A sentir parlare di Otto marzo e delle relative celebrazioni può succedere di trovarsi di fronte a reazioni a dir poco disparate che spaziano dall’indifferenza, alla freddezza e al menefreghismo, fino al dubbio e alla perplessità. Ovviamente però, c’è anche chi, dinanzi a una ricorrenza per nulla scontata e indubbiamente significativa, offre una risposta di tutt’altro segno che, spiace sottolinearlo, al di là della partecipazione e della bontà d’intenti, non sempre corrisponde all’autentica verità storica.
1. In principio: l’invenzione della tradizione1
Infatti, nonostante una serie di pubblicazioni di livello scientifico, di ricerche storiografiche di qualità sia in Italia che all’estero2, ancora oggi, al di là del novero degli addetti ai lavori, sono poche le persone che davvero conoscono la vicenda storica che sta alla base di quella che è diventata ufficialmente la “Giornata internazionale della donna”.
Presso la maggior parte dell’opinione pubblica italiana perdura ancora infatti l’idea che le radici dell’Otto marzo vadano rintracciate in eventi avvenuti oltreoceano. Più precisamente, negli Stati Uniti, a New York, dove, l’8 marzo 1908, all’interno dello stabilimento tessile Cotton, alcune operaie, stanche di dover lavorare in condizioni vessatorie e lesive della loro dignità, iniziarono uno sciopero ad oltranza contro la proprietà della fabbrica per far valere le loro ragioni. Avendo compreso che le operaie non erano disposte a retrocedere dal loro proposito, il titolare dell’industria, tale Mr Johnsonn, ordinò di bloccare ogni via di fuga, cosicché, quando poi le fiamme divamparono nella struttura, le donne non poterono salvarsi in alcun modo. Il bilancio finale certificò l’esito drammatico della vicenda: tutte le operaie persero la vita. La storia, indubbiamente toccante e struggente, ebbe successo e si diffuse rapidamente. Prova ne furono le diverse versioni che cominciarono a circolare contenenti ciascuna delle piccole varianti relative al tipo di fabbrica, al luogo in cui si sarebbero svolti i fatti o al numero delle vittime.
Sebbene i contorni storici della vicenda apparissero sempre più sfumati, flebili e intercambiabili, la “leggenda” iniziò a circolare e le persone a prestarvi fede. Perché credere a fatti reali, corrispondenti al vero, spesso è difficile, ma quando questi stessi eventi appaiono verosimili – in quanto includenti schegge parziali di verità –, allora l’idea che tutto sia autenticamente credibile non trova più ostacoli. Scatta cioè quell’azione che soggiace a tutte le costruzioni mitiche durature, ovvero quella che Bruno Cartosio ha definito un’efficace «abilità combinatoria»3. Eppure, un frammento di verità in quella versione c’era. In effetti, un incendio di origine non dolosa si era verificato presso la Triangle Shirtwaist Company, fabbrica specializzata nella produzione di abbigliamento femminile, a New York ma non l’8 marzo 1908, bensì il 25 marzo 1911. Qui, la stragrande maggioranza delle giovanissime operaie, per lo più immigrate italiane ed ebree dell’Europa orientale, bloccate dalle porte chiuse, provò a scampare alla morte gettandosi dalle finestre. Alla fine morirono in centoquarantasei.
