Tornare in archivio sonoro con “Ardilut”. La poesia letteraria e la parola poetica del canto di tradizione orale

Nella primavera 2019 sono usciti i primi tre volumi della collana di poesia dialettale Ardilut diretta da Giorgio Agamben e pubblicata da Quodlibet. Si tratta del testo teatrale I Turcs tal Friùl di Pier Paolo Pasolini, della raccolta delle poesie dialettali di Andrea Zanzotto intitolata In nessuna lingua in nessun luogo, preceduta dagli Appunti e abbozzi per un’egloga in dialetto sulla fine del dialetto, finora inediti in volume, e di una raccolta di Francesco Giusti, poeta veneziano vivente, intitolata Quando le ombre si staccano dal muro, dove i testi dialettali e quelli in italiano, dello stesso autore, sono luoghi in cui

la poesia si muove, in un felice, trafelato andirivieni da una pagina all’altra, e non per specchiarsi in essa, ma proprio al contrario, per esibire la tensione che la disloca al di là di se stessa. È come se la poesia non potesse più dimorare nell’identità di una lingua e, in una sorta di trepidante e immanente bilinguismo, si muovesse incessantemente da un testo all’altro, quasi a significare che il suo vero luogo è ora nello spazio bianco che li unisce e divide1.

Contemporaneamente, usciva un numero del “Giardino di studi filosofici” proprio sul tema del bilinguismo, con contributi dello stesso Agamben, che chiarisce il suo pensiero sulla «diglossia» (come la chiamava Zanzotto) connaturata alla poesia italiana, riconoscendo come momento fondante di questa tensione tra lingua e poesia la ricerca del volgare illustre che Dante compie nel De vulgari eloquentia, di Elenio Cicchini sulla lingua di Pier Franco Uliana, poeta veneto di Fregona (TV), e di Nicoletta Di Vita sulla lunghissima storia del bilinguismo in poesia, che si manifesta, tra l’altro, come parola rituale e più in particolare come parola pronunciata dal dio, e sul rapporto tra parola divina e parola degli umani2.

Che si tratti infatti delle autotraduzioni di Francesco Giusti, della lingua veniente di Zanzotto, del problema della relazione tra lingua poetica e lingua parlata che si poneva Pasolini, pare innegabile che la ricerca linguistica dei poeti italiani sia strettamente connessa ad un bilinguismo, su cui già Dante si sofferma nel De vulgari eloquentia. Agli albori della lingua italiana, infatti, ricorda Agamben, Dante contrapponeva la lingua imparata dalla nutrice, il volgare, a quella appresa attraverso lo studio e che i Romani chiamavano grammatica. Se nei primi anni del Trecento si trattava di una contrapposizione tra volgare e latino, nella poesia del Novecento la tensione è tra le lingue dell’oralità, i dialetti, e quella della scrittura, cioè l’italiano. Il De vulgari eloquentia tratta in particolare della ricerca del volgare illustre, una lingua poetica che non corrisponde a nessuno dei volgari municipali, ma è come una pantera profumata che si aggira in tutte le città e non dimora in nessuna di esse. Ci è purtroppo pervenuto incompleto e del volgare illustre viene trattato l’utilizzo in poesia (sebbene Dante affermi che si tratti di una lingua anche per la prosa) soffermandosi sullo stile della tragedia, quello più elevato e impiegato nella canzone. Dante rimanda ad una parte dell’opera che non ci è pervenuta le considerazioni su commedia e elegia, le quali richiedono registri linguistici diversi.

Dante predilige il volgare alla grammatica perché viene appreso naturalmente e non costituisce, a differenza della grammatica, un tentativo di fissare, con regole e con la scrittura, una lingua in continuo movimento, tuttavia non è nei volgari appresi dalla madre, in quelli parlati comunemente nelle campagne o in montagna che si deve cercare il volgare illustre, bensì in una lingua dispersa, in un volgare cardinale, aulico e curiale, col quale tutti i volgari cittadini si confrontano. Agamben sottolinea che Dante è in primo luogo un pensatore politico e, rifacendosi ad alcune osservazioni di Corrado Bologna, mette in evidenza come il volgare illustre dantesco abbia un risvolto etico e debba corrispondere alla nobiltà di chi lo pratica. A proposito, e in relazione ai volgari municipali con i quali non coincide, Agamben osserva che il verbo che caratterizza la pratica del volgare illustre è appunto «divergere» (divertere):

