«Poteva essere un bel tour». Il ritiro degli italiani dalla “Grande Boucle” del 1950 e i suoi risvolti diplomatici

1. Introduzione

«Poteva essere un bel Tour». Con queste amare parole il 25 luglio, dopo aver vinto la Pau-Saint Gaudens, undicesima tappa del Tour de France del 1950, Gino Bartali annunciò l’intenzione di ritirarsi dalla corsa a seguito delle violenze fisiche e verbali subite da lui e dai suoi compagni in particolare durante la salita dell’Aspin. La letteratura del ciclismo ha spesso ricordato quest’episodio anche se prevalentemente in maniera romanzata o mitologica. Tuttavia, come ha acutamente osservato lo storico Pierre Milza: «Gli incidenti che hanno caratterizzato nel 1950 il Tour de France […] ci dicono molto di più dello stato delle relazioni psicologiche tra i due Paesi che molti articoli di giornali o i rapporti ufficiali»1, tanto più che il Tour de France è sempre stato qualcosa di più di un semplice evento sportivo2.

L’obiettivo di questo articolo è di ricostruire, utilizzando come fonti oltre alla letteratura anche i quotidiani italiani e francesi del tempo e gli archivi diplomatici del ministero degli Esteri (Mae), le cause e le motivazioni che portarono la squadra italiana a ritirarsi dal Tour de France del 1950, non limitando lo sguardo ai soli “fatti dell’Aspin” ma allargandolo anche alla rivalità sportiva (ciclistica in particolare) e alle tensioni sociali che si erano create fra i due Paesi negli anni precedenti. Inoltre, si cercherà di evidenziare il ruolo svolto dalle diplomazie nell’evitare che una crisi, nata in ambito sportivo e accresciuta dall’importanza mediatica dell’evento, potesse trasformarsi in qualche cosa di più serio andando a minare il buon andamento delle relazioni tra Italia e Francia che, dopo essere state in guerra, stavano ricostruendo un percorso di reciproca fiducia.

 

2. Le relazioni sportive fra Italia e Francia alla vigilia del Tour del 1950

Dopo la Seconda guerra mondiale la ripresa delle relazioni sportive italo-francesi non fu immediata. Le istituzioni sportive transalpine, molto attive con le consorelle dei Paesi alleati e neutrali, imposero invece un silenzioso boicottaggio all’Italia che durò per tutto il 19453. Questa quarantena sportiva rifletteva la relativamente tardiva ripresa delle relazioni diplomatiche rispetto a Urss, Stati Uniti e Gran Bretagna, nonché la volontà di vendicarsi del “coup de poignard” inferto dalle truppe di Mussolini nel 1940 alla vigilia della capitolazione, che si era manifestata nel tentativo di occupazione della Valle d’Aosta dell’aprile del 1945 in parallelo alla ritirata nazista. Pur cavalcando l’ostilità anti-italiana dell’opinione pubblica francese, il governo francese aveva comunque ben presente la necessità che l’Italia diventasse un «vicino sui cui si po[tesse] contare come amico»4. Allo stesso tempo, la diplomazia italiana, che riteneva di aver già pagato il proprio debito con la Francia accettando il decadimento della convenzione del 1896 sugli italiani in Tunisia, visse come un’onta la pur minima perdita di alcuni territori sul confine occidentale, fra cui i comuni di Briga e Tenda, sebbene fosse consapevole di aver bisogno della Francia per tornare ad essere pienamente accolta nel consesso internazionale.

Il trattato di pace segnò un punto di ripartenza che portò prima alla firma di un accordo commerciale e poi di un’unione doganale. Nel 1949 il sostegno della Francia si rivelò decisivo per l’inclusione dell’Italia nella Nato. All’inizio del 1950 le tensioni diplomatiche fra i due Paesi erano ormai risolte, anche se rimaneva qualche ambiguità di fondo, come la convinzione da parte francese, che l’Italia dovesse rimanere in un ruolo subordinato di «brillante secondo»5.

Questo atteggiamento si riscontrava con una certa frequenza anche nelle relazioni sportive che erano riprese gradualmente nel corso del 1946 e che nel 1947 si potevano dire completamente ristabilite6. Lo sport non fu però solo un luogo d’incontro ma anche un’arena divisiva in cui poteva emergere come «i rapporti tra francesi e italiani non fossero del tutto spogli di incomprensioni e di rancori»7, specie in Francia dove risiedeva una forte comunità immigrata di italiani, che venivano dispregiativamente chiamati “macaroni” e “ritals” dalla popolazione autoctona8.

Nella stampa sportiva si evidenziava spesso come nel pubblico francese riaffiorassero «residui polemici di un disgraziato passato politico»9. Per esempio nel settembre 1947, in occasione degli Europei di nuoto a Montecarlo, disputati di fronte a un pubblico che aveva subito maggiormente rispetto a quello parigino l’aggressione italiana del 1940, vi fu una particolare ostilità verso gli azzurri. Come scrisse “La Gazzetta dello Sport”, dopo la vittoria italiana nella finale di pallanuoto, «la folla (non tutta ma purtroppo gran parte) si è incomprensibilmente accanita contro di noi, arrivando a fischiare e motteggiare anche l’Inno di Mameli, quando gli azzurri erano sul podio per la premiazione»10.

 

3. La rivalità italo-francese nel ciclismo e le tensioni che precedettero il Tour del 1950

Sul piano strettamente sportivo fra Italia e Francia esisteva una forte rivalità che era più sentita nelle discipline in cui si riscontrava un maggiore equilibrio. Pur essendo estremamente popolari in entrambi i Paesi il rugby e il calcio non potevano quindi definire adeguatamente questa rivalità a causa dell’eccessiva disparità: troppo superiori gli azzurri con la palla rotonda, di un’altra categoria i transalpini con la palla ovale. Al contrario molto frequenti furono gli screzi nella scherma, che tuttavia coinvolsero delle élites ma non certo le masse popolari. Nell’immediato secondo dopoguerra fu quindi soprattutto il ciclismo, con i suoi grandi giri nazionali e le sue classiche, a definire la rivalità sportiva fra Italia e Francia.

