitori, zii, avi folli, epilettici o ubriaconi.

Questa psichiatrizzazione delle vite dei cinque imputati portava ovviamente i medici a focalizzarsi sull’infanzia e sulla giovinezza di quelli. Così, ad esempio, Angelo Cassani, trentenne cugino di Carlo, viene descritto da Augusto Tamburini come una persona affetta da etilismo e vinta da uno sfrenato onanismo; di più lo psichiatra aggiunge: «Ha sofferto di traumi al capo. È anch’egli, sin dall’infanzia, imbevuto d’idee spiritiche, credente nelle pratiche magiche, e per tutto ciò che riguarda il Libro del Comando ha le stesse idee del cugino»6. Anche il fratello di Angelo, Gioachino, faceva parte del gruppo. E anche loro padre credeva ciecamente nei demoni e nella stregoneria. La loro famiglia, a dire dei periti, era piena di gente “strana”. Lo stesso Gioachino iniziò presto a cercare tesori e, una volta, cercò di vendere, quando ancora faceva il carabiniere (ora era disoccupato), l’anima al diavolo.

Assieme ai tre cugini Cassani, c’erano altri due ragazzi, e tutti si conoscevano comunque da molto tempo. Di Vittorio Valdastri potremmo ripetere tutto quanto è stato detto per gli altri: con diversi precedenti ereditari (nel suo caso: padre alcoolista, la madre e un fratello con accessi epilettici), fin da bambino aveva sentito raccontare di don Giacobazzi e del libro dei tesori. Anch’egli, mosso da un gran desiderio di ricchezza, si era messo a praticare attività magiche e radiestetiche, ma sempre a vuoto. L’ultimo della squadra era Costante Poggioli, di 21 anni, il quale – secondo Cionini – era quello con il più grave quadro anamnestico:

Ha un cugino materno mattoide ed un fratello che un certificato medico dichiara affetto da idiotismo. Pare che anche la madre del Poggioli, in seguito a forti patemi d’animo, vada soggetta a convulsioni epilettiformi. […] Ha abusato di vino e di coito, e segnatamente della venere solitaria. Ha cranio plagiocefalo, faccia e orecchie asimmetriche. […] Psichicamente sono notevoli nel Poggioli tenaci allucinazioni. Havvi un viottolo presso casa sua, dove vede frequentemente degli spettri; ora è una donna alta, che si rimpicciolisce, mentre la chioma di lei cresce a dismisura, e l’accompagna del pari fino ad un crocevia, dove si dilegua ad un tratto; altra volta vede un cavallo sellato montato da un uomo che l’accompagna come sopra; altra volta due, che gli si mettono ai fianchi, poi si trasformano in due vitelli e poi in due uomini giganteschi7.

Comune a tutti i ragazzi era proprio questo aspetto, su cui i periti hanno molto insistito: capitava loro spesso di vedere fantasmi, spettri, figure terrificanti, e quasi sempre proprio durante la caccia ai tesori. In altre parole, cioè in linguaggio psichiatrico, essi soffrivano di allucinazioni, sintomo molto significativo per giungere alla diagnosi finale, come vedremo.

La nostra presentazione non sarebbe completa, però, se non tenessimo conto di un ulteriore protagonista, sul cui ruolo le ricostruzioni di cui disponiamo insistono molto, tanto da considerare la sua comparsa come il vero fattore scatenante dell’azione di cui ci stiamo occupando. Giusto Falqui, originario di Alessandria, era uno dei tanti magnetizzatori, lettori del pensiero e prestidigitatori che passavano da una città all’altra, da un paese all’altro facendo spettacoli. Era, senza dubbio, molto bravo nel suo lavoro, tanto da trarre in inganno anche diversi medici e tanto da attirare l’attenzione di diversi importanti psichiatri, come Cesare Lombroso e lo stesso Augusto Tamburini, che lo visitò nel suo manicomio a Reggio Emilia8. Gli esami a cui Falqui veniva sottoposto (o meglio: a cui chiedeva spesso di essere sottoposto, così da potersi accreditare come “fenomeno inspiegabile”) non facevano che rivelare come egli non fosse, in realtà, che un astuto simulatore. Per Tamburini egli non era che un «furbo matricolato»:

Egli coglieva il momento in cui in una città era ancora a rumore per gli esperimenti del Pickmann [celebre liseur de penséesdell’epoca, n.d.a.], entrava in un caffè o lungo la via, fissava una lampada elettrica, cadeva in catalessi, si faceva accompagnare all’Ospedale, dove trovava sempre medici che si affrettavano a praticare su di lui esperimenti di ipnotismo, che riuscivano sempre meravigliosamente e coi fenomeni più spettacolosi, che erano poi propalati dai giornali9.

