Vita, suono, musica, antimusica e parodie della musica. Il Museo del paesaggio sonoro di Riva presso Chieri

«Un giorno, tanti anni fa, più di trenta, ero a Bobbio Pellice. A un certo punto sento arrivare della musica dalla sede del dopolavoro, o della società. Era una fisarmonica accompagnata da un basso tuba che suonava malissimo. Con il sorriso e la curiosità sono entrato e con grande sorpresa ho capito che quel suono di tuba veniva fuori da una scopa sfregata su di una cassetta di legno». Lo strumento descritto nel racconto di Domenico Torta era suonato, ad imitazione di un basso a fiato, da Nino Pecchio, macellaio di Carignano. Egli utilizzava una piccola scopa di saggina. Nel manico, tagliato a metà, aveva innestato una punta di stecca da biliardo. La cassetta era invece di arbrun, il pioppo selvatico, legno di grande sonorità. La tavola superiore era stata segata grossolanamente in modo da ottenere una superficie ruvida. Un po’ di cenere vuotata su di essa ne riduceva l’attrito rendendo sonoro lo sfregamento. La maestria stava poi nel distribuire colpi decisi, tenendo salda la scopa alla sola base, lasciandone invece la parte restante libera di vibrare. (Didascalia che accompagna gli strumenti della sezione Müsica da poch nel Museo del paesaggio sonoro di Riva presso Chieri).

Il Museo del paesaggio sonoro è stato inaugurato a Palazzo Grosso a Riva presso Chieri il 19 giugno 2011, in occasione dei festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia. La sua storia tuttavia è molto più lunga e nasce dalle attività di musicista, compositore e insegnante di Domenico Torta. Profondo conoscitore dei vari usi del suono e della musica con cui a Riva presso Chieri e dintorni si determinavano rapporti con l’ambiente e tra viventi umani e non umani, per anni Torta si è divertito a raccogliere e documentare gli oggetti attraverso cui queste relazioni avevano luogo. Dai giocattoli per produrre suono ai richiami da caccia, dalle tastiere dismesse una volta che i campanili venivano elettrificati (talvolta con il suo contributo, affidando a meccanismi automatici le melodie che lui stesso aveva raccolto dai campanari che aveva incontrato e che aveva lui stesso eseguito), agli strumenti da strepito della settimana santa, dagli strumenti per la musica da ballo a quelli della parodia della musica: il torototela, la fruja, gli alteratori della voce realizzati con due calotte di zucca, detti cuse a Riva presso Chieri o ravi nell’Alessandrino.

Ma tra la storia di Domenico Torta e la nascita del Museo si colloca un evento ricco di conseguenze. Una circostanza apparentemente fortuita, il suggerimento del collezionista di pianoforti torinese Auro Artom a Annarita Colturato, collega di Febo Guizzi all’Università di Torino, di andare a conoscere Domenico Torta, aveva fatto sì che nell’estate 2004, Annarita Colturato e Febo Guizzi, insieme ad altri due curiosi (tra cui l’autrice di queste riflessioni), fossero saliti su una macchina alla volta di Riva presso Chieri. Febo Guizzi si trovò improvvisamente di fronte a un’esperienza a lui sconosciuta, che si era consolidata lontana dall’etnomusicologia e dall’organologia italiana che lui stesso aveva contribuito a fondare, ma che aveva percorso un sentiero ad essa parallelo, ad essa sorprendentemente vicino, per l’attenzione al senso del suono e del fare musica in un contesto culturale, per l’attenzione alle cose, che inevitabilmente portava all’accumulo di oggetti e degli strumenti del fare musica1, per la sensibilità infine per la profondità storica del loro uso.

