L’«eterno nemico della civiltà»: tracce di storia anticlericale marchigiana di inizio Novecento

Io odio i preti per convinzione e per sentimento; se posso tormentarne qualcuno sono felice; il mio ideale sarebbe di porli tutti in un fascio dentro un piroscafo e mandarli a colonizzare il polo.
(Cavalier Mostardo, in A. Beltramelli, Gli uomini rossi, 1904)

La battaglia anticlericale

In Romagna e nelle Marche centro-settentrionali, zone già sottoposte al governo pontificio, il risentimento verso il clero e l’indifferenza in materia religiosa hanno una lunga tradizione, tale da rendere l’anticlericalismo a cavallo tra Otto e Novecento un vero e proprio movimento di massa, più forte nei borghi urbani che nelle campagne, più tenace nelle città costiere che nelle aree interne. Diverse anime ne fanno parte a pieno titolo: dai gruppi egemonici della borghesia italiana, nemici del Vaticano fino a quando il pericolo socialista non condurrà verso la ricerca di un’alleanza tra le forze conservatrici, ai cattolici che agiscono nel mondo distinguendo tra Cesare e Dio, alle minoranze protestanti contrarie alla piega presa dalle faccende ecclesiastiche e auspicanti un ritorno all’essenzialità evangelica, ai massoni, ai liberi pensatori, fino alle posizioni di anarchici e sovversivi che coniugano la lotta al prete con le ipotesi di trasformazione sociale. D’altra parte, disponendo la Chiesa di una larga influenza sulle masse popolari e grazie al suo ramificato insediamento nel territorio, sono i suoi ministri, forse ancor più dei carabinieri, a rappresentare il baluardo contro le teorie socialiste e per il mantenimento della pace sociale.

In campo socialista si possono riscontrare diversi atteggiamenti nei confronti del mondo cattolico e della religiosità. Se la prima generazione di internazionalisti si dichiarava nettamente atea e anticlericale, la posizione ufficiale del partito socialista si fa poi più cauta, nel timore che la battaglia anticlericale possa ridursi a un “diversivo”, accusata cioè di deviare le attenzioni dalla questione sociale e dal carattere addirittura mistificatorio se non sposata alla lotta di classe. C’è anche una comunità proletaria che rinnega le credenze religiose per soppiantarle con una nuova fede laica, nel socialismo, dai connotati non troppo dissimili dalla precedente. Rovesciandone la sostanza, ne mantiene infatti il linguaggio e le forme esteriori: l’ideale socialista è una fede, i suoi propagandisti sono apostoli, i suoi eroi sono martiri, gli opuscoletti recano il titolo di catechismo socialista, la rivoluzione sociale appare nella stessa luce di una palingenesi religiosa. All’opposto, non mancano le manifestazioni decisamente irreligiose e irriverenti, seppur carenti di approfondimento critico, tipiche ad esempio della rivista “L’Asino” e delle sue vignette che associano la figura del prete a lussuria, avarizia e gola, rappresentandolo come un personaggio tipicamente dedito a raggirare qualche credulone, a riempirsi lo stomaco e a infrangere i voti di castità.

In tale complessità del fenomeno, la chiave interpretativa più efficace del fermento anticlericale diffuso tra le masse popolari resta quella collegata alla questione sociale. Se nelle città le gerarchie ecclesiastiche rappresentano il miglior alleato dei padroni, nelle campagne l’inserimento dei cattolici nell’organizzazione della classe lavoratrice contadina innesca la competizione con le sinistre sul loro stesso terreno. E spesso sono i socialisti a trovarsi nella posizione di chi rincorre, faticando talvolta a tenere testa a un movimento cattolico dalla diffusione capillare, tramite la rete antica e collaudata di diocesi e parrocchie, dotato di personale impegnato a tempo pieno nell’opera di organizzazione e propaganda. Dal momento che la dottrina sociale della Chiesa propone una soluzione conciliatoria, non rivoluzionaria e antisocialista della questione sociale, il clero che vuol fare gli interessi del proletariato è guardato con la diffidenza dovuta a un concorrente: le leghe «bianche» non sono alleate nella lotta contro un comune nemico, ma sono esse stesse un diretto avversario.

