Neutralità e musei. Il dibattito è aperto

Parte prima1

«Museums are not f**king neutral». Quest’affermazione campeggia in tutta la sua cruda e indocile franchezza all’interno di un quadrato rosso su Archival Decolonist [-o-], blog nato per monitorare e promuovere la presenza della voce delle comunità indigene australiane nelle istituzioni culturali che si occupano di memoria, cioè principalmente musei, archivi, biblioteche2.

Aldilà delle posizioni più aggressive e sfidanti3, sulle quali spesso pesano vissuti ed eredità specifiche, come nel caso riportato, sul tema della neutralità è in corso un dibattito acceso ed estremamente fecondo che sta coinvolgendo la comunità museale internazionale. Molti musei, infatti, a partire dalla necessità di rimettere al centro del proprio lavoro la rilevanza4 rispetto alle comunità di riferimento, si stanno infatti interrogando e misurando con questo nodo, che è il precipitato di diverse sollecitazioni. Fra queste sono i principi etici di riferimento del museo, questione tanto sentita da dare origine – ufficialmente nel settembre 2019 ma con una più lunga gestazione – a un nuovo comitato Icom (International Council of Museums), l’Icethics (International Committee for Ethical Dilemmas), concepito in risposta alle problematiche sollevate dal nuovo ruolo di attore sociale di cui i musei cominciano a prendere coscienza o con il quale devono confrontarsi.

Difficile dire quando esattamente il tema della neutralità abbia assunto un peso rilevante nel discorso museale ma questa emersione è certo il risultato di recenti convergenze sociali, politiche, culturali. Il dibattito è stato animato dalle azioni di protesta e sensibilizzazione che a livello globale, e con declinazioni diverse, sono nate negli ultimissimi anni per la lotta alle diseguaglianze e la rivendicazione di diritti, talora innescate dalla salita al potere di figure alle quali si contesta l’adesione a una cultura autoritaria, neo-colonialista, razzista e patriarcale.

Nel dibattito internazionale, che finora ha coinvolto marginalmente la realtà italiana, sono state espresse posizioni diverse; queste vanno dalla visione della neutralità nei musei come mito, inganno che nasconde la paura di domandarsi quale sia il ruolo della cultura5 o esito inespresso del timore di inimicarsi amministratori e sostenitori, alla constatazione che i musei non abbiano gli strumenti necessari per intervenire su temi sociali, fino all’idea che se i musei divenissero agenti di cambiamento sociale perderebbero autorevolezza e il proprio ruolo di osservatori super partes del processo storico6.

Il museo si mette in discussione da un lato in direzione introversa, su collezioni e temi e sulle interpretazioni che di questi propone, dall’altro in senso estroverso sull’opportunità di affrontare questioni sociali di stringente attualità e quindi sulla necessità di prendere posizione. Una forma ulteriore di riflessione riguarda le relazioni di partnership e di sostegno economico, che vengono sempre più spesso sottoposte a verifica di coerenza con i princìpi etici e di visione nei quali il museo si riconosce. Altro interessante sviluppo della riflessione sulla neutralità, è dato dalla consapevolezza che ogni considerazione sull’accessibilità e l’inclusione debba partire anzitutto dalla creazione di opportunità d’accesso e di condizioni di lavoro e retribuzione eque e sostenibili per i professionisti museali7.

Il discorso sulla neutralità ha coinvolto in misura maggiore i musei antropologici: da un lato mettendo in questione la storia delle collezioni, spesso formatesi grazie ad acquisizioni per esempio frutto di spoliazioni, trafugamenti, bottini di guerra, e sulle narrazioni che hanno consolidato poteri e reputazioni e servito la causa dell’identità nazionale; dall’altro considerando come finora l’interpretazione di mondi e culture prescindesse, inaccettabilmente, dal punto di vista delle popolazioni oggetto della narrazione. Qui il tema si declina nel capitolo complesso della de-colonizzazione dei musei e, per esempio, su uno dei suoi aspetti, il deaccessioning, cioè la restituzione del patrimonio ai Paesi di origine. Ma il discorso si estende a tutti i musei, che sono chiamati a prendere atto di come ogni azione di interpretazione si ponga per definizione in posizione conflittuale rispetto alla neutralità.