L’attività di Falqui, che sul proprio biglietto da visita scriveva «soggetto ipnotico», aveva dunque a che fare con il tema delicato della suggestione, allora assai in voga e di cui molti specialisti (psichiatri, criminologi, ma anche magistrati) temevano il potenziale criminale. Chi veniva ipnotizzato perdeva totalmente il controllo delle proprie azioni e diventava una specie di automa: ciò poteva avere importanti conseguenze anche in ambito penale10.

Ecco, il nostro caso sassolese poteva essere considerato come un caso di vera e propria «infezione psichica» da questo punto vista. Infatti, l’arrivo a Sassuolo di Giusto Falqui rappresentò la scintilla che diede l’avvio al progetto di Carlo Cassani e degli altri di impossessarsi a ogni costo del Libro del Comando. Falqui fu invitato a casa di Carlo e, dietro lauto compenso, fu sottoposto a ipnosi (dunque: in questo caso l’ipnotizzatore Falqui si lascia ipnotizzare da Carlo, che si cimentava anche nella pratica dei “passi magnetici”). Ci sono state diverse, lunghissime sedute nelle quali Falqui viene interrogato sul Libro del Comando, su che aspetto questo avesse (una pergamena), in che lingua fosse scritto (in italiano e in latino) e dove fosse nascosto. Falqui ha pensato bene di confermare tutte le illusioni e le speranze dei cinque: il libro era davvero a casa di Franchini, probabilmente celato in solaio; era necessario sottrarglielo all’insaputa e comunque contro la volontà dell’attuale possessore, pena la perdita di ogni potere soprannaturale. Secondo i periti, Carlo Cassani e gli altri sono quindi caduti nella rete di Falqui senza farsi tanti problemi, anzi: essi – le cui menti erano troppo deboli per resistergli – sarebbero stati suggestionati da Falqui, tanto da diventare una specie di unico automa.

Prima di seguire da vicino i processi a cui furono sottoposti i cinque uomini, è necessario sottolineare fin d’ora come questa vicenda fosse diventata ben presto anche la sede di uno scontro fra culture diverse e inconciliabili. La superstizione e le leggende demonologiche, in pratica tutto il bagaglio di una cultura contadina, alla quale praticamente tutti a Varana e dintorni mostravano di credere, sono stati liquidati come «barbarie da esorcizzare»11. Ora, la superstizione, retaggio di un passato da combattere, non aveva più la religione per nemica (anzi le due finivano per essere più o meno apertamente assimilate), ma la verità scientifica. I cinque di Sassuolo si sono ben presto trasformati, agli occhi degli psichiatri, come vittime di un delirio collettivo e, per questo, non dovevano essere considerati responsabili dei propri atti. La questione, determinante per gli esiti giudiziari della vicenda, era allora quella di stabilire se a prevalere dovesse essere la psichiatrizzazione o, viceversa, la semplice criminalizzazione di quella condotta comunque deviante.

Il dibattimento del processo di primo grado si tenne presso il Tribunale di Pavullo, il 15 e il 16 gennaio 1892. Il giudice accolse le tesi delle difese e del perito: i cinque doveva essere prosciolti per infermità di mente; dovevano inoltre essere rilasciati perché reputati non pericolosi12. Questa sentenza dipese senza dubbio dalla perizia di Attilio Cionini. Lo psichiatra modenese individua nei cinque ragazzi altrettanti paranoici e il suo parere peritale è sostanzialmente incentrato sulle loro credenze superstiziose, oltre che, come dicevamo più sopra, sui segni(fisici e psichici) di degenerazione, presenti più o meno marcatamente in ciascuno. Cionini giunse dunque a una diagnosi di «paranoia primitiva, degenerativa, sistematizzata, allucinatoria, demonologica a cinque»13. Non possiamo qui ovviamente seguire nel dettaglio il ragionamento di Cionini; ci basterà coglierne qualche aspetto essenziale. Anzitutto, le menti dei cinque per lui sarebbero totalmente dominate da un esaltamento tale da impedire loro di discernere e giudicare dei loro atti.