Sul piano sportivo, con la piena riammissione dell’Unione Velocipedistica Italiana (Uvi) nella federazione internazionale (Uci), gli scambi crebbero rapidamente. Particolarmente importante sul piano diplomatico fu la Grenoble-Torino-Grenoble del 1947, che in un’Europa dai confini ancora militarizzati, si corse attraverso due Paesi che fino a pochi anni prima erano stati nemici. Un anno più tardi nacque il Challenge Desgrange-Colombo, antesignano dell’attuale World Tour. Tuttavia da parte italiana permaneva un certo complesso di inferiorità. Gli organizzatori francesi, infatti, avevano tutto l’interesse ad invitare i migliori ciclisti italiani, i quali, attirati dai ricchi premi, attraversavano più che volentieri le Alpi. I ciclisti francesi, invece, intraprendevano il tragitto opposto in maniera meno continuativa e snobbarono il Giro d’Italia. Nel 1947 la partecipazione di una squadra della Costa Azzurra non si concretizzò. Nel 1948 la Peugeot sponsorizzò la squadra francese, che però dopo la quinta tappa decise di ritirarsi, «vista la difficoltà di raggiungere un qualsiasi risultato soddisfacente»11. Nel 1949 la 17° tappa sconfinò in Francia; gli organizzatori ringraziarono la «generosa opera» delle autorità francesi per il supporto logistico12, ma non poterono fare a meno di domandarsi: «Perché i francesi non sono venuti al Giro?»13.

Il Tour de France – peraltro l’unica corsa oltre al Campionato del Mondo in cui i ciclisti erano divisi per squadre nazionali – divenne dunque la principale arena sportiva in cui si manifestò la rivalità franco-italiana. I primi segnali emersero già in occasione del primo Tour postbellico corso nell’estate del 1947. L’Uvi, come forma di protesta per il non essere ancora tornata in pieno possesso dei suoi voti nell’Uci, si presentò con una squadra semi-ufficiale. Pur senza Coppi e Bartali, Tacca e Ronconi vinsero una tappa e alla vigilia dell’ultima tappa Brambilla guidava la classifica, ma proprio quando l’impresa sembrava compiuta, una “santa alleanza” fra le squadre francesi volta ad isolare quella italiana permise a Robic e Fachleitner, autori di una fuga di 130 chilometri, di rimontare il distacco. “La Gazzetta dello Sport” non esitò a criticare gli organizzatori:

Che cosa potevano fare gli italiani che abbiamo portato qui contro una cinquantina almeno di avversari […]. Ieri si è visto cosa può produrre la formula delle squadre regionali. Accordi ufficiali fra direttori di squadra, patteggiamenti finanziari fra corridori, tutto un vergognoso miscuglio di interessi e di scambi antisportivi14.

Dato il precedente alla vigilia del Tour de France del 1948, a cui prese parte una rappresentativa ufficiale, l’Uvi volle cautelarsi pretendendo quantomeno una parità di trattamento col Belgio a cui erano state promesse due squadre. L’edizione del 1948, segnata dal trionfo di Bartali, fu quella della riappacificazione grazie anche a un arrivo di tappa in territorio italiano, a Sanremo; un gesto volto a simboleggiare la ritrovata amicizia fra i due Paesi e la firma dell’unione doganale. Nel 1949 il Tour tornò in Italia, ma la scelta di Aosta si rivelò divisiva. Secondo fonti del Mae:

Qualche dirigente dell’Unione Valdostana di Parigi (Charrère) ha partecipato, fiancheggiato da conoscenze sportive, per ottenere che il Tour passasse in Val d’Aosta. Evidentemente il suo scopo era propagandistico. Il loro organo periodico “Valle d’Aosta” accennò vagamente al fatto dicendo che più tardi lo stesso Charrère avrebbe fatto la storia di quell’intervento15.

Il 19 luglio Coppi giunse trionfalmente a braccia alzate in una festante Aosta precedendo di 5 minuti Bartali, attardato da una foratura. La giornata fu però funestata da quanto avvenne lungo la discesa del San Bernardo, in cui i corridori francesi furono oggetto di insulti, lanci di pietre e qualche spintone, rendendo necessario l’intervento dei motociclisti a supporto della corsa. Non si trattò, come minimizzò “La Gazzetta dello Sport”, di un gesto spontaneo di «qualche imbecille»16. Successive inchieste dimostrarono che l’agguato era stato elaborato in ambienti neofascisti allo scopo di contrastare la simbolica occupazione francese della Valle d’Aosta fatta dal Tour17. La stampa francese fu unanime nel condannare l’attacco al Tour e nel sottolineare come i valdostani non avessero preso parte a tali manifestazioni, imputabili esclusivamente ad elementi sciovinisti italiani fatti arrivare di proposito da altre regioni18.

Il Mae monitorò la situazione giudicando comunque i fatti di «carattere isolato e di scarsa importanza»19. Di fronte al «forte rilievo» dato dalla stampa francese agli «incidenti anti-francesi verificatisi in Val d’Aosta» l’ambasciatore italiano in Francia, Quaroni, segnalò comunque l’opportunità, «anche per evitare spiacevoli ripercussioni ai danni nostri corridori, che la stampa italiana deplorasse tale avvenimento» e chiese al Mae di «volersi possibilmente adoperare in tal senso»20. Quaroni pregò inoltre il «Quai d’Orsay di voler intervenire per calmare [la stampa francese], assicurandolo che da parte nostra avremmo cercato di provocare articoli opportunamente intonati su nostri giornali per deplorare incidenti»21. In effetti, dal giorno successivo, la stampa italiana fu unanime nel dolersi dell’incidente e nel criticare gli aggressori, minimizzandone però la portata e cogliendone raramente la matrice politica. Riattraversato il confine l’accoglienza ai ciclisti italiani in terra francese fu tutt’altro che amichevole:

Ululati e ingiurie di ogni sorta ci accompagnano al nostro passaggio soprattutto nei centri abitati. In qualche punto le vetture italiane sono prese persino bersaglio da sassi e pomodori. Non si tratta di sporadiche manifestazioni di ostilità ma di uno stato d’animo generale. E ciò che è più grave è che anche i nostri corridori sono vittime di questo scatenamento di passioni22.