In occasione della giornata internazionale dei musei, dedicata nel 2017 all’indicibile nei musei, alle contested histories, un documento di Icom Italia chiariva molto bene quali fossero le responsabilità dei musei nei confronti del patrimonio difficile o dissonante (difficult o dissonant heritage): «Piccole e grandi scelte, consapevoli e inconsapevoli, spesso hanno spinto i Musei a sottrarsi al confronto con temi e oggetti in nome di una pretesa oggettività e di una ricercata distanza da ogni tema controverso. Assecondando così un’immagine di museo neutrale e distante dal presente, luogo delle certezze e non degli interrogativi, del dubbio, del contrasto ai pregiudizi e al senso comune, in luogo di un Museo che nella sua ricerca e nella sua azione osa, sfida, suscita dibattito e interrogativi, anche difficili, scomodi, al limite provocatori»8.

È stato osservato come nell’occuparsi di temi controversi i musei rischino di essere considerati di parte e di perdere credibilità, ma per contro, non affrontandoli potrebbero perdere rilevanza9. David Fleming, già direttore di National Museums Liverpool ha poi aggiunto che condizione necessaria per far sì che i musei continuino a essere rilevanti per la società, essi debbano confrontarsi con i temi difficili che hanno deliberatamente evitato di affrontare nel passato10. Fleming solleva un aspetto nodale, quindi. Quello del coraggio di affrontare aspetti difficili e critici del passato che raccontiamo, aspetto che vale soprattutto, ma non esclusivamente, per i musei di storia. Pare poi di poter leggere, come conseguenza di questa affermazione, un secondo monito, cioè la necessità di rendere esplicite le scelte operate nell’interpretazione. Ciò non implica la negazione di memorie e prospettive diverse ma, nell’ambito della verità storica, sostenuta dalle fonti, accogliere una tesi. E neppure si tratta, attraverso l’interpretazione, di imporre ai visitatori una posizione o un giudizio ma di offrire loro prospettive diverse che sfidino i luoghi comuni11, i pregiudizi, gli stereotipi.

I musei hanno rispecchiato e tuttora rispecchiano le volontà e le intenzioni che li hanno generati, quindi non possono essere neutrali. I musei, inoltre, istituiscono, con le proprie collezioni, i contenuti, gli strumenti e le attività, un dialogo con il pubblico, e un dialogo non può essere neutrale perché costruito anche su interrogativi e costruito da persone con soggettività e competenze proprie. Sempre Fleming ha infatti osservato come la pretesa di alcuni professionisti museali di potersi porre al di sopra della politica andando a occupare una sorta di bolla, un luogo immaginario fatto di verità assolute da difendere, sia una posizione naif, se non addirittura sinistra e comunque eticamente discutibile12. Altri, invece, sostengono con decisione l’impossibilità di separare la vita del museo dalla politica13 se non addirittura la necessità di esplicitare un quadro politico, o per meglio dire valoriale, di riferimento14.

Alcuni musei, in particolare negli Stati Uniti, riconoscendosi come luoghi di facilitazione, di opportunità, di partecipazione, sentono quindi il dovere di dare spazio alle istanze delle proprie comunità, ma, questa scelta, per non rischiare di essere estemporanea, vana o perfino pretestuosa deve essere condotta con consapevolezza, responsabilità e senza intenti opportunistici15.