La battaglia tra clericali e anticlericali si combatte sui giornali ma anche nelle piazze, dove frequenti sono incidenti e scontri dovuti il più delle volte ai tentativi di disturbo delle processioni da parte degli elementi sovversivi. Alcuni dei momenti di più elevata conflittualità sociale del periodo giolittiano sono caratterizzati proprio dall’anticlericalismo, in particolare durante le mobilitazioni a favore del libertario spagnolo Francisco Ferrer y Guardia, fondatore dell’Escuela Moderna di Barcellona. Sottraendo la scuola alle autoritarie influenze di Stato e Chiesa per farne strumento di libera formazione piuttosto che puntello dell’ordine sociale, Ferrer si era scontrato con la repressione prontamente attuata da monarchia e clero: condannato a morte, viene fucilato il 13 ottobre 1909, diventando un simbolo internazionale delle battaglie contro l’oscurantismo religioso. In quegli anni, almeno fino agli assalti alle chiese durante la Settimana rossa del 1914, l’anticlericalismo rivoluzionario conosce le sue battaglie più intense, che saranno insieme il culmine e le ultime fiammate di una lunga stagione di lotta al potere della Chiesa.

 

Alcuni episodi della battaglia anticlericale nei primi anni del Novecento

A Fossombrone dal 1906 al 1910 la processione del Corpus Domini non viene autorizzata dalle autorità per il timore di incidenti che si sarebbero con tutta probabilità verificati. L’anno successivo, quando il prefetto tenta di ritirare il divieto credendo che le acque si fossero calmate, gli anticlericali si riuniscono in assemblea alla presenza anche di alcuni membri dell’amministrazione cittadina, per stilare e quindi diffondere un manifestino in cui accusano le autorità di essersi fatte complici dell’«eterno nemico della civiltà» e promettono di opporsi con ogni mezzo all’uscita della processione:

Fossombrone, 22 giugno 1911
Gli anticlericali di ogni partito adunatisi la sera del 21 corrente per stabilire la linea di condotta da seguire in occasione della processione del Corpus Domini, rinviata a sabato prossimo, dopo concorde discussione
Deliberano
1. Di raccogliere la sfida lanciata dai clericali e di opporsi in ogni maniera all’uscita della suaccennata processione;
2. Di invitare, plaudendo alla iniziativa di parecchi membri delle locali amministrazioni presenti all’adunanza, tutti coloro che rivestono cariche pubbliche e professano sentimenti liberi e civili, a rassegnare in massa le proprie dimissioni, qualora l’autorità politica persistesse a rendersi complice e solidale con l’eterno nemico della civiltà1.

La visita apostolica eseguita in quegli anni dall’abate Arcangelo Lolli, descriveva con sincero rammarico, ma senza indagarne le cause economiche e sociali, l’empietà della diocesi, amministrata da 79 sacerdoti definiti «sufficientemente ignoranti, di poco spirito e di mediocre zelo»:

la popolazione della città è guasta in gran parte. La bestemmia è frequente: vi sono parecchi matrimonî puramente civili, rifiuto del SS. Sacramenti in punto di morte, funerali esclusivamente civili, battesimi fatti per cura delle mamme, ma di nascosto, per timore dei babbi che non vorrebbero. Gli uomini raramente si accostano ai SS. Sacramenti; alcuni neppure nella Pasqua. L’odio al prete aumenta d’anno in anno, e la Massoneria spadroneggia. […] In Fossombrone e Diocesi non v’è un Ricreatorio, un Circolo cattolico, una Lega, un’Opera insomma qualsiasi per preservare dal male i giovani e gli operai. La gioventù maschile cresce quasi tutta senza sentimenti cristiani. Pochi fanciulli, appena il dieci per cento, fanno la prima Comunione; e quei pochi sono mal preparati; poi restano abbandonati a loro stessi2.

Scenari simili sono tratteggiati anche nelle relazioni di altre visite apostoliche condotte nei territori marchigiani tra il 1905 e il 1911. A Fano la sagrestia di una delle chiese è «un vero porcile», molti parroci trascurano l’assistenza agli infermi e abbondano le condotte moralmente scandalose, come quella del cassiere della Banca cattolica, professore al seminario e cappellano del civico ospedale che è risaputo faccia «cose bruttissime» con le infermiere. A Jesi «regna la bestemmia» ed è fin troppo diffusa la «cattiva stampa» socialista. Le cose vanno solo apparentemente meglio nella tranquilla diocesi di Urbino dove le chiese sono frequentate e la bestemmia è rara, ma «il nemico non dorme e va seminando la sua zizzania», tanto che ai giovani basta cambiare aria per qualche tempo, emigrando o andando a servizio militare, per tornare pieni «d’idee irreligiose, false e sovversive». Dove non arrivano i partiti sovversivi, l’anticlericalismo è alimentato da massoni e gruppi liberali, come a Camerino dove «domina il liberalismo da padrone dispotico, e in tanti anni di tale dominio il clero sempre apatico non ha saputo far nulla». A Fabriano, poi, molti cittadini