Rispetto al 1948, quando lo sconfinamento a Sanremo aveva celebrato la rinnovata amicizia franco-italiana, nel 1949 il passaggio ad Aosta non era stato accompagnato da un sufficiente lavoro preventivo e, trattandosi di un territorio politicamente e culturalmente conteso, gli indipendentisti valdostani e i nazionalisti francesi avevano avuto buon gioco a far passare l’idea che tramite il Tour la Valle d’Aosta si potesse ricongiungere almeno simbolicamente alla Francia. Analogamente i nazionalisti e i neofascisti italiani avevano approfittato del passaggio di un emblema della Francia come il Tour per colpirlo come “vendetta” per la perdita di Briga e di Tenda e come rivendicazione della piena italianità della Valle d’Aosta. La vigilanza delle autorità politiche e gli appelli alla calma pubblicati sia in Francia che in Italia contribuirono a non far degenerare la situazione, anche se il ritorno in Francia dei ciclisti italiani fu tutt’altro che facile e lasciò molte incognite per il futuro.

 

4. I “fatti dell’Aspin”

Nel 1950 gli organizzatori del Tour, per rafforzare ulteriormente i rapporti, decisero di sconfinare per il terzo anno consecutivo in Italia, ma allo stesso tempo cercarono di cautelarsi contro la superiorità dei ciclisti italiani. Le vittorie di Bartali e Coppi nel biennio precedente avevano causato frustrazione ad organizzatori, giornalisti, tifosi e costruttori francesi e per cercare di limitarne lo strapotere, Jacques Goddet, il direttore de «l’Équipe», studiò un percorso meno duro, dosando le montagne. In questo modo venivano «favoriti i passisti a danno degli arrampicatori»23. Peraltro, a causa di un infortunio, Coppi dovette rinunciare e venne sostituito da Magni, che in pianura andava, se possibile, ancor più forte dei due celebrati campioni.

Il Tour del 1950 cominciò con un dominio italiano pressoché assoluto (due vittorie nelle prime tre tappe e cinque nelle prime nove) che provocò una certa tensione. Già alla quinta tappa, dopo il successo di Giovanni Corrieri, Gino Bartali scrisse: «Mi accorgo sempre più che tutti sono contro di noi, particolarmente contro me»24. Fu un primo inascoltato grido d’allarme. Frustrati dall’assenza di vittorie, sui media francesi emersero decise critiche alla strategia di corsa italiana. Cominciò così quella che Gianni Brera definirà una «banale e grottesca campagna condotta per cercare diversivi piccanti alle continue disfatte francesi contro la “tattica italiana”»25. Si rimproverava agli italiani di essere dei “succhia ruote”, ovvero di non voler tirare il gruppo. Il direttore sportivo della squadra francese Jean Bidot arrivò persino ad auspicare una «crociata» contro gli italiani, ma le critiche arrivarono anche dagli organizzatori26. Peraltro la strategia legittimamente adottata da Binda non si discostava più di tanto da quanto era stato fatto negli anni precedenti. Essendo i ciclisti italiani i favoriti, l’obiettivo era sostanzialmente quello di tenere bloccata la corsa, proteggere il capitano e il suo luogotenente e risparmiare le forze in vista dei Pirenei e delle Alpi. Le vittorie di tappa non furono dunque l’obiettivo principale ma una conseguenza di questo atteggiamento tattico.

La prima vittoria francese, che arrivò solamente alla settima tappa, non fu sufficiente a ridurre il rancore verso gli italiani, anche perché le due tappe successive, quelle di Niort e Bordeaux del 21 e 22 luglio, furono conquistate da Magni e Pasotti, fra i fischi e gli ululati del pubblico. Si era ormai creata un’atmosfera ostile nei confronti di atleti, dirigenti, accompagnatori e giornalisti italiani, che veniva quotidianamente infiammata e legittimata da giornalisti e radiocronisti locali, la cui intensità crebbe arrivando anche a sputi e lancio d’oggetti. Già il 19 luglio, ad esempio, in occasione della cronometro, a Bartali era stato lanciato un bastone fra le ruote che però non lo aveva fatto cadere27. Al fine di preservare l’arrivo di tappa a Sanremo, Binda, il quale aveva anche chiesto ai giornalisti italiani di minimizzare questi episodi, decise di rinunciare a una rigida applicazione della sua tattica per cercare di evitare che si scatenasse «in tutto il Paese l’antipatia dei francesi esasperati dalle nostre vittorie»28. Alla vigilia dei Pirenei Bartali scrisse che era «meglio non vincere»:

Una nostra vittoria avrebbe certamente irritato tutti peggiorando per l’avvenire le accoglienze diversamente interpretabili di Bordeaux. Certo questo è un momento difficile. Dopo gli incidenti di Aosta, causati da gente (nostra!) che io mi rifiuto di definire sportiva, qualche idiota non manca sui margini delle strade francesi. Noi pensiamo di poterlo calmare presto vincendo anche dove succhiare le ruote è impossibile29.

Nemmeno la vittoria del francese Dussault servì a “calmare le acque”; ancora una vota i ciclisti italiani furono fischiati e i giornalisti minacciati. Sul traguardo di Pau, Bartali sibillino dichiarò: «Avrei tante cose da dire ma non posso dirle»30. Il 24 luglio, giorno di riposo, il campione toscano Bartali scrisse un pezzo «così esplosivo» che alla redazione de “La Gazzetta dello Sport” «parve arrischiato pubblicare»31. Nel frattempo Gianni Brera, segnalando lo sfogo di Bartali, chiese la convocazione di una conferenza per stemperare gli animi che apparivano ormai fuori controllo, ma gli organizzatori preferirono rivolgersi separatamente ai giornalisti francesi32. In effetti l’indomani si lessero inviti alla calma rilanciati anche dalla radio; qualche articolo persino elogiava le prove degli italiani, anche se molti giornali mantennero un atteggiamento piuttosto ambiguo. Evidentemente però era troppo tardi. Si arrivò così all’attesissima prima tappa pirenaica la Pau – Saint-Gaudens in cui, sulla salita del Col d’Aspin, avvenne il “fattaccio”. Secondo l’inchiesta amministrativa svolta per ordine del Prefetto degli Alti Pirenei:

Nel momento in cui, procedendo dietro Piot, Robic e Bartali lottavano per il secondo posto – e l’Italiano, ad un centinaio di metri dalla vetta stava per avere la meglio – un fotografo si è intromesso imprudentemente in mezzo al corridoio umano già abbastanza stretto a causa del numero degli spettatori. Una vettura del seguito, per evitarlo ha dovuto sbandare verso destra tagliando in tal modo la strada ai due corridori. Robic che camminava a destra ha sbandato a sua volta verso la sinistra e Bartali in un gesto istintivo di difesa ha portato una mano in avanti, ma non ha potuto evitare la collisione ed è caduto al suolo insieme al suo antagonista. A questo punto numerosi spettatori si sono precipitati per aiutarli a rialzarli e c’è chi afferma di aver visto un uomo con una camicia bianca, che poi si è nascosto dietro una donna, colpire Bartali ripetutamente. Il corridore italiano rivoltandosi si è trovato di fronte uno degli spettatori che aveva raccolto la sua bicicletta e gliela porgeva: credendo di avere a che fare con un assalitore il campione italiano ha accennato un gesto di difesa, ma sembra comunque non corrispondere al vero l’asserzione che egli abbia dovuto lottare per riprendere possesso della sua macchina33.

