Alle origini della storia dello sport in Italia. Intervista a Felice Fabrizio

Felice Fabrizio è uno dei più importanti storici italiani dello sport e presidente onorario della Società italiana di storia dello sport. Il suo saggio Sport e fascismo, uscito nel 1976, può essere considerato il primo contributo scientifico agli studi storici sullo sport in Italia e resta ancora un punto di riferimento imprescindibile per tutti coloro che intendono affrontare lo studio dello sport nel ventennio fascista. I suoi lavori più recenti si sono invece concentrati sullo sport in epoca liberale, a Milano e durante gli anni della seconda guerra mondiale.

Mentre in altri paesi la storiografia di carattere sportivo si stava consolidando, fino all’uscita del saggio di Fabrizio il tema dello sport in Italia era stato delegato prevalentemente a ricostruzioni di taglio giornalistico. Qualche segnale in controtendenza era venuto da opere come la Storia del calcio in Italia di Antonio Ghirelli (1954) e dall’enciclopedia su Gli sport di Stefano Jacomuzzi (1965) che avevano considerato lo sport anche in relazione ai contesti politici, economici e sociali, andando oltre la mera raccolta di record e di gesta dei campioni. Solo negli anni Ottanta si assiste però ad un risveglio di interesse per gli studi storici sullo sport, alimentato dalle traduzioni di alcuni importanti saggi (di Hobsbawm, Hobson, Hoberman, Elias, Dunning, Mandell, Huizinga, Caillois) destinati a diventare punti di riferimento epistemologici in questo campo. Mentre inizia la pubblicazione di “Lancillotto e Nausica”, rivista di “critica e storia dello sport”, autorevoli riviste di storia contemporanea (“Belfagor”, “Quaderni storici”, “Società e storia”, “Nord e Sud”, “Ricerche storiche”) ospitano scritti di Edoardo Grendi, Antonio Papa, Guido Panico, Loreto Di Nucci, Stefano Pivato, Pierre Lanfranchi che esplorano per la prima volta diversi ambiti della storia dello sport. Tra il 1989 e il 1990 su “Italia contemporanea” si apre un vivace dibattito sui motivi del “ritardo italiano” e sullo statuto metodologico della disciplina, a partire da un intervento di Pivato che denuncia la pigrizia intellettuale dello storico, poco incline a valorizzare lo sport e i suoi risvolti culturali e sociali.
 
Sulle origini della storia dello sport in Italia, i suoi sviluppi e le prospettive di ricerca abbiamo rivolto a Fabrizio alcune domande in questa intervista che apre il Dossier di “Clionet” sullo sport. L’intervista è a cura di Alberto Molinari e Nicola Sbetti.

 

Con il suo studio sullo sport in epoca fascista, pubblicato nel 1976, lei è stato un protagonista di quella che possiamo definire la “fase pioneristica” degli studi storici sullo sport. Quali sono state le principali difficoltà che ha dovuto affrontare in quel periodo?

All’alba degli anni Settanta un ingenuo studente dell’Università Cattolica di Milano, pessimo calciatore, improbabile ciclista, mediocre lunghista, ma curioso di sport in tutte le sue sfumature, viene folgorato sulla via di Francoforte-Parigi dalla scoperta dei testi di Vinnai, Prokop, Laguillaumie, Brohm che, proponendo una lettura del fenomeno in termini politici e sociologici, lo estraevano dalla nicchia della neutralità e dell’innocenza.

Il passo successivo è la presentazione al compianto docente di storia contemporanea Gianfranco Bianchi della proposta di una tesi che cercasse di dare risposta a due interrogativi che ronzavano nella mente del goliardo (davvero nel Ventennio l’Italia era un paese di sportivi? E se sì, perché?). Lo sventurato acconsentì, ma faticò non poco a far approvare l’argomento dalle autorità accademiche.

Dinnanzi all’incauto viaggiatore si spalancavano una mappa vuota su cui campeggiava la scritta “Hic sunt leones” ed un territorio pressoché inesplorato, interrotto da oasi stentate create da giornalisti dalla penna agile, da collezionisti di aneddoti, di agiografi, di specialisti autentici e presunti delle singole discipline.

L’Arcadia culturale e la Beozia sportiva viaggiavano su due percorsi paralleli, scrutandosi con reciproca diffidenza. Furono mesi di lavoro durissimo. Ogni giorno proponeva pareti inviolate da scalare, ogni giorno mi insegnava l’importanza delle fonti primarie, confermando la veridicità dell’aforisma “in Italia nulla è più inedito della carta stampata”.