fanno pompa del loro odio contro la religione; rifiutano il matrimonio religioso, vietano il battesimo ai loro figli e ogni rito religioso ai loro morti. È un piccolo manipoli di empi ma che a Fabriano, come altrove, s’impone all’intera popolazione la quale, pusillanime, quasi teme di mostrarsi apertamente cattolica.

Il manipolo non dev’essere in realtà tanto piccolo, se nella stessa relazione il visitatore apostolico ammette che nella locale cartiera, fulcro dell’industria cittadina, la gran massa degli operai è «infetta quasi tutto di Socialismo»3. Sono, infatti, anni non facili per i clericali fabrianesi. Già in occasione del Convegno studentesco marchigiano tenuto in città il 31 luglio 1910 non erano mancati gli inconvenienti, con lanci di sassi contro il corteo dei ginnasti e black out doloso al teatro che ospitava la manifestazione. Era inoltre frequente l’affissione di manifesti anticlericali, come quelli che per l’anniversario della morte di Mazzini invitavano «a passare con intatti piedi sopra il cadavere di Roma papale»4, nonché la comparsa di scritte ingiuriose tracciate sulle facciate delle chiese, dove talvolta veniva provocatoriamente affisso il giornale satirico “L’Asino”.

L’episodio fabrianese più clamoroso si ha però il 15 giugno 1911 con il riuscito assalto alla processione del Corpus Domini, «in cui si tentò di togliere l’Eucarestia dalle mani dell’intrepido Vescovo»5. Quel giorno, nonostante la presenza in forze di numerose guardie di città oltre a 250 bersaglieri e 50 carabinieri mobilitati a protezione della processione, il gruppo di anticlericali partito in corteo dietro un drappo rosso con la scritta «Miniamo il Vaticano», al canto dell’Inno dei lavoratori, era riuscito ripetutamente a incrociare e quindi scompaginare la sfilata nemica. Tale era il clima di conflittualità, in realtà tutta politica, che la prefettura si vede costretta a impedire per ragioni di ordine pubblico successive manifestazioni religiose e, solo pochi mesi dopo, il consiglio comunale guidato da esponenti dei partiti popolari delibera l’apposizione di una lapide – forse la più bella tra quelle apposte in quel periodo – in ricordo di Francisco Ferrer. Sui fatti di Fabriano, che si guadagnano un paio di interrogazioni parlamentari e la copertina illustrata de “La Domenica del Corriere”6, ecco un ispirato resoconto tratto dal settimanale cattolico “L’Azione” del 18 giugno 1911:

la processione del Corpus Domini fu anzitutto un’imponente manifestazione di fede. Migliaia e migliaia di persone vennero ad attestarla dinanzi a Gesù in Sacramento; migliaia e migliaia si scopersero il capo e curvarono riverenti la fronte. Gesù passava con la sua benedizione di pace e d’amore; i sacerdoti, il popolo cantavan inni di pace e d’amore; ma l’odio satanico covava, accumulando il suo veleno ne’ cuori, e scoppiò. […] Uscì la processione, protetta più che dalla forza armata, dalla fede viva e dall’amore ardente; continuò superando un incidente alla Madonnetta delle Grazie, cominciò a ondeggiare all’uscir dalla chiesa delle Cappuccine; l’epilogo dei preparativi, dell’odio, lo pseudo trionfo di Satana doveva avvenire dinanzi alla Tipografia Economica. L’inno dei lavoratori era superato dai nostri canti; due colpi si udirono; un panico improvviso invase gl’ipocriti che vigilavano, a un cenno d’un uomo dagli occhiali neri come l’anima sua, irruppero: grida, tumulti, fughe: lampioni che cadevan sulle teste, preti atterrati, vetrine della tipografia in frantumi, persone che fuggivano, mentre il Vescovo, che portava il Santissimo, in attesa, sereno. La teppa, ottenuto il suo intento, s’era dileguata7.