Il lavoro museale si confronta continuamente con la scelta, che per sua natura implica una rinuncia, a partire dai testi, dalla selezione degli oggetti e dei documenti, alle gerarchie che l’interpretazione museale naturalmente genera16. In un recente intervento, Suay Aksoy, presidente Icom, ha concluso con efficace sintesi: «I musei non sono neutrali. Non lo sono mai stati e mai lo saranno. Non sono separati dal proprio contesto sociale e storico. E quando sembra che lo siano, non si tratta di neutralità, bensì di scelta. Scegliere di non parlare dei cambiamenti climatici non è neutralità. Scegliere di non parlare di colonizzazione non è neutralità. Scegliere di non sostenere l’uguaglianza non è neutralità. Sono scelte, e possiamo farne di migliori»17.

 

Parte seconda

In campo storico la discussione sulla neutralità è praticamente consustanziale alla disciplina. Si pensi alla disputa tra Erodoto e Tucidide18; o al «sine ira et studio» di Tacito; o ancora al profilo dello storico virtuoso tracciato da Luciano di Samosata: «Senza timore, imparziale, amante della libertà di parola e della verità»19.

Nel XIX secolo la storiografia moderna che si presenta come disciplina scientifica pone tra i suoi criteri qualificanti l’oggettività: lo storico, secondo Von Ranke, deve mostrare il passato «wie es eigentlich gewesen», cioè «come effettivamente è stato»20.

Nel corso del Novecento però il principio dell’oggettività della storia è fortemente messo in discussione dal punto di vista epistemologico. Solo per fare alcuni esempi si pensi alle critiche di William Cunningham alle pretese di imparzialità della Cambridge Modern History di Lord Acton21; o alle ironie di Marc Bloch sulle ingenuità della histoire evenementielle di Langlois e Seignobos22. Alla fine del secolo la critica dell’empirismo ingenuo arriva fino alle estreme (e discutibili) derive relativiste del linguistic turn. Ma è interessante notare come proprio alcuni storici d’avanguardia come Carlo Ginzburg, non certo riconducibili al mero positivismo, abbiano con forza riaffermato le ragioni della ricerca storica della verità (sempre con la “v” minuscola)23.

Anche nella tradizione storiografica italiana del Novecento numerosi sono i richiami all’impossibilità di una storia realmente oggettiva e quindi alla cautela critica nei confronti di chi la sbandiera. Ed è interessante che essi arrivino proprio da storici molto attenti alla filologia e alla scientificità della disciplina. Si pensi a Salvemini, nella premessa a Mussolini diplomatico, in cui si afferma che: «Chi si crede imparziale il più delle volte è uno sciocco. Chi si proclama imparziale è quasi un uomo in cattiva fede che cerca di ingannare il suo pubblico, lupo in veste d’agnello. Noi possiamo essere soltanto intellettualmente probi, renderci cioè conto delle nostre passioni, prendere le nostre misure contro di esse, ed avvertire i lettori dei pericoli verso i quali li porta la nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità un dovere»24. O a Cantimori che educa i suoi studenti a coniugare «il massimo impegno col massimo distacco»25.

Fino a Detti, che di recente ci ha ricordato che: «Certo il passato non può essere distorto e in questo senso Ranke aveva ragione. Per il resto però non esistono storie oggettive. Quelle che pretendono di esserlo in genere sono storie ufficiali prodotte da regimi autoritari. Se qualcuno sostiene di aver detto l’ultima parola su un problema del passato la cosa più saggia che possiamo fare è diffidarne»26.

È interessante notare come nella voce Storia dell’Enciclopedia Einaudi, Jacques Le Goff sostenga, seguendo Genicot, che l’oggettività è impossibile, poiché la componente soggettiva del fare storia (e conoscenza in generale) è involontaria; mentre la neutralità, in quanto scelta deliberata, può e anzi deve essere richiesta allo storico27.

Ma se è giusto rifiutare forme militanti o partigiane di storiografia, che, anche quando non degenerano in propaganda, alla lunga portano alla loro causa più danni che vantaggi, non per questo è necessario mettere da parte l’impegno morale e la responsabilità sociale della storia. Tra i richiami in questo senso mi pare opportuno ricordare quello di Thomas Haskell e del suo Objectivity is not neutrality, nel quale si rivendica il dovere dello storico di «difendere la ricerca della verità, indipendentemente dalle sue conseguenze»28.