Che ci fosse o meno una base documentaria certa, questa narrazione trovò indubbiamente fortuna e si sedimentò nel bagaglio culturale collettivo di chi, dopo aver vissuto e sovente subito il peso delle maggiori tragedie della storia novecentesca, volle, nonostante le difficoltà oggettive ed operative imposte da certi frangenti storici, mantenere viva la memoria di quei fatti e renderli, il più possibile, patrimonio condiviso. Ciò spiega come mai quando, sul crinale degli anni Ottanta del secolo scorso, venne dato alle stampe il volume di Tilde Capomazza e Marisa Ombra, 8 marzo. Storie, miti, riti, della Giornata internazionale della donna4, i cui esiti vennero riproposti in versione più divulgativa in un articolo intitolato L’otto marzo sparito5, molti e molte di quelle persone che nel valore di questa celebrazione credevano, dinanzi allo svelamento dell’evidente falso storico che ne era all’origine, si sentirono tradite. Ci volle del tempo affinché il vero Otto marzo potesse riaffiorare e per far capire che l’obiettivo di chi aveva scoperto la natura “apocrifa” della festa non era certo quello di rinnegarne il valore e l’importanza al fine della costituzione di un tessuto sociale e civico autenticamente democratico e paritario. Le parole con cui la Capomazza replicò a chi l’aveva accusata in tal senso furono quanto mai emblematiche:
Noi attaccare l’otto marzo? Ma se abbiamo cominciato la ricerca proprio per dargli una base storica e poi, con stupore, abbiamo constatato che di quel massacro nessuno sa nulla! Smobilitare le donne? Macché, io al mito preferisco di gran lunga la storia, qui c’era un buco nero da riempire, e già all’estero da tempo era assodato che si trattava solo di una leggenda6.
In effetti, qualche anno prima, nella vicina Francia, un’opera per certi analoga a quella delle due studiose femministe italiane, aveva mostrato come anche oltralpe fosse ampiamente diffusa una versione per nulla rispondente alla verità storica. Addirittura, al di là del confine, si credeva che l’episodio fondativo della celebrazione fosse avvenuto a metà del diciannovesimo secolo e, più precisamente, l’8 marzo del 1857, anno a cui si faceva risalire la feroce repressione messa in atto dalla polizia statunitense contro alcune operaie tessili che protestavano. La rivelazione della non corrispondenza tra i due eventi (il fatto suddetto e la celebrazione seguente), operata anche in questo caso da due studiose, sortì effetti non dissimili da quelli registrati in Italia7.
2. I sentieri della Storia
Allorché fu sollevato il velo mitico, simbolico, rituale che aveva contrassegnato la genesi erronea dell’Otto marzo, la verità poté ritornare a galla. La città da cui tutto ebbe inizio nel 1910 fu Copenhagen. Nella capitale danese, all’interno della Folkets Hus, cioè la Casa del Popolo locale si stava svolgendo la seconda Conferenza internazionale delle donne socialiste. All’assise prendevano parte le rappresentanti di diciassette diversi Paesi. A prendere la parola fu la delegata tedesca Clara Zetkin8 che, appena tre anni prima sempre nella capitale danese, aveva caldeggiato l’unione di tutte le donne proletarie e che, questa volta, propose, sulla scorta dell’esempio dei socialisti statunitensi con il 23 febbraio 19099, che ciascuna nazione individuasse una data in cui svolgere una manifestazione annuale dedicata alla questione femminile e alla rivendicazione del suffragio. Seppur tra perplessità e resistenze, la mozione venne approvata e, tra il 1911 e il 1915, in diverse località austriache, tedesche, svizzere, olandesi, russe e francesi si celebrarono Giornate internazionali della donna, anche se quella destinata a ricoprire una valenza pressoché ufficiale fu quella che ebbe luogo in Germania l’8 marzo (data pare scelta casualmente) 1914.
La vera storia dell’Otto marzo, tuttavia, non era completa. Mancava ancora un importante, decisivo capitolo. A scriverlo, furono le operaie di Pietrogrado nell’anno che segnò l’avvio della Rivoluzione. Secondo le parole della bolscevica Alexandra Kollontaj, «l’8 marzo 1917 (23 febbraio secondo il calendario Gregoriano), Giornata internazionale delle operaie, esse sono uscite coraggiosamente nelle strade di Pietrogrado. Queste donne, operaie e mogli di soldati, esigevano pane per i loro figli e il ritorno dei mariti dalle trincee. La giornata delle operaie è divenuta una giornata memorabile nella storia»10. La manifestazione si sarebbe dovuta svolgere secondo un programma consolidato – ispirato alla disciplina e alla moderazione – ma la determinazione, l’intraprendenza, il coraggio e il senso di sfida delle lavoratrici, su cui i militari si rifiutarono di fare fuoco, mutarono il copione della giornata e il corso della storia successiva11.