Quell’incontro saldò legami tra persone che ancora oggi vivono, chi più da vicino, chi più da lontano, le vicende del Museo del paesaggio sonoro. Una serie di ricerche sul campo, avviate a partire dal dicembre 2004 dagli studenti di Febo Guizzi insieme a Domenico Torta, servirono a rinvigorire la consapevolezza comune di un uso del suono che non si era interrotta e a raccogliere nuovi strumenti musicali, fotografie e registrazioni audiovisive. Insieme al lavoro di artigiani e amici di vecchia data, questo nuovo innesto di interesse contribuì ad inaugurare, nell’ultimo piano di Palazzo Grosso (sede del Comune) nel giugno 2005, un allestimento provvisorio della collezione che Torta già da una ventina d’anni utilizzava nelle sue attività come insegnante di musica nella Scuola media e che talvolta esponeva in piccole mostre in occasione di eventi e festival musicali. L’allestimento del 2011 è stato realizzato dallo Studio Bodà di Torino, grazie all’interesse del Comune di Riva presso Chieri e al supporto della Regione Piemonte, a partire dalle idee e dallo studio sui contenuti condotto da Domenico Torta con Guido Raschieri, allievo di Febo Guizzi, che può a buon diritto condividere con Torta il ruolo di fondatore dell’attuale museo2.

In tempi di acustemologia3, di sound studies, di sonic philosophy4, di critiche rivolte al concetto di soundscape, ritenuto troppo legato ad una concezione visiva del rapporto tra suono e ambiente5 e di invecchiamento delle idee di Murray Schafer6 su un possibile «design acustico»volto a «studiare il paesaggio sonoro del mondo, al fine di proporre soluzioni utili a un suo miglioramento»7, a Riva presso Chieri si è deciso, forse anacronisticamente, di mantenere l’espressione “paesaggio sonoro”. Penso sia stata una scelta ancora oggi importante (sebbene non di moda e a suo modo rischiosa) proprio perché, a differenza del termine inglese soundscape, l’italiano paesaggio sonoro può avvalersi di una duplice chiave di lettura: il legame con l’idea di “paese”, essenziale in un museo che documenta pratiche minoritarie di uso del suono e della musica legate a un vissuto comunitario localizzato (sebbene in alcuni casi siano riconducibili a dispositivi sonori tutt’altro che marginali, che accomunano aree ben lontane tra loro) e la possibilità di richiamarsi alla tradizione paesaggista tipicamente italiana, che trova la sua espressione nei giardini e nell’arte, rinunciando dunque alla pretesa di separare il rapporto con l’ambiente da un punto di vista (e di ascolto) culturale e linguistico. Una simile prospettiva, infatti, ci aiuta a porci in una relazione di «uso», come suggerisce Giorgio Agamben, a ragionare sul paesaggio sonoro in termini di «relazione a un inappropriabile», quale è il paesaggio, come lui stesso ci insegna8.

Certo, c’è il rischio di ricadere in una concezione visiva dello spazio sonoro ma, da un lato, quando si ha a che fare con le cose oltre che con i suoni, è impossibile separare l’udito dal tatto e dalla vista, dall’altro è forse utile indagare i processi culturali comuni sia alla costruzione di un paesaggio nell’arte, o alla progettazione dei giardini, sia alla delimitazione dello spazio sonoro e alla sua “riproposta” in chiave musicale, quale quella messa in atto da Domenico Torta9 e che dà continuità alla consapevolezza sonora di lunga data che senza di lui, forse, a Riva presso Chieri si sarebbe affievolita. Vale la pena allora di riportare alla mente alcune parole di Eugenio Battisti sul paesaggio come forma d’arte che ci aiutano a mettere a fuoco l’idea di “paesaggio” che il museo elabora in chiave “sonora”:

Il paesaggio, infatti, non descrive l’ambiente naturale, ma ne dà una interpretazione e una scelta (parziale ed angolata anche quando lo scopo è di dare una registrazione scientifica e documentaria della natura); è costituito da un raggruppamento significante di elementi, alcuni dei quali, di volta in volta, assumono una speciale importanza (alberi, o città, o montagne, o effetti atmosferici)10.

In un documento, rimasto inedito, che Febo Guizzi inviò a noi studenti e allo studio di architetti incaricati di sviluppare il progetto del museo11, il nesso tra “paesaggio” e “paesaggio sonoro” è sviluppato tenendo conto di questi aspetti e della peculiarità del museo di Riva presso Chieri: la presenza di Domenico Torta quale genius loci.