Pur optando per una ricostruzione che tendeva a minimizzare qualsiasi contatto fisico al fine, forse anche politico, di non ingigantire l’episodio, la ricostruzione ufficiale non si discostava particolarmente da quelle fatte dai giornalisti che assistettero almeno parzialmente alla scena. Va comunque sottolineato che Alfredo Binda, di fronte a questa versione, dichiarò: «È falso tutto. Bartali sbandò in seguito ad un gran pugno che un energumeno gli tirò, toccò contro la ruota di Robic e insieme caddero. Il resto è noto»34.

In effetti ci furono «molte versioni dell’incidente», ma «la maggioranza dei commentatori è d’accordo nell’affermare che Bartali è stato colpito»35. Secondo “Le Patriote”: «Un tumulto si produsse nel plotone a seguito dello scarto di un fotografo agitato. […] Fu allora che un energumeno […] tirò un forte pugno alla testa di Bartali. Il campionissimo barcollò e cadde trascinando con lui Robic»36. “La Gazzetta dello Sport”, pur fornendo una narrazione analoga, interpretò in maniera ben diversa dall’inchiesta la concitata fase dopo la caduta di Bartali:

Siamo a pochi metri dal nostro campione a bordo della vettura dell’Équipe […] Bartali, Robic, Bobet e Ockers […] passano attraverso uno strettissimo corridoio di folla che urla e strepita. Un fotografo in motocicletta rimasto troppo vicino ai corridori provoca la caduta di Robic e di Bartali. D’un tratto vediamo la folla accanirsi selvaggiamente contro il nostro campione. Bartali viene colpito alla testa e furente lo vediamo difendersi con i pugni contro una muta di energumeni che cercano anche di strappargli la bicicletta. Una scena selvaggia. Finalmente interviene i direttore di corsa Goddet e se dio vuole Bartali può risalire in macchina37.

Binda volle raccontare la sua versione sulle pagine de “Il Giornale d’Italia”:

Bartali arrivò al punto di aspettare i due rivali per procedere con loro senza far sfoggio di superiorità. […] A qualche centinaio di metri dalla vetta […] si parò in mezzo alla strada gremita all’inverosimile un tizio di statura eccezionale in canottiera bianca. Egli diede un urtone a Gino che fece ruzzolare per terra, poi (come se quel gesto non fosse bastato) gli si avventò contro percuotendolo, intanto un altro energumeno si era impadronito della bicicletta non voleva consegnarla al proprietario. Bartali intontito e incredulo di tanta bestialità gli corse dietro ma quello con la canottiera lo tratteneva. Intanto Goddet che viaggiava in motocicletta scese e cominciò a picchiare col bastone il pazzo che aveva urtato Gino. Il corridore, trascorso il primo attimo di intontimento, cominciò a pestare lui stesso l’aggressore. Il Tour divenne un incontro di pugilato38.

Anche Bartali dalle pagine de “La Gazzetta dello Sport” volle dire la sua:

Avrei potuto staccare tutti […]. Se andavo via solo sarei stato più esposto ai gesti antisportivi di certi energumeni. […]. Ad un certo momento un tale grande e grosso che mi è saltato addosso facendomi sbandare tanto che sono finito contro Robic e siamo caduti tutti e due. Quel tipo mi ha buttato da una parte la bicicletta. Ho menato pugni anch’io e scommetto che deve avere un bell’occhio viola […] non so come ho fatto a ritrovarmi in sella39.

Nel racconto del corridore toscano comparve poi un nuovo elemento:

In una curva avevo una macchina davanti a me e da essa mi hanno dato cenno di passare. Mentre la sorpassavo all’esterno essa ha allargato buttandomi proprio sul ciglio del burrone. In quel momento ho pensato che era finita. Mi sono ripreso veramente per miracolo. I guai non sono finiti lì perché di tanto in tanto mi sentivo arrivare pugni sulla schiena e in testa. Ho un grosso bernoccolo sul capo. Debbo dire che i corridori belgi e francesi che erano con me sia Ockers che Bobet hanno cercato di farmi da scudo40.

Bartali ebbe comunque la forza e la cattiveria agonistica di vincere la tappa, mentre Magni, sfruttando le sue abilità di discesista e la bagarre dell’Aspin, riuscì a raggiungere il gruppetto dei primi, ottenendo il primo posto in classifica generale. Al traguardo Bartali dichiarò:

Ne ho abbastanza di questo Giro di Francia al quale sono venuto per puro spirito sportivo. Poteva essere un bel Tour: ora hanno sciupato tutto. Anche i miei compagni di squadra sono stati picchiati. Io non voglio più il sacrificio né loro né mio41.

In effetti, come evidenziava anche l’inchiesta ufficiale, l’aggressione a Bartali era stata solo la punta dell’iceberg: Lambertini lamentava di aver ricevuto della sabbia negli occhi, Bonini una randellata sulla schiena, Brignole e Pedroni degli sputi, mentre Salembini concluse la prova con la maglia strappata42. Magni, in uno dei giorni sportivamente più importanti della sua carriera, dichiarò:

Avevo tanto sognato questa maglia gialla […]. Sono nauseato […]. Gli insulti selvaggi sono stati ben poca cosa in confronto dei gesti e dei colpi che ho sopportato. […] Mi limito a dire soltanto che ad un certo momento una persona mi ha inseguito con un coltello in mano. Lo aveva aperto. Magari non mi voleva fare nulla ma intanto mi inseguiva43.