Una volta appurata e riemersa la verità, la Giornata poteva avere il suo legittimo corso. Restava però da chiarire come mai la realtà storica avesse faticato così tanto ad emergere, sommersa dalla pletora dei miti, delle rappresentazioni e delle narrazioni iconiche, topiche, simboliche e polisemiche che ne hanno “segnato” la vita, al punto che, ancora oggi, non esiste un racconto condiviso delle sue origini. Ciò è ascrivibile a quello che, con indubbia esattezza, Alessandra Gissi ha definito come la volontà di disancorare la Giornata internazionale delle donne «dalla sua ascendenza sovietica e di attribuirle origini più antiche e spontanee che ne avrebbero favorito il radicamento in tempi di guerra fredda»12. Origini che, come nel caso dell’incendio nella fabbrica statunitense, presentavano in più il vantaggio di essere rassicuranti perché, da un lato, individuavano un bersaglio “giusto” in un capitalismo brutale ma geograficamente lontano e liquidato come anacronistico e, dall’altro, soprattutto perché faceva emergere il «protagonismo delle donne in chiave esclusiva di sacrificio, addirittura di martirio»13. Nemmeno la caduta del muro di Berlino e il conseguente abbandono di talune pregiudiziali ideologiche è riuscito a decostruire mitologie ancora operanti, ad erodere la forza di certi topoi – lasciando spazio a letture più oggettive in quanto storicamente fondate – che, in particolar modo nel nostro Paese, sono duri a morire.
Un percorso che, per quel che riguardò l’Italia, fu particolarmente accidentato. Il primo Otto marzo ufficiale si celebrò soltanto nel 1921, su sollecitazione del neonato Partito comunista e non senza polemiche con gli ex sodali socialisti, tacciati di essersi volutamente “dimenticati” della ricorrenza. Ignorato sistematicamente dal fascismo, per nulla interessato ad incentivarne la memoria, risorse a nuova vita nell’Italia repubblicana, principalmente grazie all’Udi e a quanti gravitavano attorno a quel mondo e a quegli ideali.
3. Otto marzo oggi: necessario o superato?
Oggigiorno le donne hanno compiuto molti passi in avanti rispetto al passato e buona parte delle richieste a cui il primo femminismo legava la celebrazione della Giornata hanno trovato la loro giusta traduzione politica e sociale; basti pensare al suffragio, ad esempio. Ciò non toglie che pensare all’Otto marzo come a una ricorrenza superata perché vincolata a circostanze storiche ormai mutate sarebbe sbagliato, oltre che pericoloso.
Ricerche internazionali comparate sul grado di mediatizzazione della Giornata dell’Otto marzo hanno rivelato che laddove vi sono indicatori favorevoli per le donne in relazione a tasso di attività professionale, rappresentanza politica e sociale, capacità di pressione sociale, esso sembra essere meno “necessario”14. La cronaca quotidiana, le statistiche sulla discriminazione e sulle disparità di genere nel nostro Paese, invece, ci ricordano quotidianamente che non possiamo permetterci di abbassare la guardia. Tuttavia, non sfugge ai più che c’è una disaffezione evidente, ancora più grave se si pensa alla gamma di significati valoriali e civili che l’Otto marzo racchiude. Da un lato, come tutte le festività istituzionalizzate diventate veri e propri «luoghi della memoria»15, esso ha perso parte di quel carattere spontaneo e più immediatamente identitario che poteva avere in passato. Dall’altro, la commercializzazione della festa e una reale ignoranza della storia che soggiace ad essa la rendono agli occhi della stragrande maggioranza delle persone una ricorrenza puramente esteriore, depauperata dei suoi molteplici significati (storici, politici, morali, sociali) e ridotta a mero significante, vuoto e consumistico.
Che fare dunque? Continuare a festeggiarlo sicuramente, ma riscoprendone la storia alla base perché solo la conoscenza dei fatti può vivificare la coscienza civile di una comunità. Un compito, questo, che va declinato a trecentosessanta gradi, a partire dalle principali agenzie educative e dagli operatori culturali che vi lavorano chiamati a promuovere percorsi di consapevolezza critica rispetto a giornate così importanti altrimenti destinate a isterilirsi in qualcosa di meccanico, passivo e autoreferenziale.