Sulla scia di queste autorevoli considerazioni, mi pare difficile considerare la neutralità una virtù assoluta. Lo storico infatti non è equidistante dalle diverse posizioni, perché ha un suo punto di vista e soprattutto perché cerca la verità. E descrivere ogni questione come avente solo due lati, rispetto ai quali la verità starebbe nel mezzo, è una semplificazione che può essere accettata forse nel senso comune, ma non certo nel giornalismo serio29 e tantomeno nelle scienze sociali30.

C’è poi un ulteriore elemento da considerare. Mantenersi neutri, cioè non prendere posizione rispetto ai fatti, significa in qualche modo legittimare i rapporti di potere vigenti. La pretesa di neutralità, come ricordava già Benda nel 1927 nel Tradimento dei chierici, può nascondere un peccato di omissione; ed essere neutrali può significare neutralizzare le potenzialità critiche del sapere storico.

Lo sostengono autorevolmente Gramsci in Odio gli indifferenti, dove si afferma che: «Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita»31; e Benjamin della VII Tesi di filosofia della storia, dove, contestando esplicitamente Ranke, si dice che «in ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla»32.

Ciò ovviamente non significa strumentalizzare la storia per dimostrare tesi pregiudiziali33, né attualizzarla a forza, usando analogie anacronistiche34. Come ci ricorda Momigliano, lo storico è libero di porre alle fonti tutte le domande che vuole, ma non di predeterminare le risposte35.

Il suo non è però un ruolo meramente “notarile”. Non solo perché il coinvolgimento è una forte motivazione alla ricerca; ma anche perché egli riveste un ruolo sociale anche al di fuori dello stretto ambito disciplinare, come interprete del passato di una società e mediatore tra esso e il presente (compresi i rapporti di potere che li legano)36.

Se dalla teoria storiografica passiamo alla pratica dei musei storici la questione della neutralità si pone in maniera ancor più pressante, soprattutto in merito alla gestione del difficult heritage37.

Per entrare in un caso concreto può essere utile guardare alla Resistenza italiana 1943-1945, che, soprattutto dopo gli intensi dibattiti degli anni Novanta su “guerra civile”38 e “memoria divisa”39, ha assunto nella opinione pubblica nazionale un carattere fortemente conflittuale.

Anche i musei40 hanno avuto un ruolo importante nella costruzione della memoria pubblica della Resistenza41. In quelli più tradizionali, sorti nel corso del primo ventennio postbellico, prevale in effetti un modello manicheo, in cui la Resistenza rappresenta il bene indiscusso e i nazisti (più dei fascisti) il male assoluto. Si pensi rispettivamente al Museo Cervi e al Museo della Liberazione di via Tasso. Non dissimile è il panorama dei piccoli musei locali (e molto spesso localistici); ma anche di luoghi che pure hanno adottato scelte museologiche differenti e più attuali, come il parco tematico (Scuola di Pace di Montesole e Parco Nazionale di Sant’Anna di Stazzema) o l’ecomuseo (Colle del Lys).

Negli ultimi vent’anni, peraltro, di fronte alla conclamata “crisi dell’antifascismo”42, molti musei hanno scelto un approccio del tutto diverso. Alcuni, come il MuSa di Salò, hanno adottato uno schema esplicitamente giustappositivo, in cui la “scelta” dell’8 settembre si traduce in due percorsi diversi, ciascuno dei quali rappresenta il punto di vista degli attori contrapposti. Si pensi anche al MuMe di San Miniato e alla riproposizione delle due lapidi storiche sulla strage (anche se poi il percorso sceglie unilateralmente la tesi della responsabilità alleata). Altri, soprattutto quelli militari, come Montese, perseguono esplicitamente una problematica “memoria condivisa”. Ma non mancano anche tentazioni di rovescismo43, in cui lo schema bipolare è ripreso e ribaltato, tanto che l’unica memoria ammessa è ormai quella fascista. Si pensi al recente Museo del Ricordo di Adro.