La stampa italiana criticò aspramente l’accaduto mentre in quella francese si lessero prevalentemente commenti tendenti a minimizzare. Su “La Dépeche”, per esempio, si deplorava il gesto, ma allo stesso tempo si parlava di «spettatore innervosito dalle lunghe ore di attesa sotto il sole», si giudicavano eccessive le ricostruzioni che parlavano di «Magni minacciato col coltello e di bici rubata a Bartali» e infine si concludeva che «i francesi avevano mostrato molto più fair play ad Aosta di fronte a un incidente altrettante grave»44. Non mancarono però giornali che, come “La République”, scrissero: «Se non si vuole che gli italiani vincano il Tour de France non dobbiamo fare altro che una prova nazionale che sarà allora disputata su delle strade deserte»45. Il più drastico fu però “Le Patriote” che sentenziò: «Il Tour è morto all’età di 37 anni per una crisi di sciovinismo»46.

 

5. Le conseguenze

I “fatti dell’Aspen” ebbero gravi conseguenze dal punto di vista delle relazioni sportive italo-francesi, in quanto l’indomani le due squadre italiane non presero il via. Fin dalla sera Gino Bartali aveva dichiarato la sua intenzione di abbandonare la corsa. Nelle sue motivazioni si mescolavano sia sentimenti di rabbia per il trattamento ricevuto dagli spettatori e dagli organizzatori, sia una certa preoccupazione per la situazione che era maturata:

È da Parigi che siamo stati oggetto di gesti antisportivi tra cui quello del Col d’Aspin. Sono stato seriamente maltrattato ed è per evitare degli incidenti più gravi all’avvicinarsi della frontiera italiana che, con la morte nell’anima, mi vedo costretto a prendere questa decisione47.

Secondo il campione toscano, quella di lasciare la corsa era la sola «decisione compatibile con l’onore del ciclismo italiano e la nostra sicurezza personale»48. Binda non era dello stesso avviso, poiché temeva che ritirandosi dal Tour si sarebbero interrotti «i rapporti sportivi con la Francia per almeno quattro anni», pregiudicando così «il lavoro dei corridori che sono dei professionisti della bicicletta»49. La sera in albergo fu ricca di tensione, commozione e tristezza. Malgrado i tentativi di Goddet la decisione fu irrevocabile e Binda si assunse pienamente la responsabilità del ritiro. Del resto era fermamente convinto che:

Magni può anche vincere il Tour ma non senza Bartali. Rimanendo solo Magni avrebbe tutti contro. Con Bartali avremmo due pedine per dare scacco matto a chiunque […]. Senza Bartali dunque non si resta. L’offeso è lui e se non ritiene di poter continuare, noi dobbiamo essergli solidali. Il Tour pagherà questo affronto al nostro ciclismo50.

Assieme ai ciclisti si ritirarono dal Tour anche i giornalisti italiani al seguito. Gianni Brera scrisse:

Se non ci ribelliamo una volta sarà ogni anno come nel 1949 e nel 1950. I francesi tratteranno tutti gli italiani come trattano i poveri cristi che vengono da loro a sgobbare per un tozzo di pane. Ma Bartali è un atleta che onora il Giro di Francia, i nostri sono corridori che, standosene a casa toglierebbero ogni carattere di vera internazionalità alla corsa51.

La notizia dell’addio degli italiani al Tour ebbe una rilevanza mediatica tale per cui i giornali francesi continuarono a dedicargli «uno spazio non minore di quello che occupa[va]no i dispacci e i commenti della guerra in Corea», scoppiata da poco più di un mese52. Ad eccezione dei giornali della destra nazionalista, che colsero l’occasione per irridere i ciclisti italiani, la stampa francese fu pressoché unanime nel criticare lo sciovinismo che aveva scatenato le intemperanze di «alcuni energumeni», specie quella comunista, che vi vide un’opportunità per denunciare la «politica xenofoba del governo non estranea ai deplorevoli incidenti dei Pirenei»53. Più criticata fu invece la scelta di abbandonare la corsa. Non mancarono riferimenti alla pugnalata alla schiena del 1940, anche se generalmente i giornali optarono prevalentemente per un parallelismo con i fatti della Valle d’Aosta.

Fra le conseguenze del ritiro degli italiani ci fu anche l’annullamento dell’arrivo di tappa a San Remo, che fu sostituito da Mentone. Nonostante nei commenti di quei giorni si leggesse spesso che il Tour non sarebbe dovuto «più uscire dalle frontiere della Francia»54, dopo un anno di “saggia quarantena” la Grande Boucle sconfinò nuovamente in Italia nell’edizione del 1952. L’UVI attese il ritorno della comitiva prima di dare il proprio supporto ufficiale alla scelta di Binda con un duro comunicato:

La decisione di ritirare le squadre italiane dal Giro di Francia, presa in accordo fra corridori e dirigenti, trova pienamente solidale la Presidenza dell’UVI che è stata tenuta telefonicamente al corrente dal Commissario Tecnico Binda dello svolgimento degli avvenimenti. La Presidenza dell’UVI mentre deplora l’inqualificabile contegno dei facinorosi che hanno aggredito e percosso i nostri atleti, ha il dovere di precisare che la responsabilità maggiore dell’accaduto risale a quella parte della stampa francese, ed in modo particolare al sig. Jacques Goddet, direttore di uno dei giornali organizzatori, che attraverso una campagna diffamatoria nei riguardi dei corridori italiani ha determinato l’atmosfera adatta per il verificarsi dei gravi incidenti55.

Benché fosse stato il principale responsabile del ritiro, Gino Bartali fu attento a non infiammare ulteriormente una situazione assai tesa, rilasciando dichiarazioni distensive sottolineando come i francesi fossero «dei buoni sportivi e gli energumeni […] una minoranza»56. Fra i corridori non mancarono comunque i malumori perché, passata la paura per le botte ricevute, restava il magone per i ricchi premi del Tour lasciati alla concorrenza. Anche per questo Bartali volle omaggiare i suoi compagni di squadra che lo avevano seguito e supportato nella scelta di ritirarsi mettendo a disposizione dei suoi gregari la somma di tre milioni di lire57. A fronte di un sacrificio economico fatto in difesa del buon nome della nazione – oltre che della salvaguardia dell’incolumità personale – non mancarono le donazioni in favore dei ciclisti italiani. Il ritorno in patria della squadra italiana fu salutato da una piccola ondata di nazionalismo sportivo. Centinaia di telegrammi che plaudevano e solidarizzavano con i ciclisti italiani furono inviati all’UVI o ai giornali che si fecero promotori di diverse iniziative. «Il Tempo», per esempio, lanciò una sottoscrizione a «carattere simbolico» dalla «quota fissa di lire 100» per offrire «ai sedici italiani partecipanti al “Tour 1950” una medaglia d’oro»58.