Per scongiurarlo basterebbe, ad esempio, domandarsi come mai la Giornata internazionale della donna in Italia ha il suo simbolo nella mimosa. Anche dietro questo fiore, proprio come dietro l’Otto marzo, c’è una storia, purtroppo poco nota. Il rametto di mimosa dal 1946 è il fiore emblema di questa ricorrenza grazie alla determinazione di donne che hanno contribuito a scrivere la storia del nostro Paese: Rita Montagnana, Teresa Noce e soprattutto Teresa Mattei. Fu lei a caldeggiare più di altri la scelta di un fiore che a marzo era già sbocciato e che rappresentasse la gentilezza e l’unione delle donne. La spuntò anche contro Luigi Longo, all’epoca vicesegretario del Partito comunista italiano, il quale, invece, proponeva la violetta. Ma la Mattei non retrocesse dalla sua proposta, precisando che, oltre ad essere molto più economica, la mimosa era legata anche a un momento decisivo della storia dell’Italia appena liberata: era infatti il fiore che i partigiani, impegnati nella lotta sulle montagne, erano soliti regalare alle staffette16.
Una delle tante storie da studiare, sapere e raccontare, figlia anch’essa di quel grande capitolo della storia contemporanea intitolato Otto marzo.
Note
1 L’espressione è tratta da Eric John Hobsbawn, Terence Ranger, The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 1992.
2 Ana Isabel Àlvarez Gonzàlez, Los orígenes y la celebracíon del Día Internacional de la Mujer, 1910-1945, Universidad de Oviedo, Oviedo 2000; Sylvie Chaperon, Qui a inventé la Journée de la femme?, in “L’Histoire”, 2001, n. 25; Alessandra Gissi, Otto marzo. La giornate internazionale della donna in Italia, Viella, Roma 2010.
3 Bruno Cartosio, I miti dell’otto marzo, in “il Manifesto”, 1° marzo 2006.
4 Tilde Capomazza, Marisa Ombra, 8 marzo. Storie miti riti della giornata internazionale della donna, Utopia, Roma 1987. Più recentemente, le due autrici hanno riaffrontato la questione anche in 8 marzo. Una storia lunga un secolo, Iacobelli, Roma 2009.
5 Annamaria Guadagni, L’otto marzo sparito, in “L’Unità”, 19 febbraio 1987.
6 Gianni Riotta, Scippato alle donne l’8 marzo, in “La Stampa”, 7 marzo 1987.
7 Liliane Kandel, Françoise Picq, Les muthe des origines, à propos de la journée internazionale des femmes, in “La Revue d’en face”, 1982, n. 12. E ancora Renèe Cotè, La Journèe internazionale des femmes, Les Editions du remue-ménage, Montreal 1984.
8 Gilbert Badia, Zetkin, Femminista senza frontiere, ErreEmme, Roma 1994.
9 Temma Kaplan, On the Socialist Origins of International Women’s Day, in “Feminist Studies”, 1985, n. 11, pp. 164-167.
10 Cit. in Capomazza, Ombra, 8 marzo: storie miti riti della giornata internazionale della donna, cit., p. 53-54.
11 Lidia Pupilli, Scintille della rivoluzione. Sul 1917 delle donne russe, in Giorgo Godi, Luca Marconi (a cura di), Un secolo d’ottobre. La Rivoluzione russa tra storia, arte e letteratura, Aras, Fano 2017, pp. 170-171.
12 Gissi, Otto marzo, cit., p. 12.
13 Ivi, p. 13.
14 Femmes et médias. Le 8 mars à la une. Une comparaison internazionale, dossier di “Sciences de la Societè”, 2007, n. 70.
15 Interessante quanto è stato scritto in proposito su una data irrinunciabile nel pantheon collettivo nazionale e internazionale come quella del 1° maggio per la quale si rimanda a Marco Fincardi, 1° maggio, in Mario Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997.
16 Intervista di Radio Capital a Teresa Mattei, 8 marzo 2012; È morta Teresa Mattei, scelse la mimosa come simbolo dell’8 marzo, in “LiberEtà”, 12 marzo 2013.