Esso è, piuttosto, qualcosa che non è mai dato, ma deve essere ogni volta trovato in un movimento di divergenza rispetto ai volgari municipali. È reale, cioè, come un’esigenza che anima e muove i volgari municipali, e non come un altro volgare identificabile in una città.
Sarà necessario, allora, soffermarsi sul termine attraverso il quale Dante caratterizza più volte la specificità del volgare illustre: «divergere (divertere)». Anche quando sembra coincidere coi volgari municipali, come avviene col siciliano o col bolognese, esso implica in realtà sempre una “divergenza” dal proprio volgare3.

Chi frequenta la poesia dialettale romagnola non può che accogliere con entusiasmo la tesi alla base della collana Ardilut e provare a ripercorrere, con interesse rinnovato, la ricerca di una lingua letteraria nel dialetto, perlomeno nella sua fase più conosciuta, e cioè da quando è stata intrapresa da Spallicci nei primi anni del Novecento nella sua ottica di regionalismo culturale fino allo stile intriso di oralità che caratterizza per esempio la lingua teatrale di Raffaello Baldini, di Nevio Spadoni e pure di Giovanni Nadiani. Un’oralità che penetra la poesia dei più grandi poeti dialettali romagnoli del Novecento, dai sonetti di Olindo Guerrini (pubblicati postumi dal figlio Guido nel 1920, ma composti in realtà sin dagli anni Settanta dell’Ottocento) al gusto per le sonorità tronche e fonosimboliche e al plurilinguismo del già citato Nadiani.

Ma che ne è della parola poetica di tradizione orale che ricorre nel canto popolare e nei repertori in versi attestati dalla ricerca su quella che i folkloristi ottocenteschi chiamavano poesia popolare? E in che modo si pone in relazione con la poesia tout court? Dante, come si è accennato, suggeriva di non perdere tempo a cercare il volgare illustre nel volgare municipale e suggeriva anche di escludere le parlate di campagna e di montagna (I, XI, 6), dove salvo qualche eccezione si è invece concentrata, secoli dopo, la ricerca sul canto popolare:

E, insieme con questi, via tutte le parlate di montagna e di campagna [montaninas omnes et rusticanas loquelas], che sempre si sentono dissonare, per irregolarità di pronuncia, dalla lingua di chi abita nel centro delle città [mediastinis civibus accentus enormitate dissonare videntur], come ben mostrano i Casentinesi e quelli della Fratta4.

La ricerca del volgare illustre sembrerebbe dunque avere in nuce una rimozione, trattandosi di una lingua prettamente urbana, sebbene non coincidente con i volgari municipali. Il che è coerente con l’aspetto politico messo in evidenza sopra, essendo il volgare illustre, per quanto appreso per via orale, una lingua frutto di una ricerca e adatta a chi ne è degno e in particolare a chi detiene ingegno e sapienza (II, I, 7-8), dunque le persone colte e che hanno finito per utilizzarlo attraverso la scrittura. Ai verseggiatori che non hanno ingegno e sapienza conviene infatti un volgare meno prestigioso, forse riconducibile ai registri che Dante si riproponeva di illustrare nel quarto libro del De vulgari eloquentia che non ci è pervenuto:

Poi, tra quelli che si presentano come argomenti da trattare, dobbiamo distinguere se siano da cantare [canenda] a mo’ di tragedia, o di commedia, o di elegia. Per tragedia intendo lo stile più elevato, per commedia quello meno elevato, per elegia quello proprio degli infelici [miserorum]. Se l’argomento appare tale da doversi cantare [canenda] in tragedia, allora bisogna servirsi del volgare illustre e di conseguenza formare una canzone. Se, invece, in commedia, si scelga ora il volgare mediocre, ora quello più basso [mediocre quandoque humile]: mi riservo di mostrare i criteri di tale scelta nel quarto libro del presente trattato. Se, infine in elegia, bisogna che usiamo soltanto il volgare più basso [humile] (II, IV, 6)5.