 

6. Una crisi diplomatica evitata

I “fatti dell’Aspin” provocarono una crisi sportiva che non poté lasciare indifferenti le istituzioni politiche e gli attori diplomatici, intenzionati a stemperare le tensioni. Il rischio di compromettere il buon andamento delle relazioni franco-italiane era reale. In effetti, se la stampa di entrambi i Paesi concordava nell’osservare che quanto era avvenuto avrebbe potuto rompere le relazioni sportive transalpine, i giornali italiani tendevano a far ricadere la responsabilità di tale rottura alle aggressioni e a chi aveva creato quel clima ostile, mentre la maggioranza di quelli francesi individuava come principale causa la decisione italiana di abbandonare la Grande Boucle. La diplomazia italiana non poté disinteressarsi dell’accaduto. Del resto come osservò pure l’ambasciatore Quaroni:

L’abbandono del Tour de France da parte delle squadre italiane in seguito ai gravi incidenti causati dal fanatismo di gruppi dediti allo sciovinismo sportivo, è stato per 24 ore l’avvenimento al centro dell’attenzione generale provocando vivaci discussioni in tutti gli strati della pubblica opinione59.

Inoltre i numerosi italiani di Francia fecero sentire la loro voce nella vicenda, portando festose accoglienze ai ciclisti tricolori durante il loro viaggio di ritorno o tempestando di telegrammi, che accusavano il patron del Tour di essere il vero responsabile del ritiro dei ciclisti italiani60. È peraltro estremamente significativo che già il 25 luglio, nello stesso giorno della tappa dell’Aspin, il Console d’Italia a Nancy avesse segnalato un articolo uscito il giorno precedente dal profetico titolo: «Si cerca di provocare degli incidenti con gli Italiani?»61, scrivendo all’ambasciata di Parigi:

Non sono tifoso e pertanto se ti invio l’unito ritaglio di un giornale locale a proposito del Giro di Francia e dal titolo «Cherche-t-on a provoquer des incidents avec les italiens?» è perché penso che il punto di vista ivi espresso dall’inviato speciale dell’“Est Républicain” può avere qualche, se pur vaga, incidenza politica. Sai bene anche tu come nei Paesi latini le passioni sportive possono talvolta sconfinare in altri campi62.

Gli incidenti dell’Aspin e il ritiro della squadra italiana vennero discussi anche all’interno dei parlamenti. Il 26 luglio si riunì a Montecitorio il Comitato direttivo del Gruppo parlamentare sportivo presieduto dall’on. Paganelli, il quale votò all’unanimità un ordine del giorno che recitava:

Venuto a conoscenza dei gravi reiterati incidenti avvenuti nel giro di Francia in danno di atleti italiani riafferma che ogni manifestazione sportiva deve tendere, pur nello sforzo agonistico per la vittoria, ad affratellare sempre più i popoli; prende volentieri atto della interpellanza in tal senso presentata dalla Camera Francese ed invia l’espressione della sua solidarietà agli atleti che stavano dando ancora una volta la conferma dell’alto valore del ciclismo italiano63.

Al senato fu invece il democristiano, Camillo Giardina, a chiedere:

Quale azione si intende svolgere in merito agli incresciosi incidenti del Tour che hanno determinato il ritiro di tutti i corridori italiani i quali con tale decisione superando ogni loro materiale interesse, hanno soprattutto voluto evitare che il nome d’Italia ed i nostri colori venissero ulteriormente vilipesi sulle strade di Francia in occasione di quel famoso cimento internazionale che avrebbe dovuto anziché dividere maggiormente unire le due nazioni latine64.

In Francia fu soprattutto il deputato radical-socialista Vincent de Moro-Giafferi, presidente del Gruppo parlamentare e d’amicizia franco-italiana, a chiedere al ministro degli Interni quali fossero le «misure che egli conta di prendere per impedire il ripetersi di incidenti come quelli che si sono prodotti nel corso del Tour de France e che hanno portato i corridori italiani ad abbandonare»65. Questa presa di posizione fece infuriare Goddet che scrisse su «l’Équipe»:

Ho appreso […] che l’eminente avvocato, nonché deputato Moro-Giafferri si prepara a interpellare l’Assemblea Nazionale per domandare l’arresto della corsa. E in nome di che per piacere? In nome dell’amicizia franco-italiana che egli presiede: allora signor avvocato unitevi a noi piuttosto per salvare l’amicizia tra i due popoli e non andate a sobillare la popolazione francese per la quale il Tour continua66.

Ancor più rilevante, in virtù del suo ruolo e della vicinanza al Primo ministro Pleven, fu forse l’intervento di Édouard Bonnefous, presidente della Commissione per gli Affari Esteri, il quale dichiarò: «Gli italiani sono degli amici venuti nel nostro Paese per dimostrare la loro classe e non per essere insultati. Non possiamo consentire a un pugno di farabutti di mettere a repentaglio le buone relazioni tra i due Paesi»67. Come emerge anche dall’intervento di Bonnefous, il governo francese non sottovalutò la questione ritenendo che, se fosse stata ignorata, avrebbe potuto comportare un peggioramento delle relazioni fra i due Paesi, ormai avviate su un sentiero di collaborazione ed amicizia68. Anche per questo nella mattinata del 27 luglio il Quai d’Orsay ritenne opportuno compiere «un passo ufficiale» presso l’ambasciatore italiano69, a seguito del quale inviò immediatamente a Roma il seguente telegramma: «Pur riservando eventuali risultati inchiesta Schuman ha tenuto a esprimermi subito rincrescimento governo francese per spiacevoli incidenti occorsi nostri corridori Giro di Francia70. Il rammarico espresso dal ministro degli Esteri francese, Schuman, servì per ribadire come tali incidenti non avrebbero mai potuto «turbare gli amichevoli rapporti tra i due governi e i due popoli la cui collaborazione si svilupperà sempre più in tutti i campi»71.

