Sulla storia dello sport: ritardi e prospettive. Intervista a Stefano Pivato

Stefano Pivato insegna storia contemporanea presso l’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino e collabora a Rai Storia. I suoi interessi di studioso si sono concentrati, negli anni, sui comportamenti collettivi degli italiani e sull’immaginario politico nel Novecento. Fra i suoi libri più recenti: I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, 2013; Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto rosso e guerra fredda, 2015; I comunisti sulla luna. L’ultimo mito della rivoluzione russa (con Marco Pivato), 2017, tutti editi dal Mulino.
 
È stato uno dei primi studiosi italiani ad occuparsi di storia dello sport. In questo ambito, oltre a vari saggi su riviste, ha pubblicato Sia lodato Bartali: ideologia, cultura e miti dello sport cattolico (1936-1948), Edizioni Lavoro, 1985, seconda edizione 1996 (terza edizione Castelvecchi, 2018); la voce Sport in Guida all’Italia contemporanea, 1861-1997, Garzanti, 1998; Lo sport nel XX secolo, Giunti, 2005; Storia dello sport in Italia (con Paul Dietschy), Il Mulino, 2019; Storia sociale della bicicletta, Il Mulino, 2019. È socio onorario della Società Italiana di Storia dello Sport.

L’intervista è a cura di Alberto Molinari e Nicola Sbetti1

 

Trent’anni fa, sulle pagine di ”Italia contemporanea”, lei scriveva: «Purtroppo in Italia, Paese fra i maggiori consumatori di sport, il tema non è mai stato oggetto di convincenti sistemazioni ed è stato delegato alle estemporaneità sociologiche dei giornalisti sportivi o alle improvvisazioni giornalistiche di sociologi di mestiere. La cronaca dell’avvenimento sportivo ha talvolta suscitato la fantasia di scrittori e romanzieri che ne hanno esaltato il lato estetico o denunciato le trasgressioni dell’originario spirito decoubertiniano. Al contrario l’interesse degli storici o dei cultori delle scienze sociali è stato del tutto marginale e occasionale». Quale fu la risposta del mondo accademico a quella sua denuncia?

La risposta fu quella di un generale scetticismo. Fui accusato (benevolmente) di essere un po’ troppo eccentrico rispetto agli interessi prevalenti della storiografia italiana. A metà degli anni Settanta c’era stato un generale interesse per la storia sociale e quindi la spinta a scoprire settori storiografici trascurati era forte. L’uscita de Il formaggio e i vermi di Ginzburg aveva indotto una schiera di giovani storici a intraprendere nuove piste di ricerca. La casa editrice Einaudi aveva dato inizio alla collana Microstorie.  Nuove figure sociali entrano nella ricerca storica. Ma, fra queste, non quella dell’atleta, dello sportivo. Occorre poi aggiungere che la stagione della storia sociale in Italia dura poco e non mette le radici che in Francia qualche decennio prima aveva permesso la crescita di una scuola come quelle della Annales. In Italia la storia rimane, salvo una breve parentesi a metà degli anni Settanta, essenzialmente “politica”.

È la crisi della politica, a partire dall’inizio del Duemila, a togliere il primato della ricerca alla storia dei partiti politici, dei leader: insomma di tutti quei momenti che, come aveva scritto Antonio Gramsci, «spiccano come palme nel deserto». Alle biografie personali si sostituiscono quelle collettive. Non sembri un paradosso ma io credo che sia proprio l’antipolitica che in Italia si diffonde fra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo a sdoganare nuovi campi di ricerca e, fra questi, quello della storia dello sport.

Per quali ragioni la storia dello sport in Italia si è affermata in ritardo rispetto ad altri paesi? E quali sono i ritardi che paga ancora il nostro paese rispetto a quelli maggiormente all’avanguardia in questo settore?

Direi che per una tradizione storiografica come quella italiana fortemente condizionata dalla politica e dalla ideologia la ricerca sulla storia dello sport ha scontato proprio l’avversione delle tradizioni politiche italiane. Da una parte lo snobismo di certa storiografia sconta la contrarietà di Benedetto Croce e della tradizione liberale nei confronti dello sport: nella nota distinzione fra «poesia e non poesia» lo sport non era considerato come una manifestazione dello spirito degno di assurgere a dignità storiografica. Non dimentichiamo poi che lo sport (e quindi anche la sua storia) si afferma in Italia fra gli anni Venti e Trenta e diventa dunque per una generazione di storici che si riconosce nella Resistenza, qualcosa che “odora” troppo di fascismo.

Senza contare poi che mentre sono le spinte innovatrici del Sessantotto a smuovere certe pigrizie della storiografia italiana e ad aprire campi innovativi, proprio il movimento degli studenti e la sua cultura considera lo sport, sulla base delle analisi della scuola di Francoforte, come qualcosa di alienante. Insomma il Sessantotto rinverdisce quella tradizione socialista che all’inizio del Novecento considerava lo sport come un “prodotto del capitalismo”. Una sorta di oppio dei popoli in definitiva. E questa posizione ha una indubbia influenza su quella generazione di storici che inizia a fare ricerca proprio a partire dall’inizio degli anni Settanta.