Nel passo sopra citato si è evidenziato l’uso del verbo canere che non è da intendere in senso figurato: nella parte relativa all’uso dello stile tragico, Dante si sofferma infatti sulle forme strofiche della canzone, ricordando che l’uso di una intonazione musicale è propria di coloro che «armonizzano parole», anche quando si tratta di parole scritte su un foglio e non ancora “eseguite” (II, VIII, 5-6):

Inoltre bisogna discutere se debba dirsi canzone la composizione di parole armonizzate o la musica per sé stessa. Al proposito, affermo che la musica non si dice mai “canzone”, ma: suono, intonazione, nota, melodia. Infatti nessun suonatore di fiati, o di organo, o di cetra, chiama “canzone” la propria melodia, se non in quanto è congiunta ad una poesia in forma di canzone; mentre coloro che armonizzano parole ben chiamano canzoni i loro prodotti, e siffatti componimenti, anche scritti su un foglio e lì deposti in assenza di recitatore [prolatore], chiamiamo canzoni. E dunque è evidente la canzone non essere altro che l’atto compiuto da chi compone parole armonizzate in modo da potere accompagnarsi a una melodia [verba modulationi armonizata]: per la quale ragione, potremmo chiamare canzoni, sia le canzoni di cui ci stiamo occupando ora, sia le ballate e i sonetti, sia tutte le composizioni armoniche di parole, d’ogni genere, volgari e latine [et omnia cuiuscunque modi verba sunt armonizata vulgariter et regulariter, cantiones esse dicemus]6.

Volendo accogliere in pieno l’invito a prestare attenzione alla diglossia connaturata alla poesia italiana che ci rivolge la collana Ardilut e prendendo il De vulgari eloquentia di Dante come guida originaria alla consapevolezza dell’alterità linguistica, e prettamente vocale in quanto cantata, della parola poetica, proviamo ora a ripensare alle tensioni che attraversano gli archivi sonori a partire da quello più vicino a noi, il Centro per il dialetto romagnolo della Fondazione Casa di Oriani di Ravenna.

Ragionare in termini di tensione linguistica permette di prendere respiro, affrancandosi da quella misera manciata di parole infelici e sempre ripetute che affollano la letteratura sugli archivi sonori, quali “beni” e “patrimoni” immateriali e, perlomeno per quanto riguarda il canto di tradizione orale, invita piuttosto, come suggeriva Dante, a lavorare in termini di uso della lingua e della parola poetico-musicale, in termini di azione e passione (II, VIII, 4):

La canzone, in effetti, secondo il preciso significato del termine, è il cantare come azione e come passione, al modo che la lezione è il leggere come azione e come passione. […] Il termine canzone può prendersi in due modi: in uno, in quanto viene fatta dal suo autore, e allora è un agire, – e conformemente a questo modo nel primo dell’Eneide Virgilio dice Arma virumque cano; in un altro, in quanto, una volta fatta, viene eseguita o dall’autore o da chiunque altro, con o senza intonazione di una melodia: e allora è un patire7.

Prima che si pensasse a “patrimonializzarlo”, la ricerca sul canto di tradizione orale è stata una ricerca sulla “poesia popolare”, con un taglio antiquario, poiché nel repertorio lirico-monostrofico, nei canti narrativi, nelle “orazioni” si intravedeva un possibile legame con l’origine della lingua italiana e del teatro italiano, in un’epoca intrisa di nazionalismo romantico. Con un’operazione contraria a quella che ci suggerisce Ardilut, gli studiosi ottocenteschi prestavano attenzione verso gli elementi conservativi del canto popolare, considerato dunque un fossile dei primi secoli della letteratura italiana, sia che fossero trascinati, come ricorda Alberto Maria Cirese, da un «vivace amore per la “purezza” della lingua di cui sarebbero stati depositari i contadini toscani»8, sia che, come Costantino Nigra, giustificassero la diffusione del canto narrativo o del lirico-monostrofico sulla base del cosiddetto «sostrato etnico» (cioè sulla presenza di etnie diverse nella penisola italiana precedente alla latinizzazione).

Per quanto questo approccio sia stato superato e la teoria del sostrato etnico sia oggi sostituita dalla consapevolezza della derivazione della maggior parte dei dialetti italiani dal latino, il canto popolare ha generalmente mantenuto nell’opinione comune una connotazione arcaica che ha potuto essere facilmente intrappolata dai regionalismi culturali novecenteschi.