La volontà, nei nostri paranoici, era come costretta da una forza superiore e la decisione non era libera, tanto era prepotente il dominio delle idee deliranti, senza che i momenti psichici determinanti l’atto venissero controbilanciati da idee correttrici di diritto e di morale, che per l’alterazione dell’associazione delle idee erano impedite di giungere alla coscienza14.

Cionini decise per la paranoia, malattia che si sarebbe manifestata soprattutto per due aspetti: l’assenza di ogni indebolimento mentale e la presenza di un fondo degenerativo. In sintesi, le idee deliranti (le credenze superstiziose e demonologiche) si erano potute imporre senza che l’intelligenza delle persone scemasse. Lo psichiatra inserisce nel suo studio anche un altro aspetto, che riprende direttamente dagli importanti studi sulla paranoia, compiuti di recente da Eugenio Tanzi e Gaetano Riva15. Le idee assurde dei cinque non erano tali di per sé, ma perché erano anacronistiche.

Ogni uomo porta nel suo cervello, allo stato latente, i deliri d’altri tempi; nell’uomo normale queste aberrazioni non vengono a galla, perché sommerse dalle idee correttrici di moralità, di diritto e di estetica acquisite coll’avanzare della civiltà. […] Nel paranoico invece questa vittoria delle tendenze superstiziose è un fatto permanente per una congenita prevalenza e sviluppo dei germi più antichi16.

Con una espressione efficace, Cionini ci dice appunto che Cassani e i suoi compagni erano i rappresentanti anacronistici del Medioevo. Il carattere patologico delle loro credenze aveva permesso quella infezione psichica innestata dalla comparsa di Giusto Falqui. Quei «fossili del pensiero»17 si erano impadroniti delle loro menti, abolendo ogni senso critico. Il contagio, inizialmente limitato a due o tre soggetti (i cugini Cassani, ipotizza Cionini) si era poi allargato agli altri.

Questa ricostruzione convinse il tribunale di primo grado, ma non il pubblico ministero, che fece appello presso la Corte di Appello di Modena. Qualche mese dopo, il 18 maggio, ci fu il nuovo dibattimento, che ebbe tutt’altro andamento. Il nuovo giudice non ammise nemmeno la testimonianza dei periti (a Cionini si era aggiunto il già citato Tamburini). Ciò è tanto più significativo se si pensa gli imputati, in primo grado, erano stati prosciolti proprio per infermità mentale. Senza lasciare molto spazio nemmeno agli stessi difensori, la Corte di Appello condannò tutti e cinque i membri della “società” a 75 giorni di reclusione per minacce. Tamburini prese ovviamente male la scelta della Corte: «E poi c’è chi vanta che oggi la Giustizia si esercita secondo i criteri della scienza!»18. È evidente in questo commento una eco della diatriba fra le diverse scuole di diritto penale e dello scontro fra giuristi e psichiatri sul ruolo che questi ultimi avrebbero dovuto avere nei processi. La perizia, che Tamburini non poté illustrare in aula ma che pubblicò sulla “Rivista Sperimentale di Freniatria” (da lui allora diretta), pur limitata solo alla osservazione di tre dei cinque imputati (Carlo e Angelo Cassani, più Costante Poggioli), non fa che confermare le conclusioni di quella di Cionini. Tamburini ha visto in Falqui (un abile simulatore e, in sostanza, un delinquente) il vero responsabile della vicenda e nei giovani altrettanti squilibrati, predisposti da cattivi fattori ereditari e da un ambiente di vita particolarmente arretrato.

 

In conclusione

Quaranta anni dopo questa vicenda, un altro medico modenese, specialista in medicina legale, tornò a occuparsene. Boldrino Boldrini rilesse le carte processuali e le perizie di cui abbiamo detto, giungendo a una diversa conclusione. A lui la diagnosi di paranoia apparve troppo precipitosa e molto poco fondata. Nel suo articolo Boldrini è meno netto nel liquidare come “deliri” le credenze dei cinque giovani. Lo stesso concetto di “anacronismo” era stato secondo lui usato con troppa disinvoltura:

L’anacronismo che generalmente caratterizza il delirio paranoico deve essere inteso in un senso molto relativo, e d’altra parte non potrà certo mai essere lecito di parlare di anacronismo se non riferendosi ad una determinata epoca. Cosicché, come del resto afferma anche il Cionini, Alberto Magno, Bacone, Pico della Mirandola, essendo nella loro epoca la cabala e la magia riguardate come la scienza della natura, non sono non erano paranoici perché cabalisti, ma addirittura sono da tutti riconosciuti come sapienti. Ma altrettanto necessario è guardarsi dal giudicare affrettatamente delirante un’idea che non sembri aderente allo stato delle conoscenze contemporanee senza tener conto del fatto che chi tale idea manifesta potrebbe non essere al corrente o non essere in grado di comprendere la fondatezza delle acquisizioni successive che tale idea hanno corretto. […] Troppi “fossili del pensiero” abbiamo visto ai nostri giorni rianimati da un soffio vitale, troppe “leggi” della natura ritenute già immutabili abbiamo visto abrogate, per poter con tutta tranquillità credere alla paranoia piuttosto che al pendolo divinatorio19.

Non che i Cassani e gli altri fossero individui sicuramente normali: i segni di degenerazione erano comunque evidenti e si poteva sostenere che una qualche anomalia ci fosse. Ma da qui ad affermare che una malattia comunque rara come la paranoia apparisse più o meno contemporaneamente cinque volte in un piccolo paese, ce ne voleva… I cinque ragazzi erano superstiziosi e creduloni al massimo grado, ma questo dato non era sufficiente per parlare di alienazione mentale, né, tanto meno, di psicosi collettiva.

Un ultimo aspetto interessante: Boldrini compì anche una piccola inchiesta nei dintorni di Sassuolo, per vedere che ne fosse stato dei cinque giovani dopo la carcerazione. In generale, nessuno ebbe più problemi con la giustizia e tutti vissero, chi più chi meno, una vita normale – cosa, questa, che ha fatto scrivere a Boldrini che la condanna servì effettivamente a rimettere i ragazzi sulla buona strada.

Solo Carlo Cassani ebbe ancora qualche grattacapo e proprio nelle settimane successive ai processi. Subito dopo l’assoluzione di primo grado, infatti, radunò una nuova squadra e si mise a sperimentare i propri poteri di magnetizzatore, e sempre nell’intento di venire a sapere da qualche spirito notizie su tesori nascosti. Iniziò a magnetizzare una giovanissima ragazza, di cui si innamorò e con la quale in breve scappò. La ragazza, sotto ipnosi e parlando a nome di sant’Elena Imperatrice, gli aveva assicurato l’assoluzione anche in appello. La condanna – con Carlo che accusava la ragazza di aver barato… – interruppe le trattative per il matrimonio riparatore. Così lo stesso Cassani fu querelato per ratto di minorenne e dovette passare altri sei mesi in carcere. Ma da quel momento risulta che abbandonò ogni culto esoterico e visse a lungo, e ricco.


Note

1 Per una ricostruzione generale della vicenda, si può vedere solo Antonio Foglia, Una storia di occultismo nell’Appennino modenese, TEIC, Modena 1982. Cfr. anche Georges Heuyer, Psicosi collettive e suicidi collettivi, Pensiero Scientifico Editoriale, Roma 1976, in particolare pp. 30-33. Ad oggi, non è stato purtroppo possibile avere accesso al fascicolo relativo al processo e che risulta essere conservato presso l’Archivio di Stato di Modena.

2 Attilio Cionini, La causa del Libro del Comando. Studio psichiatrico-legale, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1892, vol. XVIII, fasc. 3-4, pp. 636-657: 638. L’immagine di apertura riproduce una delle tavole inserite nell’articolo di Cionini: si tratta di documenti “magici” sequestrati all’epoca del processo ad alcune delle persone coinvolte.

3 Clara Gallini, La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano [1983], L’Asino d’oro, Roma 2013, p. 296.

4 Ad Attilio Cionini (fra l’altro originario di Sassuolo), perito per la difesa nel processo di primo grado, si affiancò nel processo di appello il celebre Augusto Tamburini, allora direttore del manicomio “San Lazzaro” di Reggio Emilia.

5 «Ciò che rende inquietante la condizione dei cinque imputati, come traspare dalle perizie, è la loro apparente ‘normalità’, come avviene già nei casi di follia morale. Qui si tratterebbe però non di daltonismo moralequanto di “daltonismo intellettuale”, accompagnato da una miriade di piccole deviazioni a livello emotivo, impercettibili all’occhio inesperto del non alienista» (Emilia Musumeci, Emozioni, crimine, giustizia. Un’indagine storico-giuridica tra Otto e Novecento, Franco Angeli, Milano 2015, p. 99, corsivo nel testo).