La ferma volontà di Parigi di non veder rovinati dallo sciovinismo sportivo anni di duro lavoro diplomatico, trovò quindi nell’Italia un interlocutore disponibile e altrettanto voglioso di non fomentare venti nazionalisti. Non a caso, a un cittadino italiano residente in Francia che proponeva l’apertura di una sottoscrizione popolare a sostegno dei ciclisti italiani, Quaroni fece capire che non era il tempo di fomentare divisioni:

Apprezzo vivamente i nobili sentimenti che Le hanno suggerito tale proposta, ma ritengo che non convenga sottolineare ulteriormente questo spiacevole incidente dovuto più ad alcuni scalmanati irresponsabili nei quali non si riconosce il popolo francese. Gli italiani in Francia hanno come primo dovere civico, specie in questi gravi momenti, quello di lavorare alla buona armonia fra i due Paesi anche e soprattutto quando episodi deplorevoli come questo rischiano di comprometterla72.

Insomma, come commentò anche il corrispondente politico de «La Stampa» da Parigi: «Il caso Bartali commuove troppo le folle in Italia e in Francia e ha troppi sottintesi politici […] perché la nostra cronaca di oggi possa lasciarlo da parte come episodio estraneo agli avvenimenti dei quali normalmente ci occupiamo»73. Non solo i fatti di una corsa ciclistica entrarono nelle colonne politiche dei giornali, ma anche, come commentò «il Tempo»: «Bartali e Magni sono così passati sul piano della diplomazia e per la prima volta nella storia del Quai d’Orsay la maglia gialla è divenuta oggetto di una conversazione politica»74.

A livello sportivo la crisi fra Italia e Francia causata dai “fatti dell’Aspin” riguardò esclusivamente il ciclismo. Nei giorni successivi al ritiro italiano dal Tour si svolse senza problemi un incontro ufficiale di ginnastica fra le nazionali dei due Paesi. Confortati dalla riaffermata amicizia espressa dai due governi, dalle dichiarazioni distensive di ciclisti e dirigenti le relazioni ciclistiche si avviarono verso la distensione. Già nella seconda settimana di agosto i presidenti delle due federazioni, Rodoni e Joinard, s’incontrarono assieme a Binda e agli organizzatori del Tour mettendo le basi per quella che sarebbe stata, nel 1951, una partecipazione assai più serena.

La ferma volontà di Parigi e Roma fece sì che non ci fossero problemi a bloccare un episodio che in altri tempi sarebbe potuto essere cavalcato dalla propaganda nazionalista. Dal punto di vista politico il potenziale esplosivo di questa «crisi sportiva» venne quindi disinnescato con una certa facilità dalla cooperazione fra i due Paesi. Resta però il fatto che, di fronte al ritiro di una squadra da una corsa ciclistica, si mobilitarono i governi e le diplomazie dei due Paesi. Lo sport aveva un intrinseco valore politico e, il fatto che “la corsa di biciclette” simboleggiasse l’unità territoriale della Francia e che “la squadra ritirata” vestisse i colori della bandiera italiana, contribuì a renderlo più evidente tanto alle opinioni pubbliche quanto ai governi. Lo sport contava per la gente e ciò non poteva essere ignorato dalle diplomazie.


Note

1 Pierre Milza, Sport et relations internationales, in “Relations internationales”, n. 38, 1984, p. 159.

2 Cfr. Christopher S. Thompson, The Tour de France, Los Angeles, University of California Press, 2006, Paul Dietschy e Patrick Clastres, Sport, culture et société en France, Paris, Haschette, 2006 e Paul Boury, La France du Tour. Le Tour de France un espace sportif à géographie variable, Paris, L’Harmattan, 1997.

3 Sul concetto di silenzioso boicottaggio cfr. Nicola Sbetti, Sognando Londra. Il rientro dell’Italia nel Movimento Olimpico nel Secondo Dopoguerra (1944-1948), in “Rivista di Diritto Sportivo”, n. 2, 2015, pp. 513-533.

4 Enrica Costa Bona, Dalla Guerra alla Pace. Italia-Francia 1940-1947, Milano, Franco Angeli, 1995, pp.174, 200 e 243.

5 Antonio Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943-1992, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 79.

6 Cfr. Sbetti, Sognando Londra, cit.

7 Stéphane Mourlane, Le jeu des rivalités franco-italienne des années 1920 aux années 1960, in Y. Gastaut, S. Mourlane, Le football dans nos sociétés, une culture populaire 1814-1998, Paris, Autrement, 2006.

8 Cfr. Daniele Marchesini, Lo Sport, in Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, Roma, Donzelli, 2002.

9 Giorgio Fattori, Se non son assi non li vogliamo, in “La Gazzetta dello Sport”, 1 gennaio 1947.

10 Giorgio Fattori, Alla squadra azzurra il titolo europeo della pallanuoto, in “La Gazzetta dello Sport”, 15 settembre 1947.

11 Finita l’avventura dei francesi al Giro d’Italia, in “La Gazzetta dello Sport”, 21 maggio 1948.

12 Il Giro oltre confine, in “La Gazzetta dello sport”, 12 giugno 1949.

13 Perché i francesi non sono venuti al Giro?, in “La Gazzetta dello sport”, 22 maggio 1949.

14 Giovanni Bollini, I futuri interventi italiani al Giro di Francia avranno contropartite e garanzie, in “La Gazzetta dello Sport”, 22 luglio 1947.

15 Archivio del Ministero degli Affari Esteri (d’ora in poi Amae), Ambasciata (d’ora in poi Amb.) Parigi 1861-1950, b. 432.

16 Emilio De Martino, La grande conferma, in “La Gazzetta dello sport”, 20 giugno 1949.

17 Cfr. Amae, Amb. Parigi 1861-1950, b. 432.

18 Relazione del Cons. Chambéry a Amb. Parigi del 16.10.1949. Amae, Amb. Parigi 1861-1950, b. 432.

19 Telegramma del Mae a Amb. Parigi del 20.7.1949, Amae, Amb. Parigi 1861-1950, b. 502.

20 Telegramma di Quaroni al Mae del 20.7.1949. Amae, Amb. Parigi 1861-1950, b. 500.

21 Successivo telegramma di Quaroni al Mae del 20.7.1949. Amae, Amb. Parigi 1861-1950, b. 500.

22 Giovanni Bollini, Il taccuino del Tour, in “La Gazzetta dello sport”, 23 luglio 1949.

23 Alfredo Binda, Sul giro di Francia 1950 si discute “en amitié”, in “La Gazzetta dello sport”, 24 gennaio 1950.

24 Gino Bartali, Ci sono tutti contro, in “La Gazzetta dello sport”, 18 luglio 1950.

25 Gianni Brera, Gino ha staccato tutti poi è scoppiato a piangere, in “La Gazzetta dello sport”, 26 luglio 1950.

26 Ibidem.

27 La notizia emerse solamente in seguito ai fatti dell’Aspin. Cfr. Alex Belias, Je ne veux pas risquer ma vie, in “La Dépeche”, 27 luglio 1950.