Che cos’è il “paesaggio sonoro”? Il paesaggio come tutti sappiamo è l’aspetto di ciò che abbiamo di fronte, di ciò che abbiamo intorno, è lo spazio all’interno del quale ci si muove, spazio definito da coordinate che non hanno in prima istanza carattere individuale, ma è lo spazio che circonda un gruppo, una comunità, è una proiezione della cultura di un gruppo umano. Il paesaggio che si vede con lo sguardo, anche quello naturale, è costruzione dell’uomo; lo è perché la natura viene modificata dal tempo, dal lavoro, dalle necessità anche drammatiche di far fronte alle esigenze della vita; ma il paesaggio è anche la proiezione di una visione ideale; è nel suo complesso il risultato di compromessi tra intenzioni contrastanti, tra le necessità della sopravvivenza e la volontà di dare al mondo un’impronta che sia familiare, che sia riconosciuta, che sia rassicurante: il termine altro non è se non l’equivalente di una sorta di “manipolazione realizzata” del concetto di “paese”. […] Il paesaggio sonoro è dunque la visione unitaria dello spazio come luogo dell’esperienza sonora; l’esperienza del soggetto che individua, sceglie e ricompone i suoni come espressione del mondo. Ogni soggetto costruisce un suo punto di “vista” (o meglio punto di “ascolto”) sul mondo sonoro, quindi costruisce un’idea di proprio paesaggio sonoro. Qualcuno, individuo o gruppo che sia, lo fa in modo straordinario, o perché è capace di un’egemonia sui suoni collettivi, o perché dilata al massimo la sua sensibilità, sapendovi includere un senso che “risuona” anche per gli altri e che gli altri accettano con ammirazione e quasi con gratitudine, perché si offre loro una prospettiva totale di cui non si sentivano capaci, e per questo “aderiscono” alla proposta altrui (ci sono paesaggi sonori “di adesione”).

Noi tutti che abbiamo partecipato all’avventura del Museo del paesaggio sonoro abbiamo infatti aderito alla proposta di Torta e ci siamo fatti affascinare dal vissuto attraverso l’uso dei suoni e della musica che traspare dalla sua raccolta e dalla sua vita. Un uso fondato sul senso delle pratiche sonore, che in alcuni casi rivestono un ruolo di negazione della musica o di parodia. È antimusica, sosteneva Febo Guizzi12, la produzione di rumori con raganelle, traccole, corni ad ancia durante la settimana santa, oppure la percussione di falci, bidoni di latta o lo scuotimento di lamiere con cui si intendeva fermare la sciamatura delle api che, ad un’osservazione più attenta, si rivela essere una rivendicazione “sonora” del possesso dello sciame da parte dell’apicoltore13. È una parodia del fare musicale l’imitazione delle bande di ottoni attraverso il sapiente uso di alteratori della voce (le cuse o ravi), come pure l’utilizzo del torototela, un arco musicale, o una cetra (a seconda della struttura dello strumento) in cui una corda è tesa su un supporto arcuato o verticale, è munita di un risuonatore di zucca oppure costituito da una vescica di maiale gonfia, e sfregata con un archetto oppure percossa14. È una parodia del fare musica l’utilizzo della fruja, un bastone corrugato munito di sonagli che produce suono attraverso percussioni ravvicinate quando viene passato contro un bastone appoggiato alla spalla a mo’ di violino, come lo è la scopa sfregata sulla tavola di legno che imita il basso tuba. L’intento giocoso e ironico investe inoltre tutta una serie di oggetti che vengono distolti dal loro uso abituale per produrre musica o suono: cucchiai e rastrelli forniscono un accompagnamento ritmico in caso di bisogno, ditali e chiavi (quelle di una volta, cave all’interno) diventano fischietti, i bicchieri e le bottiglie, con diverse quantità d’acqua, sfregati o percossi, diventano strumenti in grado di produrre melodie. Tutto questo era parte di un modo di vivere che noi abbiamo conosciuto tramite Torta, ma di cui egli non è altro che testimone, portatore di conoscenze condivise che vanno oltre la sua storia individuale. Osservava inoltre Febo Guizzi:

In generale ognuno di questi oggetti deriva — e dunque la rappresenta — da una catena di raffinate attitudini di trasferire nella materia la capacità di produrre suoni in maniera specializzata. I richiami da caccia, ad esempio, che costituiscono una parte consistente di questa raccolta, e vi sono documentati in una maniera davvero encomiabile, rappresentano un’abilità di riproduzione di suoni che per lo scopo preciso per il quale vengono prodotti deve essere il più possibile aderente alla comunicazione sociale e naturale del mondo animale; in termini acustici, devono ricostruire gli spettri armonici, i transitori di attacco, le ricette foniche di un modo di comunicare che appartiene ad altre specie viventi, che deriva da milioni d’anni di evoluzione naturale e di regola non è percepibile come tale dalla nostra capacità uditiva, ma di cui devono fornire la copia funzionale la più fedele possibile. Siamo dunque in presenza di una vera e propria scienza e di una abilissima capacità pratica di mettere in atto meccanismi che riproducano artificialmente pieghe nascoste del mondo sonoro; siano o no gli oggetti semplici o complessi, il mondo culturale che c’è dietro non rappresenta soltanto un passato che ha radici molto lontane; la loro appartenenza alla tradizione orale determina il fatto che li si possa conoscere solo a condizione che essi siano “vivi”15.

Negli strumenti musicali e dispositivi sonori conservati al Museo si è sedimentato un sapere preindividuale, che nel suo persistere marginale sfida le nostre tendenze a considerare il suono come qualcosa di smaterializzato, riportandoci invece al rapporto diretto con le forme e tenendo viva l’attenzione per la continuità del gesto produttore di suono, che in qualche caso rimane saldamente ancorato alle cose, riuscendo così a continuare ad essere, a suo modo, al passo con la contemporaneità.

La relazione con l’inappropriabile sonoro dunque a Riva presso Chieri si sedimenta in un museo, lasciando ai visitatori la possibilità di ideare nuovi usi del suono a partire dall’inoperosità degli oggetti che si offrono alla contemplazione. In questa rinuncia alla produzione di un’opera che riproponga il “suono del paesaggio” il Museo del paesaggio sonoro si differenzia dai metodi dell’acustemologia, forse oggi uno degli approcci ritenuti più interessanti in ambito etnomusicologico. Steven Feld intende l’acustemologia come un ampliamento di ciò che prima chiamava antropologia del suono, espressione che ha finito per non soddisfarlo per la sua prospettiva troppo antropocentrica16. Il Museo del paesaggio sonoro non rinuncia all’antropocentrismo, anzi lo dichiara, proponendosi di studiare il senso che l’animale dotato di linguaggio attribuisce all’uso del suono e della musica in un determinato spazio e in rapporto con gli altri viventi. Sono certamente due prospettive diverse, quella di Feld incentrata sulla percezione e la ri-mediazione del suono e quella di Torta e del Museo sul senso del suono e della musica e sul rapporto con gli oggetti; la prima basata sul field recording e la post produzione, la seconda sul vissuto sonoro e musicale, la memoria e i suoi sedimenti, ma che forse, in un contesto quale il Museo del paesaggio sonoro a Riva presso Chieri, potrebbero arrivare a convergere, portandovi due prospettive complementari. Senza porsi troppe domande accademiche, Domenico Torta riuscirebbe infatti a farle convivere, sia perché grazie a lui qualcosa di quella prospettiva sonora ancora vive e rende Riva presso Chieri un contesto ancora acusticamente interessante, sia per le suggestioni che sa offrire a chi lo incontra. Per esempio, quando accompagna i visitatori nel museo, arrivato nella sezione degli strumenti da strepito della settimana santa, a proposito delle trombe di conchiglia, illustrando il loro uso come strumento da segnale oltre che per gli strepiti, soffia dentro una conchiglia e ci ricorda che il suono è identico a quello che si ascolta sui traghetti: «la musica cambia, il suono resta», commenta divertito. Oppure quando teorizza sugli “ancestrali”, i suoni prodotti da dispositivi sonori conosciuti pressoché ovunque nel mondo, come i rombi e i frulli, che per noi oggi sono solo giocattoli ma che hanno un’importante storia come strumenti rituali, accessibili solo agli iniziati17, e che Torta fa rivivere nella sua attività artistica.