Dopo il 2000 alle nuove scelte museografiche legate al multimediale (pionieristico il MaR di Fosdinovo) si sono accompagnati anche approcci interpretativi più complessi. In particolare il Museo diffuso della Resistenza di Torino sfrutta le potenzialità euristiche della storia locale e dell’attualizzazione. Anche in piccoli musei come quello di Dongo o di Montefiorino, riallestiti occasione del 70°, si coglie una prospettiva più articolata. Ci sono residui elementi di contrapposizione memoriale, ma c’è anche il tentativo di trovare cornici storiche più comprensive, pur restando chiara (ed esplicita) la scelta antifascista.

Nei nuovi allestimenti si nota lo sforzo di moltiplicare i punti di vista, distinguendo le diverse voci e forme della resistenza; e dando maggior spazio ai militari, agli alleati e alla popolazione civile (anche se manca ancora in Italia un museo dedicato specificamente alla resistenza civile). Quanto alla frattura tra fascismo e antifascismo, lungi dal negarla o diluirla, si cerca di mostrarne le origini, i caratteri, le implicazioni; rifiutando equiparazioni e simmetrie improprie e distinguendo tra il piano delle scelte individuali e quello delle culture politiche. In generale si cerca di affermare l’idea che il rigore storico non comporti necessariamente equidistanza o asetticità, quanto semmai onestà intellettuale e vigilanza critica.

Esigenza ancora più urgente nel momento in cui domina la prospettiva di Wikipedia, che nei suoi cinque pilastri include la neutralità44. E in un momento in cui in nome della loro supposta natura “divisiva” alcune amministrazioni pubbliche rifiutano di sostenere le pastasciutte antifasciste e persino i viaggi ad Auschwitz e le pietre d’inciampo45.

Certo la scelta di una linea interpretativa definita comporta il rischio di critiche; ma se motivata consente anche di innescare il dibattito, facendo in modo che le posizioni non si contrappongano sterilmente, né si annacquino in una indistinta “zona grigia”46, ma si confrontino, alimentando dinamiche di decostruzione e ricomposizione della memoria collettiva, che ne svelino anche la plasticità, mettendo in discussione gli essenzialismi identitari e le pregiudiziali ideologiche.

Il museo può diventare così un campo di negoziazione tra le diverse memorie, in cui gli storici e le altre professionalità impegnate possono mettere a disposizione le loro competenze specifiche ma anche confrontarsi con gli altri vettori di storicizzazione, in una pratica difficile ma feconda di public history, che non rifiuta un rapporto tra la storia e le memorie, ma mantiene ferme le opportune distinzioni e gerarchie47.


Note

1 La prima parte si deve a Paola E. Boccalatte, la seconda a Mirco Carrattieri. Nella foto di apertura: Torino, Polo del ‘900. “Rispetta l’esistenza o aspettati resistenza”. Mostra e conferenza a cura di Museo diffuso della Resistenza, Fridays for Future – Torino e Polo del ‘900. 14 settembre 2019.

2 https://archivaldecolonist.com.

3 Rispetto allo slogan “Museums are not neutral”, lanciato da La Tanya Autry e Mike Murawski è stato osservato come non favorisca il dialogo ma serva più che altro a marcare una posizione. Douglas Worts, Is There Another Way? – Reflection on Museums, Neutrality and Activism, blog Coalition of Museums for Climate Justice, 2 aprile 2018, online.

4 Il riferimento è a Nina Simon, The Art of Relevance, Museum 2.0, Santa Cruz 2016.

5 Worts, Is There Another Way?, cit.

6 Anabel Roque Rodríguez, The Myth of Museum Neutrality or Business over Education?, blog www.anabelroro.com.

7 Hakim Bishara, The Association of Art Museum Directors Calls on Museums to Provide Paid Internships, in “Hyperallergic”, 20 giugno 2019, online. Interessante a questo proposito l’esperienza del gruppo statunitense Museum Workers Speak o quella, italiana, di Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali.