Anche le cronache di Jesi riferiscono di un’ostilità tra opposte fazioni che talvolta precipita in tafferugli di piazza. È quanto succede ad esempio il 4 maggio 1913 nel clima surriscaldato dalle elezioni politiche, quelle del Patto Gentiloni e dell’accordo conservatore tra cattolici e liberali, quando socialisti e repubblicani dapprima disturbano con fischi e invettive una manifestazione delle leghe contadine cattoliche, poi indicono un comizio anticlericale sulla piazza del Duomo. Ma nel momento in cui Pietro Nenni prende la parola le campane iniziano a suonare coprendone la voce, al che la folla, furiosa per l’affronto, tenta di sfondare la porta del campanile della cattedrale con conseguenti scontri con le forze dell’ordine8.

A Fano ci pensano gli anarchici raccolti attorno al giornale “In Marcia” a fomentare il sentimento antireligioso. Non tanto per questioni metafisiche, quanto perché la Chiesa si poneva come diretta rivale nell’organizzazione delle leghe dei lavoratori. Si racconta che all’inizio del 1906, mentre le manifestazioni popolari contro il caro-viveri bloccavano l’intera città, gruppi di manifestanti abbiano fatto irruzione nella cattedrale durante la messa di mezzogiorno al grido di: «fuori da questa stalla!». In altre occasioni i muri cittadini vengono tappezzati da manifesti contenenti frasi come: «i preti sono i bagarini del purgatorio, rubano soldi agli stupidi di cui violano i figli», «la veste pretina cioè religiosa è la più schifosa», «la porce…ssione è l’inganno del popolo», a cui seguono rituali processi agli anarchici per vilipendio al culto e alla religione cattolica. Durante i moti pro Ferrer del 1909 una folla di scioperanti, terminato il comizio, imbocca minacciosa la via che porta al vescovado scontrandosi con le forze dell’ordine; un paio di anni dopo, nel 1911, la processione del Corpus Domini parte accolta da salve di fischi, urla e invettive per finire con incursioni di giovani che strappano gli stendardi parrocchiali dalle mani dei fedeli, di fronte a sacerdoti che cercano di difendere il corteo brandendo torce e candelabri9.

 

L’assalto alle chiese durante la Settimana rossa del 1914

Questi e centinaia di simili episodi di inimicizia, rivalità e perfino scontro fisico tra clericali e anticlericali non sono che un preludio a quanto accadrà durante la Settimana rossa tra Romagna e Marche. Clero ed esercito vengono visti come due puntelli dello stesso potere e la battaglia contro entrambi si pone, durante quei giorni di giugno 1914, quale elemento unificante per tutte le forze rivoluzionarie, capace di tenere insieme socialisti, anarchici e repubblicani che pur si erano aspramente combattuti fino allora e riprenderanno a combattersi poi. I luoghi e i simboli della Chiesa cattolica diventano quindi uno dei bersagli preferiti delle popolazioni in rivolta. Rimarranno famose le chiese bruciate e semidemolite ad Alfonsine, Mezzano, Fusignano, Bagnacavallo e in altre località romagnole ma anche in terra marchigiana, seppur di minor impatto complessivo, gli episodi sono altrettanto diffusi.

A Fano e Mondolfo, giusto per citarne qualcuno, le chiese di S. Teresa e di S. Maria Assunta vengono gravemente danneggiate con danni a porte, simboli religiosi, quadri, arredamenti e paramenti sacri; a Montelabbate il batacchio della campana annessa al palazzo comunale, utilizzata anche per scandire le funzioni religiose, viene strappato dal campanile e gettato nel fiume Foglia. In provincia di Ancona si ricordano il tentativo di assalto al Duomo di Jesi, con la folla prontamente dispersa dalla truppa, e quanto accaduto a Fabriano dove tra grida anticlericali viene interrotta la messa nella chiesa di San Biagio, anche se i dimostranti si ritirano dopo l’assicurazione dell’officiante che la chiesa sarebbe stata chiusa immediatamente al termine della funzione.