28 Questa volta non hanno succhiato le ruote, in “La Gazzetta dello sport”, 23 luglio 1950.

29 Gino Bartali, Meglio non vincere oggi, in “La Gazzetta dello sport”, 24 luglio 1950.

30 Emilio De Martino, Un grande Bartali un piccolo pubblico, in “il Paese Sera”, 27 luglio 1950.

31 Gianni Brera, Gino ha staccato tutti poi è scoppiato a piangere, in “La Gazzetta dello sport”, 26 luglio 1950.

32 Ibidem.

33 L’aggressione a Gino Bartali sarebbe durata solo ventidue secondi, in “Paese”, 28 luglio 1950. Cfr. anche L’homme à la chemise Blanche reste pour le moment introuvable, in “La Dépeche”, 29 luglio 1950.

34 Alfredo Binda in due parole le cose a posto, in “La Gazzetta dello sport”, 28 luglio 1950.

35 Pierre Ledieu, Magni a tenté l’impossible pour convincre Bartali, in “La Dépeche”, 27 luglio 1950.

36 Bartali veut abandonner avec toute la ‘squadra’, in “Le Patriote”, 26 luglio 1950.

37 Giovanni Bollini, Taccuino del Tour, in “La Gazzetta dello sport”, 26 luglio 1950.

38 Alfredo Binda, È stata una tortura fisica e spirituale, in “Il Giornale d’Italia”, 27 luglio 1950.

39 Gino Bartali: “Poteva essere un bel Tour”, in “La Gazzetta dello sport”, 26 luglio 1950.

40 Ibidem.

41 Ibidem.

42 Sembrava di essere fra un popolo nemico, in “Il Giornale d’Italia”, 27 luglio 1950.

43 Ibidem. Cfr. anche in Magni ha evitato un colpo di coltello, in“Il Messaggero”, 26 luglio 1950.

44 Jean Boudey, Après le coup de tête de Bartali, in “La Dépeche”, 26 luglio 1950.

45 Jacques Sudan, J’ai maintenant l’obsession de la chute, in “La République”, 26 luglio 1950.

46 Le Tour, mort à l’age del 37 ans… d’une crise de chauvinisme, in “Le Patriote”, 27 luglio 1950.

47 Jacques Issautier, “C’est pur éviter des incidents puls grave que je me retire du Tour” nous confie Gino Bartali, in “La Dépeche”, 27 luglio 1950.

48 Nous avons pris la seule décision préservant notre honneur et notre carrière, in “La République”, 26 luglio 1950.

49 Bartali e gli altri italiani si sono ritirati dal Tour, in “l’Unità”, 26 luglio 1950.

50 Cit. in Gianni Brera, Senza Bartali non si resta ma è dispiaciuto a Magni, in “La Gazzetta dello Sport”, 27 luglio 1950.

51 Ibidem.

52 Sincero rammarico francese per i deplorevoli incidenti del Tour, in “il Tempo”, 28 luglio 1950.

53 Robic minaccia il ritiro se toglieranno il Col Turini, in “Il Paese Sera”, 28 luglio 1950.

54 Controverse e non tutte obiettive le opinioni della stampa francese, in “Corriere dello sport”, 28 luglio 1950.

55 Deplorazione ufficiale dell’UVI, in “Momento Sera”, 28 luglio 1950.

56 Unanime deplorazione in Francia del fattaccio del Col d’Aspin, in “Gazzetta del Popolo”, 27 luglio 1950.

57 Cfr. Bartali donne 3 millions à son équipe, in “La Dépeche”, 27 luglio 1950.

58 Offriamo una medaglia d’oro ai reduci dal Giro di Francia, in “Il Tempo”, 27 luglio 1950.

59 Lettera di Quaroni al Mae del 27.7.1950. Amae, Amb. Parigi 1861-1950, b. 481.

60 Cfr. Ezio Ciccarella, Reazione in Francia dei veri sportivi, in “La Gazzetta dello Sport”, 28 luglio 1950.

61 Cherche-t-on a provoquer des incidents avec les italiens?, in “Est Républicain”, 24 luglio 1950.

62 Lettera del Cons. Nancy a Amb. Parigi del 25.7.1950. Amae, Amb. Parigi 1861-1950, b. 481.

63 Vibrata protesta del Gruppo parlamentare, in “Il Mattino”, 27 luglio 1950.

64 Il Giro di Francia è finito in parlamento, in “il Momento Sera”, 28 luglio 1950.

65 Interpellation au Parlement au sujet du Tour de France, in “La République”, 26 luglio 1950.

66 Controverse e non tutte obiettive le opinioni della stampa francese, in “Corriere dello sport”, 28 luglio 1950.

67 Parecchi fermati tra gli spettatori dell’Aspin, si cerca l’aggressore di Bartali, in “Il Momento”, 28 luglio 1950.

68 Cfr. anche Stéphane Mourlane, À la recherche de la grandeur: le sport français à l’épreuve des relations internationales de 1945 à nos jours, in P. Tétart, Histoire du sport en France. De la libération à nos jours, Paris, Vuibert, 2007, pp. 164-5.

69 Lettera di Quaroni a Mae del 27.7.1950. Amae, Amb. Parigi 1861-1950, b. 481.

70 Telegramma di Quaroni a Mae del 27.7.1950. Amae, Amb. Parigi 1861-1950, b. 503.

71 Il rammarico del Governo francese espresso all’Ambasciatore d’Italia, in “Corriere della Sera”, 28 luglio 1950.

72 Lettera di Quaroni del 29.7.1950. Amae, Amb. Parigi 1861-1950, b. 481.

73 Deplorato in Francia lo sciovinismo dello sport, in “La Stampa”, 27 luglio 1950.

74 Sincero rammarico francese per i deplorevoli incidenti del Tour, in “il Tempo”, 28 luglio 1950.