8 Cos’è la giornata internazionale dei musei?, Icom Italia, 2017. www.icom-italia.org.

9 Lulu Anne Hansen, Flemming Just, Witch hunts, immigration and integration. New ‘difficult’ museums in the making, intervento alla conferenza Icom Nord-Europa Difficult Issues, Helsingborg, 21 settembre 2017. www.icom-helsingborg-2017.org.

10 David Fleming, Museums and Difficult Issues, canale Youtube Icom International Council of Museums.

11 Richard Sandell, On ethics, activism and human rights, in The Routledge Companion to Museum Ethics: Redefining ethics for the twenty first century museum, a cura di J. Marstine, London-New York 2011, p. 140 passim.

12 Emusla, The Falsity of Museum Neutrality, blog IWM London is Changing, 14 luglio 2016. Robert Janes usa l’espressione magical belief, pensiero magico, per indicare certe posizioni di autoassoluzione dei musei. Robert Janes, The end of neutrality: a modest manifesto, in “ILR. Informal Learning Review”, 135 novembre-dicembre 2015, p. 3.

13 Linda Norris, We Are Not Separate from Politics: AAM and Beyond, blog The Uncatalogued Museum, 4 maggio 2015, online.

14 Deniz Ünsal, Positioning museums politically for social justice, in “Museum Management and Curatorship”, 2019, 34, 6, pp. 595-607.

15 Maria Vlachou, A question of relevance, in “Story. Queensland Performing Arts Center Magazine”, 11 settembre 2017, online.

16 Seema Rao, Are Museums Neutral? Or Are They Neutered?, in “Medium”, 19 dicembre 2017, online.

17 Suay Aksoy, intervento alla conferenza annuale 2019 del Cimam (International Committee for Museums and Collections of Modern Art), dal titolo The 21st Century Art Museum: Is Context Everything?, Sidney, Museum of Contemporary Art Australia.

18 Cioè il confronto tra la storia intesa come «ciò che da ciascuno viene raccontato come l’ho sentito dire» e «ciò cui io fui presente e che ho saputo da altri investigandoli con la maggior esattezza possibile».

19 Luciano di Samosata, Come si deve scrivere la storia, Liguori, Napoli 2001.

20 Gian Paolo Romagnani, Storia della storiografia, Carocci, Roma 2019.

21 William Cunningham, L’imparzialità dello storico, in “Rivista di scienza”, 1907, 1: «Nessun dubbio che lo storico debba essere onesto e esporre pienamente e fedelmente anche i punti che parlano contro il suo proprio modo di vedere. Ma altro è voler essere onesto, altro il posare come imparziali. A me pare che la pretesa all’imparzialità da parte dello storico sia un non senso e che, in quanto essa abbia un significato, diventi facilmente una semplice affettazione atta a creare un ostacolo serio all’investigazione fruttuosa e alla critica intelligente».

22 Marc Bloch, Scritti sulla storia come scienza, Il Centro di Ricerca, Roma 2005.

23 Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce, Feltrinelli, Milano 2006 (ora 2019).

24 Gaetano Salvemini, Mussolini diplomatico, Laterza, Bari 1952 (ed. orig. francese è del 1932; nuova ed. Donzelli 2017), p. 5.

25 Delio Cantimori, Conversando di storia, Laterza, Bari, 1967.

26 Tommaso Detti, L’oggettività della storia: istruzioni per l’uso, dalla trasmissione svizzera “Oggi la storia”, 2012, www.rsi.ch.

27 Jacques Le Goff, Storia, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1982, p. 123 ss. (in partic. 1.2 Sapere e potere: obiettività e manipolazione del passato). La voce è stata ristampata anche in Id., Storia e memoria, Einaudi, Torino 1982.