Per quanto riguarda la Romagna, un tentativo di convergenza tra poesia dialettale e canto popolare si è riscontrata nell’intento di rinnovare il canto popolare perseguito da Aldo Spallicci, Cesare Martuzzi e Francesco Balilla Pratella9 attraverso la costituzione dei cori polifonici dei canterini romagnoli. Essi, trovandosi di fronte a un repertorio cantato tradizionale che era in gran parte non propriamente in dialetto, ma in una sorta di lingua mista, cominciarono a scrivere testi e musiche appositamente pensati per i cori polifonici, ma che, anche sul piano musicale, non conservavano nulla del canto di tradizione orale.

La reinvenzione spallicciana del folklore, avviata con la rivista “Il Plaustro” negli anni immediatamente precedenti alla prima guerra mondiale e proseguita con “La Piê”, riprese un certo vigore nel secondo dopoguerra, nonostante le diverse sorti toccate a Spallicci (antifascista) e Pratella (che aderì al fascismo) e ai cori di canterini romagnoli a cui erano legati. Un vigore che tuttavia fu in parte frenato dalle prime ricerche sistematiche sul dialetto e sulle tradizioni orali in Romagna, condotte in primo luogo da Giuseppe Bellosi con il fotografo Giovanni Zaffagnini a partire dai primi anni Settanta. Bellosi e Zaffagnini, oltre a mettere in evidenza il carattere mistificatorio della reinvenzione del folklore che sembrava andare di pari passo con il miglioramento delle condizioni economiche10, misero in luce i vari stili linguistici impiegati nell’oralità (peraltro già osservati da alcuni dei più attenti folkloristi ottocenteschi): da una sorta di lingua mista di italiano e regionalismi nei canti narrativi e nel lirico-monostrofico, alla lingua “artificiale” dei narratori di fiabe, a una più stretta aderenza (pur con qualche importante eccezione) ai dialetti nei repertori domestici, quali le ninne nanne e filastrocche a destinazione infantile, i repertori propriamente infantili, gli indovinelli e i proverbi, coerentemente con quanto altrove riscontrato da studiosi tra cui Glauco Sanga11.

Nonostante il superamento del regionalismo culturale, in Romagna di fatto si è aperto un baratro tra l’esperienza poetica letteraria novecentesca e la parola poetica del canto popolare, in gran parte rimosso. Non a caso Renzo Cremante, curatore di una nuova edizione dei Sonetti romagnoli di Olindo Guerrini in uscita presso l’editore Longo di Ravenna, intervistato da Federico Savini nel 2016, sostiene, a proposito di Guerrini: «La poesia romagnola dialettale del Novecento guarda a lui. I santarcangiolesi, con i loro rovelli dai risvolti drammatici e umoristici, sono figli di Guerrini, non certo di Spallicci»12.

Tuttavia, proprio perché oggi è possibile storicizzare quanto è avvenuto e ascoltare la parola poetico-musicale affrancata finalmente dalle questioni identitarie a cui sia i dialetti sia il folklore sono state relegate, è venuto il momento, perlomeno in sede di ascolto, di mettere la parola poetica letteraria e quella di tradizione orale finalmente sullo stesso piano. E ragionare sul divertere dantesco facendo propri gli insegnamenti che provengono dagli studi sull’oralità, che ci hanno abituati a prestare attenzione alle strategie di apprendimento che gli animali umani attivano specialmente quando non accedono alle istituzioni preposte alla formazione scolastica e accademica. Facendo propri anche gli insegnamenti dell’etnomusicologia, che ha saputo, specie in Italia, riconoscere gli elementi di continuità storica nel canto di tradizione orale, nella danza e nell’uso e costruzione degli strumenti musicali13.

È in questa direzione che proveremo, in successivi contributi, a ragionare su alcuni aspetti trasversali della parola poetica, a partire dalle registrazioni del Centro per il dialetto romagnolo della Fondazione Casa di Oriani. Lo faremo muovendo i passi da una riflessione sulla lingua materna, luogo originario della parola poetica per chi scrive in dialetto e per chi ha avuto la fortuna di far parte di una tradizione di canto. Inconscio della lingua, secondo Zanzotto, lievito della parola poetica sia per Pasolini che per Zanzotto, volgare da cui divertere per Dante (noto è il riferimento ad Aldobrandino da Padova, unico, secondo Dante, tra i Veneziani a «staccarsi dal volgare materno per tendere a quello curiale» I, XIV, 7)14, che negli archivi sonori è presente anche come lingua poetico-musicale con cui la madre si rivolgeva all’infans, al bambino privo del linguaggio, combinando versi sulla base di profili melodici ripetitivi («circolari» li definiva Pratella)15, costruendo testi che vanno dal nonsense all’espressione del disagio di essere madre, in cui la coerenza e l’ordine logico di ciò che si dice non sempre ha la priorità, anzi spesso è secondario alla presenza in voce16.