Gli episodi più clamorosi si verificano però a Senigallia. Il 12 giugno 1914, la folla dei dimostranti dopo essersi diretta alla stazione ferroviaria dove la viabilità era già interrotta dal giorno precedente, si riversa per le vie del centro, si procura bastoni e taniche di benzina, quindi invade e devasta la Chiesa della Croce e cerca di sfondare a picconate le porte del Duomo per poi dar loro fuoco. Subito dopo è la volta della Chiesa di San Rocco, il cui assalto viene così minuziosamente descritto nella cronaca dei frati di S. Martino:

le picconate si succedevano, contro la porta facciale, con furia infernale, ma resistette: allora si pensò di penetrare per la porta della Sagrestia chiusa solo da un saliscendi: l’impresa fu facilissima: la scardinarono. La Sagrestia presenta un aspetto da cavare le lagrime! Quadri, croci, crocifissi, armadi, suppellettili, imposte e libri, fracassati, gettati nella strada, spezzati, rotti, lacerati senza pietà: “qui son passati i cannibali”, disse un tale, vedendo quella strage! Di qui si portarono in Chiesa: in pochi minuti l’altar maggiore fu messo a soqquadro: il liborio ruzzolato in presbiterio si fracassò e lasciò sfuggire qualche particola (raccolta poscia insieme con la pisside da una suora di Carità dell’annesso orfanotrofio); su di un quadro venne infilzato, per lo spunzone, un candeliere; la statua di S. Filomena ruzzolò in Chiesa (ma non à subito gravi danni: la testa è rimasta intatta non so per quale grazia); i candelieri fracassati, i vetri rotti, i quadri di vari santi deturpati: solo sono rimasti intatti due altari (quelli presso la porta) con i loro arredi, forse perché dovettero fuggire essendo giunta la cavalleria, o per dar l’assalto alla Pace10.

L’incendio della Chiesa di Santa Maria della Pace rappresenta infatti il culmine della giornata. Mentre un gruppo procede ad appiccare le fiamme e le alimenta per diverse ore, la folla assiste acquiescente alla scena e pare che anche i pompieri intervengano, per timore di rappresaglie, solo con colpevole ritardo. Sono ancora le memorie del convento di San Martino a fornire una dettagliata descrizione della scena:

Qui à avuto il culmine la barbarie. […] L’opera di distruzione si può così descrivere negativamente: della Chiesa non rimangono che quattro muri, il campanile e le campane; della canonica rimane il piano superiore. Due immensi bracieri ardevano da mezzogiorno alle 7 di sera (il fuoco del resto à durato due giorni); uno dentro nel mezzo della Chiesa (con banche, confessionali e la roba più pesante); l’altro nel pozzo di fronte la canonica (con parati, croci, statue, persiane e perfino con le Sacre Particole!!). Gli episodi sono innumerevoli, ne racconterò solo qualche d’uno.
La statua di S. Rita, tanto in venerazione in quella parrocchia, venne portata fuori dalla Chiesa in forma di processione e gettata tra le fiamme tra le grida di gioco infernale. […] Mentre gli oggetti sacri ardevano le donnacce di quel borgo cantavano l’inno dei lavoratori. […] Il sagrestano della Pace, un povero gobbetto, mentre ritornava da avvisare la forza pubblica, riconosciuto venne malmenato non lievemente.
La S. Pisside, l’ostensorio e vari oggetti di culto vennero certamente trafugati, come lo dimostra la lunetta dell’ostensorio ritrovata in un confessionale della cattedrale. Sono state pure trafugate parecchie cambiali che il Parroco aveva firmato pe’… suoi incendiari. Pure al parroco vennero rubate £ 1900 in denaro e molte suppellettili di sua proprietà. La campana della parrocchia ogni tanto dava rintocchi dalle 12 alle 19: erano forse ragazzi che si divertivano.
Allo spettacolo desolante assistevano, piangenti del pianto degli ebrei sulle mura di Gerusalemme, moltissime donne, di quelle che giornalmente bagnano di saliva le croci dell’anno santo, e poi davanti all’autorità nulla hanno veduto né udito!!… Così si opera a Senigallia: tutto si sa e si conoscono i malfattori, ma… non t’impicciare e non denunciare11.

Chiusa l’insurrezione “ottocentesca” della Settimana rossa, la Prima guerra mondiale apre una nuova epoca che introduce al ventennio del regime, quando l’anticlericalismo del primo fascismo sansepolcrista diventa solo uno scomodo ricordo da rimuovere, mentre si va instaurando un inedito rapporto di collaborazione tra il trono e l’altare. Nel secondo dopoguerra non rimarranno in molti a contrastare le ingerenze ecclesiastiche nella vita sociale, civile e politica italiana, anche se le battaglie per una società laica proseguiranno fino ai giorni nostri.