28 Thomas Haskell, Objectivity is not neutrality, John Hopkins UP, Baltimore 1998, che riprende Id., Objectivity is not neutrality. Rhetoric versus practice in Novick’s That noble dream, in “History and Theory”, 1990, 2, pp. 129-157 (non a caso recensione al libro in cui Novick svela i limiti della pretesa oggettività della storiografia scientifica americana).

29 Judith Lichtenberg, In defence of objectivity revisited, in James Curran, Michael Gurevitch (a cura di), Mass media and society, Arnold, London 1996, pp. 225-242.

30 Alan Megill (a cura di), Rethinking Objectivity, Duke UP, Fordham 1994.

31 Antonio Gramsci, Indifferenti, in “La città futura”, 11 febbraio 1917. Vedi anche Id., Odio gli indifferenti, Chiarelettere, Milano 2011.

32 Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Mimesis, Udine 2014.

33 Sui rischi della “storia servile” vedi Johan Huizinga, La scienza storica, Res Gestae, Milano 2013, p. 102 ss.

34 Sul tema resta insuperato Marc Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino 2019 (ed. orig. 1949; I ed. it. 1950).

35 Arnaldo Momigliano, Le regole del gioco nello studio della storia antica (1974), in Storia e storiografia antica, Il Mulino, Bologna 1987, p. 18.

36 Tra le voci più recenti in questo senso segnalo Pierre Nora, Come si manipola la memoria. Lo storico, il potere, il passato, La Scuola, Brescia 2016; Serge Gruzinski, Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato in un mondo globalizzato, Raffaello Cortina, Milano 2016.

37 La definizione si deve a Sharon Macdonald, Difficult heritage: negotiating the Nazi past in Nuremberg and beyond, Routledge, London 2009. In una pubblicazione precedente la Macdonald aveva parlato di undesirable heritage (vedi “International Journal of Heritage Studies”, 2006, 1, pp. 9-28). Di recente ha poi evidenziato notevoli passi avanti nella elaborazione delle memorie difficili della seconda guerra mondiale in Europa (vedi Id., Is difficult heritage still difficult?, in “Museum International”, 2015, 67, pp. 6-22).

38 Il riferimento è ovviamente a Claudio Pavone, Una guerra civile, Bollati Boringhieri, Torino 1991.

39 L’espressione, che indica i conflitti memoriali determinati dalle stragi naziste, è di Giovanni Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997.

40 Per una mappatura vedi Memoraneawww.memoranea.it; e Paolo Pezzino, Paesaggi della memoria: resistenze e luoghi dell’antifascismo e della liberazione in Italia, ETS, Pisa 2018, con rimando alla rete www.paesaggidellamemoria.it.

41 Philip Cooke, L’eredità della Resistenza, Viella, Roma 2015 (ed. orig. 2011).

42 Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino 2004.

43 L’espressione si deve ad Angelo D’Orsi (Id., Dal revisionismo al rovescismo. La Resistenza (e la Costituzione) sotto attacco, in Angelo Del Boca (a cura di), La storia negata, Neri Pozza, Vicenza 2009, pp. 329-372.

44 https://it.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Cinque_pilastri.

45 Sofia Ventura, Ricordare le vittime del fascismo è diventato “divisivo”, in “L’Espresso”, 13 dicembre 2019.

46 L’espressione, tratta impropriamente da Primo Levi, è stata usata da Renzo De Felice per indicare l’indistinta maggioranza degli italiani né fascisti né antifascisti. Sul tema vedi Alberto Cavaglion, La Resistenza spiegata a mia figlia, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2005 (ora Feltrinelli, Milano 2015).

47 Michelangela Di Giacomo, Servono ancora i musei di storia?, in Paolo Bertella Farnetti, Lorenzo Bertucelli, Alfonso Botti (a cura di), Public History: discussioni e pratiche, Mimesis, Milano 2017, pp. 269-278.