Un altro segno dei tempi. La tesi di laurea ed un secondo ed ancor più ambizioso saggio sulle complesse vicende dell’associazionismo sportivo nazionale furono sottoposti all’attenzione di grandi e di piccole case editrici, collezionando una sequenza di silenzi e di rifiuti da Guinness dei primati. Solo il coraggio incosciente di Mario Guaraldi permise nel 1976 e nel 1977 la pubblicazione dei due libri.

Com’è cambiato il panorama della storia dello sport negli ultimi trent’anni?

Nell’impossibilità di dare conto in poco spazio di una coerente visione complessiva di un trentennio affollato di nomi, di date, di luoghi, di discese ardite e di risalite, mi limito a tracciare alcune linee di tendenza lungo le quali può divenire più agevole disporre gli eventi: 1) L’opera di sdoganamento della dignità scientifica della storiografia sportiva avviata da una pattuglia di esponenti del mondo accademico capitanata da Stefano Pivato e formata da cultori della disciplina di Clio e degli studi culturali e da sociologi; 2) La centralità rivestita dalla figura di Sergio Giuntini, i cui inesauribili interessi e la cui ricca e pregevole produzione saggistica hanno preso corpo ai confini e al di fuori del mondo universitario che antepongono ai meriti logiche clientelari ed inconfessabili interessi; 3) La discesa in campo di giornalisti, cito per tutti Elio Trifari, Marco Impiglia, Valerio Piccioni, capaci di coniugare la rigorosità dell’impianto metodologico con la scorrevolezza dell’esposizione; 4) L’apertura di spazi e di occasioni di incontro e di dibattito costituti da riviste, convegni, congressi e associazioni, a cominciare dalla Società Italiana di Storia dello Sport.

Come è stata affrontata la questione delle fonti in questo ambito di ricerca?

Ferma restando la difficoltà del reperimento e della consultazione dei materiali, le principali novità mi sembra vadano individuate nella propensione di una nuova leva di ricercatori a rompere gli angusti orizzonti nazionali per accedere a testi ed archivi nelle loro lingue originali e per maturare significative esperienze in diversi paesi europei.

Quali sono i campi che meritano di essere indagati e le metodologie da sviluppare per aprire nuove prospettive e arricchire gli studi storici sullo sport?

Segnalo tre campi a mio avviso meritevoli di indagini più approfondite: lo sport femminile, l’economia dello sport, su cui si è di recente soffermato Nicola Sbetti, la ricostruzione delle vicende di sport che rivestono un’importanza affatto particolare nella storia nazionale, primi tra tutti la scherma, il tiro a segno e il pugilato, ricostruzione da affrontare adottando il modello di analisi delineato dalle storie sociali della pallacanestro, della pallavolo e dell’atletica leggera elaborate da Saverio Battente, da Daniele Serapiglia e da Sergio Giuntini. L’ampiezza e la complessità di questi filoni di ricerca postulano la necessità della costituzione di gruppi di ricercatori che operino avendo in vista quale prodotto finale un’opera collettiva che conferisca un taglio organico ai vari contributi.

Qual è o quale dovrebbe essere il ruolo pubblico della storia dello sport?

La soppressione dalle prove scritte degli esami di maturità del tema di storia, scelto dall’uno per cento dei candidati, ha posto sotto i riflettori la crisi di una disciplina ridotta ad una merce d’antiquariato che tra le polverose pareti delle istituzioni scolastiche si carica di indifferenza e di noia, nella sfera della comunicazione pubblica rischia di finire preda di improvvisatori e di manipolatori.

Per esperienza diretta so quanto possano risultare proficue e motivanti la lettura della storia attraverso la lente dello sport e la sperimentazione di itinerari di ricerca e di approfondimento sorretti da rigorosi procedimenti metodologici. La trasmissione alle giovani generazioni della memoria, delle conoscenze, delle competenze, soprattutto se calata nella dimensione della Public History, è il principale antidoto alle logiche autoreferenziali degli appuntamenti per pochi intimi che si ostinano a parlare tra loro.

Questa funzione assume un’importanza tanto più rilevante quanto più si propone di agitare le acque stagnanti, di corrodere le opinioni preconcette, di insinuare dubbi, di aprire accesi dibattiti, di proporre alternative ai modelli dominanti. Sottoscrivo in pieno quanto afferma Gabriel Kuhn a proposito dello sport inteso come “campo di battaglia politico particolarmente rilevante considerata l’importanza che ha nella vita di molte persone”, dell’impossibilità di “separare lo sport dai processi di liberazione”, di un interesse per lo sport che non può prescindere dall’impegno “rivoluzionario”.