 

Bibliografia

  • Raffaele Molinelli, Il movimento cattolico nelle Marche, Firenze, La Nuova Italia, 1959.
  • Enrico Decleva, Anticlericalismo e lotta politica nell’Italia giolittiana, in “Nuova rivista storica”, 1968, n. 3-4, pp. 291-354 e 1969, n. 5-6, pp. 541-617.
  • Giovanni Corradini, Liberali e cattolici nelle Marche: 1900-1915, Urbino, Argalia, 1970.
  • Serafino Giulietti, Stefano Giulietti, Lotte sociali e gruppi politici a Fossombrone e dintorni: 1900-1915, [S.l., s.n.], 1981.
  • Giovanni Spadolini, Per una storia dell’anticlericalismo, in Id., I repubblicani dopo l’Unità, Firenze, Le Monnier, 1984, pp. 153-179.
  • Lorenzo Bedeschi, Il mondo cattolico marchigiano nelle relazioni dei visitatori apostolici, in “Fonti e documenti”, 1998, n. 25-27, pp. 352-374.
  • Maurizio Antonioli (a cura di), in collaborazione con Jorge Torre Santos e Andrea Dilemmi, Contro la Chiesa. I moti pro Ferrer del 1909 in Italia, Pisa, BFS, 2009.
  • Luigi Balsamini, Federico Sora, L’anticlericalismo italiano dai moti pro Ferrer alla Settimana rossa (1909-1914). Il caso della provincia di Pesaro e Urbino, in “Nuovi studi fanesi”, 2015-2016, n. 28, pp. 183-241.
  • Antonio Senta (a cura di), La rivoluzione scende in strada. La Settimana Rossa nella storia d’Italia 1914-201. Atti del convegno di studi organizzato dall’Archivio storico della Federazione anarchica italiana Imola, sabato 27 settembre 2014, Milano, Zero in condotta, 2016.

Note

1 Gli anticlericali di ogni partito…, manifestino, Fossombrone, Tip. Monacelli, 1911, 39×29 cm., in Archivio Biblioteca Enrico Travaglini, Fano, Fondo manifesti.

2 Sunto della visita apostolica eseguita durante l’estate 1909 nella diocesi di Fossombrone dall’abate Arcangelo Lolli, tratto dalla Relazione della Sacra Congregazione Concistorale, 5 maggio 1910, in Archivi storici e di personalità – Urbino, Università degli studi di Urbino Carlo Bo, Fondo Lorenzo Bedeschi, b. 1, fasc. 66.

3 Cfr. Resoconti delle visite apostoliche nelle diocesi di Camerino e Treia (1905), Fano (1906), Jesi (1906), Fabriano e Matelica (1908), Urbino (1910), ivi, b. 1 e 2. Si veda anche Lorenzo Bedeschi, Il mondo cattolico marchigiano nelle relazioni dei visitatori apostolici, in “Fonti e documenti”, 1998, n. 25-27, pp. 352-374.

4 Emo Sparisci, Cristiani laici a Fabriano, 1887-1931, Fabriano, L’Azione, 1992, p. 33.

5 Ivi, p. 68.

6 Cfr.: interrogazioni degli on. Meda e Bonopera, in Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XXIII, tornata di sabato 24 giugno 1911, pp. 16172-16173; “La Domenica del Corriere”, 25 giugno-2 luglio 1911, in copertina disegno di Achille Beltrame: «Processione religiosa assalita dagli anticlericali di Fabriano e difesa e protetta da bersaglieri e carabinieri»; immagine riportata in apertura di questo articolo.

7 “L’Azione”, Fabriano, 18 giugno 1911.

8 Cfr. Aroldo Cascia, Pietro R. Fanesi, Storie di Jesi sovversiva. Dalla settimana rossa alla repressione fascista, Ancona, Il lavoro editoriale, 1995, pp. 32-36.

9 Sugli episodi fanesi citati si veda Luigi Balsamini, Federico Sora, L’anticlericalismo italiano dai moti pro Ferrer alla Settimana rossa (1909-1914). Il caso della provincia di Pesaro e Urbino, in “Nuovi studi fanesi”, 2015-2016, n. 28, pp. 183-241.

10 Archivio del convento di S. Martino, Senigallia, Memorie del convento di S. Martino in Senigallia dall’anno 1896 all’anno 1935. Cronaca della rivoluzione dei 7-8-9-10-11-12 Giugno in Senigallia, in Gilberto Piccinini, Marco Severini (a cura di), La Settimana rossa nelle Marche, [Ancona], Istituto per la storia del movimento democratico e repubblicano nelle Marche, 1996, pp. 172-176.

11 Ibidem.