Note

1 Giorgio Agamben, Nota sull’autotraduzione dei poeti dialettali, in Francesco Giusti, Quando le ombre si staccano dal muro, Macerata, Quodlibet, 2019, p. 12. L’immagine di apertura dell’articolo è tratta da Stornelli sopra le gelosie d’amore, Firenze, Tipografia Adriano Salani, 1902.

2 https://www.quodlibet.it/libro/1000000000001.

3 Giorgio Agamben, Seminario su bilinguismo e poesia, in Bilinguismo, “Giardino di studi filosofici”, 2019, p. 5.

4 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di Giorgio Inglese, Milano, Rizzoli, 2008 [1998], pp. 88-91.

5 Ivi, pp. 148-149.

6 Ivi, pp. 172-173.

7 Ivi, pp. 170-171.

8 Alberto M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, Palumbo, 1973, p. 135.

9 Susanna Venturi, La nuova tradizione del canto in Romagna, in I cantarê. I canterini romagnoli di Russi dagli anni Trenta a oggi, Udine, Nota, 2016, pp. 34-51.

10 Ebbe un certo effetto la mostra fotografica Romagna mia, di cui è stato pubblicato il catalogo: Romagna mia, fotografie di Giovanni Zaffagnini e Enea Melandri, introduzione di Giuseppe Bellosi, Fusignano, Grafiche Morandi, 1979.

11 Giuseppe Bellosi, Introduzione, in La Rumâgna dj indvinèl, Lugo, Walberti, 1979, pp. 9-46; Id., Orazioni popolari raccolte nel territorio di Brisighella, “Quaderni” del Museo del Lavoro Contadino nelle vallate del Lamone-Marzeno-Senio, 7, 1998, pp. 7-22; Tullia Magrini, Giuseppe Bellosi, Vi do la buonasera. Studi sul canto popolare in Romagna. Il repertorio lirico, Bologna, Clueb, 1982; Glauco Sanga, Il linguaggio del canto popolare, Milano, Me/Di Sviluppo, Firenze, Giunti/Marzocco, 1979; Id., I generi della narrativa popolare italiana, “La Ricerca folklorica”, 12, 1985, pp. 49-54.

12 Federico Savini, Tutto Olindo Guerrini nei nuovi «Sonetti romagnoli», curati da Renzo Cremante, intervista pubblicata il 21 ottobre 2016 in “settesere.it”, si veda https://www.settesere.it/it/n12790-tutto-olindo-guerrini-nei-nuovi-asonetti-romagnolia-curati-da-renzo-cremante.php (ultimo accesso 22 settembre 2019).

13 Roberto Leydi, L’altra musica, Milano, Ricordi, Lucca, LIM, 2008 [1991].

14 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, cit., pp. 106-107.

15 Francesco Balilla Pratella, Saggio di gridi, canzoni, cori e danze del popolo italiano, Bologna, Bongiovanni, 1919, Id. Etnofonia di Romagna, Udine, Istituto delle Edizioni Accademiche, 1938.

16 Luisa Del Giudice, Ninnananna-nonsense? Angoscia, sogno e caduta nella ninnananna italiana, “La Ricerca folklorica”, 22, 1990, pp. 105-114; Sandra Mantovani, «Lo daremo all’uomo nero». Il repertorio infantile, in Roberto Leydi (a cura di), Guida alla musica popolare italiana, 2, I repertori, Lucca, Lim, 2001, pp. 3-21; Constantin Brăiloiu, La ritmica infantile, in Folklore musicale, Roma, Bulzoni, vol. 2, 1984 [1956] pp. 104-139; Ernesto De Martino, Ninne nanne e giuochi infantili, in Panorami e spedizioni, a cura di Luigi M. Lombardi Satriani e Letizia Bindi, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 47-57.