Di certo Domenico Torta è amato anche dai sound artist e dai professionisti della musica ed è proprio nella scrittura musicale che ha riversato la sua formazione accademica e la conoscenza preindividuale di cui si è reso testimone e che continua ad elaborare insieme ai Musicanti di Riva presso Chieri. Ne sono prova gli spettacoli per voce narrante (in piemontese) e musica Ant j’euj na stòria… la nòsta e Se i bogianen a bogio… pòrca miseria!, il disco Saré l’uss e buté fóra ’l gat18, uscito nel 2005, e la partitura Paesaggi sonori, eseguita per la prima volta al Piccolo Regio di Torino il 26 e 27 febbraio 2015, Quattro brevissime favole musicali per voce recitante, campane tubolari, rastrelli, cucchiai, cintura, bottiglie percosse, bottiglie insufflate e la complicità di un’orchestra d’archi con quartetto di legni, come recita il sottotitolo dell’opera.

È su quest’ultima opera che intendo fare alcune brevissime riflessioni conclusive. Paesaggi sonori19 sancisce la continuità nell’arte di ciò che nel museo viene esposto alla contemplazione. Benché si tratti di una partitura difficile, che al momento solo i Musicanti di Riva presso Chieri sono in grado di portare in scena al fianco di una orchestra, il sogno del compositore è farla eseguire ai ragazzi delle scuole. Anche in questo caso «ce la stiamo già facendo», come Torta è solito dire, non solo perché anch’essa è ora parte delle sue attività didattiche, ma anche per come la partitura è elaborata. Al fine di rendere meglio comprensibili le soluzioni di semiografia musicale appositamente ideate specialmente per la Sinfonia del mondo, dove sono impiegati esclusivamente richiami da caccia, giocattoli sonori e altri dispositivi sonori documentati nel museo, viene fornita una dettagliata descrizione dei gesti necessari per la loro attivazione, corredando dunque la partitura di un apparato didascalico non comune. Sarà possibile giudicarne l’efficacia solo in futuro, tuttavia questa si configura come operazione non più solo musicale ma volta a trasmettere un sapere storicamente consolidato che preesiste alla vicenda personale di Domenico Torta, un rapporto con gli oggetti produttori di suono riconducibile ad una collettività che per secoli ne ha fatto uso per vivere, una serie di gesti condivisi tramite i quali riprodurre artificialmente i suoni naturali.


Note

1 La pratica del collezionismo è infatti determinante per il consolidamento degli studi etno-orgnaologici in Italia. Proprio un’esposizione ragionata delle raccolte di strumenti musicali individuate all’epoca costituisce il primo passo maturo dell’etno-organologia in Italia, si tratta della mostra Gli strumenti della musica popolare in Italia, allestita tra il 1983 e il 1984 al Teatro La Fenice, Rocca Borromea di Angera, Teatro Comunale di Bologna, Teatro alla Scala, Castelfidardo e al Museo delle Arti e tradizioni popolari di Roma, il catalogo è pubblicato in appendice a Roberto Leydi e Febo Guizzi (a cura di), Strumenti musicali e tradizioni popolari italiane, Roma, Bulzoni, 1985.

2 In assenza di pubblicazioni sul Museo, il capitolo Ce la faremo? Ce la stiamo già facendo! Il Civico Museo del Paesaggio Sonoro di Riva presso Chieri nella tesi di dottorato di Guido Raschieri costituisce la migliore introduzione al museo tuttora disponibile: Guido Battista Raschieri, Senso e identità del termine popolare. Alcune prospettive di indagine etnomusicologica. La riproposta di repertori musicali tradizionali in Piemonte, Università degli Studi di Torino, anni accademici 2008-2011, pp. 472-624.

3 Steven Feld, Waterfalls of Song. An Acoustemology of Place Resounding in Bosavi, Papua New Guinea, in Steven Feld, Keith H. Basso (eds.), Senses of Place, Santa Fe, School of American Research Press, 1996, pp. 91-135 e Steven Feld, Acoustemology, in David Novak, Matt Sakakeeny (eds.), Keywords in Sound, Durham, Duke University Press, 2015, pp. 12-21.

4 Per un impatto in Italia della sonic philosophy si vedano le riflessioni contenute nel primo capitolo (Tra sound art e ambienti d’ascolto: teorie contemporanee del suono) in Leandro Pisano, Nuove geografie del suono. Spazi e territori nell’epoca postdigitale, Milano, Meltemi, 2017.