Circola in rete una recente intervista di Adriano Sofri, uno dei fondatori di Lotta continua, che così sintetizza l’atteggiamento di quella generazione nei confronti dello sport: «Io sono una delle persone che non avrebbero saputo ricordare che l’Italia per la prima volta ha vinto il campionato europeo di calcio […] Nel sessantotto avevamo altro da fare»2. In realtà, fra gli studenti impegnati in quei giorni a fare la rivoluzione l’indifferenza nei confronti dello sport è assoluta. Di più, testimonia ancora Sofri, il calcio è scomparso: «non ne parlavano più […] il tifo si teneva nascosto come una attività cospirativa di cui vergognarsi un poco […] era scomparsa la discussione sul calcio». Tuttavia alla indifferenza nei confronti dello sport subentra da parte dei giovani del Sessantotto anche un sentimento di vera e propria ostilità quando, il 2 ottobre del 1968, gli studenti di Città del Messico si riuniscono nella Piazza delle Tre culture e vengono brutalizzati dalla polizia. L’intento degli studenti messicani è quello di aumentare la visibilità delle proteste grazie all’attenzione mediatica che si è creata intorno alle Olimpiadi che si sarebbero inaugurate di lì a pochi giorni. La notizia che decine di studenti cadono sotto i colpi della polizia fa il giro del mondo e suscita una immediata reazione. «La strage – ricorda ancora Sofri – getta un’ombra sinistra su tutto lo sport», che i giovani iniziano a considerare «come una delle cose più sporche del potere». I pugni alzati di Smith e Carlos sul podio olimpico avrebbero fatto il resto.

Qual è la peculiarità dell’approccio alla storia attraverso lo sport e il suo rapporto con altre discipline (sociologia, antropologia, pedagogia ecc.)?

La storia, come scriveva Marc Bloch, «non ammette autarchia». E questo vale anche per la storia dello sport. Noi in Italia stiamo di fronte, come in Francia qualche anno fa e in parte anche oggi, a una divisione fra gli storici degli sport e gli storici dello sport, quest’ultimo inteso come sequenza ed evoluzione di tecniche, di metodologie, di elencazione di record di primati e di record. Lo storico dello sport assume il fenomeno come strumento di lettura della società del Novecento. Non occorre richiamare Ortega Y Gasset e una schiera di pensatori che hanno individuato nello sport uno dei fenomeni più caratteristici del Ventesimo secolo. E quindi una pista di atletica, un ring, uno stadio mi devono aiutare a capire non tanto come si svolge una gara, o uno scambio di pugni  o una azione ma mi devono spiegare perché quei luoghi diventano collettori di emozioni e passioni. Anche politiche. E allora, in questa complessità tutte le discipline richiamate concorrono a spiegare la complessità di uno dei fenomeni più caratteristici del Ventesimo secolo. Spiegare lo sport e la sua storia solo all’interno dei meccanismi che regolano le varie pratiche rischia di generare un dilettantismo che fa molto male alla ricerca e non accredita lo storia dello sport presso la comunità degli storici. 

Qual è o quale dovrebbe essere il ruolo pubblico della storia dello sport?

Oggi la storia dello sport contiene alcune scorie e assume spesso una delle categorie più caratteristiche del fenomeno: quella del “tifo” sugli spalti. Non serve analizzare un fenomeno per esaltarlo: questo già lo fanno i tifosi in quelle che un tempo si chiamavano “discussioni da bar” e che oggi si sono trasferite in televisione o sui social. Il ruolo pubblico della storia dello sport è quello, come per ogni fenomeno storico, di “capire”. Non vorrei apparire troppo scontato ma direi proprio che, come per ogni campo storiografico, per la storia dello sport vale l’assioma che “studiare il passato serve a capire il presente”. L’approssimazione e la superficialità sono elementi inquinanti e appartengono a una cronaca sportiva che vuole solleticare l’istinto dei tifosi. Lasciamo fuori ogni istinto di campanile dalla storia dello sport. Antonio Gramsci, a proposito del tifo sportivo, parlava di «primitivismo» sostenendo che i campanilismi erano rinati attraverso lo sport e le gare sportive, in forme spesso selvagge e sanguinose. La commistione fra tifo e ricerca storica appartengono all’origine della storia dello sport. L’evoluzione della disciplina deve abbandonare, qualora esistano, queste forme di «primitivismo». 


Note

1 Sui temi affrontati da Pivato, si veda anche l’intervista a Felice Fabrizio, Alle origini della storia dello sport in Italia, in questo stesso dossier di “Clionet”, 3 (2019), http://rivista.clionet.it/vol3/dossier/percorsi_storia_sport/fabrizio-alle-origini-della-storia-dello-sport-in-italia.

2 L’urlo del 68 raccontato da Adriano Sofri, di Teo de Luigi, documentario.