6 Augusto Tamburini, Ulteriori studi sopra gli imputati della “causa del Libro del Comando”, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1892, vol. XVIII, fasc. 3-4, pp. 658-667: 661. Del caso di Sassuolo, alla luce delle perizie di Cionini e Tamburini, si occupò in Francia René Semelaigne, La cause du “Libro del Comando”. Cas de folie à cinqu, in “Annales Médico-psychologiques”, maggio 1893, n. 17, pp. 427-435.

7 Cionini, La causa del Libro del Comando, cit., p. 648.

8 Cfr. Cesare Lombroso (con Grimaldi e Ardu), Inchiesta sulla trasmissione del pensiero, in “Archivio di Psichiatria, Scienze penali ed Antropologia criminale, per servire allo studio dell’uomo alienato e delinquente”, 1891, vol. XII, pp. 58-108; Salvatore Ottolenghi, La suggestione e le facoltà psichiche occulte in rapporto alla pratica legale e medico-forense, Fratelli Bocca, Torino 1900; Ezio Sciamanna, Ipnotismo e spiritismo, in “Nuova Antologia”, 1891, n. 1, pp. 255-274.

9 Tamburini, Ulteriori studi sulla causa del Libro del Comando, cit., p. 662.

10 «Lombroso, come è solito fare, non perde l’occasione di intervenire segnalando il pericolo delle pratiche ipnotiche in campo medico-legale, specie se poste in essere al di fuori dello sguardo attento dell’alienista, per scopi di intrattenimento o, ancora peggio, per scopi criminali. In poco tempo il neologismo donatismo diviene quasi sinonimo di fascinazione, visto che proprio nella sua Torino impazzano gli ‘spettacoli Donatistici’, di cui Lombroso e anche altri illustri psichiatri, ne chiedono a gran voce il divieto o si affrettano quanto meno a mettere in guardia gli ingenui spettatori dall’incrociare i temibili “yeux fulgurants” del grande ipnotizzatore. Il pericolo paventato è che il morbo ipnotico di quelle “esibizioni incontrollate, troppo lontane dalle sale protette delle cliniche”, si diffonda a tal punto da diventare una vera e propria epidemia non solo in grado di avere effetti immediati in campo giuridico (nei contratti, nei testamenti, nei rapporti sessuali) ma anche in campo più strettamente politico» (Musumeci, Emozioni, crimine, giustizia, cit., pp. 91-92, corsivi nel testo). Consideriamo inoltre che tale questione si inseriva nel più ampio dibattito in ambito giuridico sul libero arbitrio e nello scontro fra Scuola positiva e Scuola classica di diritto penale: cfr. Paolo Francesco Peloso, Francesco Paolella, Dei claustri e altro. Idee e progetti per la costruzione del manicomio criminale nella psichiatria italiana dell’Ottocento, in Gaddomaria Grassi, Chiara Bombardieri (a cura di), Il policlinico della delinquenza. Storia degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani, Franco Angeli, Milano 2016, pp. 15-71.

11 Gallini, La sonnambula meravigliosa, cit., p. 272.

12 Era da pochi mesi entrato in vigore il nuovo Codice penale dello Stato unitario, il cosiddetto “Codice Zanardelli”, che, all’articolo 46, prevedeva appunto: «Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza e la libertà dei proprii atti. Il giudice nondimeno, ove stimi pericolosa la libertà dell’imputato prosciolto, ne ordina la consegna all’Autorità competente per i provvedimenti di legge».

13 Cionini, La causa del Libro del Comando, cit., p. 655.

14 Ivi, p. 656.

15 Cfr. Eugenio Tanzi, Gaetano Riva, La paranoia. Contributo alla teoria delle degenerazioni psichiche, Tipografia Calderini, Reggio Emilia 1886.

16 Cionini, La causa del Libro del Comando, cit., p. 650.

17 Ibid.

18 Tamburini, Ulteriori studi sulla causa del Libro del Comando, cit., p. 667.

19 Boldrino Boldrini, La causa del “Libro del Comando” riesaminata sotto il rispetto medico-legale, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1938, vol. LXII, pp. 896-923: 907-908.