5 Tim Ingold, Four objections to the concept of soundscape, in Being alive, London and New York, Routledge, 2011, pp. 136-139.

6 R. Murray Schafer, The Tuning of the World, 1977; trad. it. Il paesaggio sonoro, Roma-Lucca, Ricordi-Lim, 1985.

7 R. Murray Schafer, Il paesaggio sonoro, cit., p. 15.

8 Giorgio Agamben, L’inappropriabile, in Id., L’uso dei corpi, Vicenza, Neri Pozza, 2014, pp. 114-131.

9 Il sito di Domenico Torta contiene informazioni sia sul Museo del paesaggio sonoro, sia sulla sua produzione come compositore, in particolare Paesaggi sonori: http://tasch5.wixsite.com/domenicotorta. Tra le ultime attività didattiche, condotte all’Istituto comprensivo Chieri I in collaborazione con Guido Raschieri, il video Belle ciao, vincitore del premio Comandante Tarzan 2018 (intitolato al partigiano Beppe Gastaldi) https://www.youtube.com/watch?v=eY6jUTEebaU&feature=share.

10 Eugenio Battisti, Il paesaggio. Complessità e storia di un “genere”, in Id., Iconologia ed ecologia del giardino e del paesaggio, a cura di Giuseppa Saccaro Del Buffa, Firenze, Olschki, 2004, pp. 51-69, la citazione è da p. 51.

11 Il documento è ora disponibile qui: http://museopaesaggiosonoro.org/wp-content/uploads/2017/02/Febo-Guizzi-Per-un-museo-del-paesaggio-sonoro.pdf.

12 Febo Guizzi, Corni, strepiti, diavoli e giudei. Le raffigurazioni del Cristo deriso e il “demoniaco” nei rituali della Passione, in Franco Castelli (a cura di), Charivari. Mascherate di vivi e di morti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, pp. 201-243.

13 Italo Sordi, Rumori e suoni di carnevale, in Franco Castelli e Piercarlo Grimaldi (a cura di) Maschere e corpi. Percorsi sul carnevale, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1999, pp. 283-291.

14 https://www.youtube.com/watch?v=6_M_y9QVZ5c.

15 Febo Guizzi, scritto inedito citato sopra http://museopaesaggiosonoro.org/wp-content/uploads/2017/02/Febo-Guizzi-Per-un-museo-del-paesaggio-sonoro.pdf.

16 «Other intellectual equipment was needed to address the sounding worlds of indigenous and emergent global geographies of difference across the divides of species and materials. For this reason, the relational ontology background shaped acoustemology as a way to inquire into knowing in and through sounding, with particular care to the reflexive feedback of sounding and listening. The kind of knowing that acoustemology tracks in and through sound and sounding is always experiential, contextual, fallible, changeable, contingent, emergent, opportune, subjective, constructed, selective. […] Acoustemology, then, is grounded in the basic assumption that life is shared with others-in-relation, with numerous sources of action (actant in Bruno Latour’s terminology) that are variously human, nonhuman, living, nonliving, organic, or technological. This relationality is both a routine condition of dwelling and one that produces consciousness of modes of acoustic attending, of ways of listening for and resounding to presence.» Steven Feld, Acoustemology, cit., pp. 14-15.

17 André Schaeffner, Origine des instruments de musique, Paris, École des Hautes Études en Sciences Sociales, 1994 (ed. or. Paris, Mouton Éditeur et Maison des Sciences de l’Homme, 1968), p. 108: «Jouets et jeux peuvent être considérés tour à tour, ainsi que le remarque M. Marcel Mauss, comme des survivances abâtardies du matériel rituel (rhombes, diables) ou comme des témoignages de ce que la religion, à ses origines, a pu entremêler de jeu à ses rites. Il ne s’agit pas en ces pages de ressaisir quelle part a le jeu dans la musique, mais bien la part de matériel sonore dans le jeu».

18 Le tracce del disco sono ora disponibili qui: https://www.youtube.com/playlist?list=PLy7iw1YjcAPvYd8_LI6QQhOVuGSs1IgUq.

19 Di cui è disponibile un trailer qui https://www.youtube.com/watch?v=_LAL6gg3YBo.