Ζήτω η Ελλάδα (Viva la Grecia)!

La guida Routard «Atene e isole greche» ci informa che mangiare nei ristoranti dell’Ellade non costituirebbe “un’esperienza gastronomica”: le tovaglie di carta sui tavoli, le portate prive di un “ordine logico” e la pantagruelica abbondanza dei piatti sarebbero indice di preparazioni culinarie poco raffinate. Poco dopo aver letto questo commento, chi scrive ne ha potuto verificare l’assoluta stupidità nel magnifico ristorante To stolídi tis Psinthu nella piazza di un piccolo villaggio –  Psinthos appunto – sulle colline di Rodi vicino a una famosa valle strapiena di farfalle colorate e davanti a uno straordinario kléftiko, letteralmente «piatto dei briganti”.

Non è la specialità greca più nota, ma è in tutto e per tutto la dionisiaca antitesi della scialba e per nulla apollinea cucina cartesiana (entrée, piatto, dessert) amata dal diffuso vademecum per turisti di cui sopra. Si tratta di uno spezzatino di agnello con olio, aglio, spezie varie tra cui l’origano, formaggio e, volendo, peperoni, il tutto cotto dentro un cartoccio di carta da forno oppure alluminio. Il nome deriva dal fatto che i leggendari kléftes, che erano sì dei briganti, ma anche dei patrioti ostili alla dominazione turca, dovevano cucinare di nascosto senza lasciare tracce di fumo e cenere e gettavano i pochi e semplici ingredienti che trovavano in buche nel terreno coperte da foglie e rami dove li lasciavano stufare a lungo mentre compivano le loro razzie. La cucina locale offre vari di questi piatti generosi che ritrovate ovunque dal confine macedone a Creta e dallo Ionio alle coste anatoliche. Molti conoscono probabilmente IL mussakà (per piacere non dite LA, in greco “o μουσακάς” è maschile) una successione di strati di besciamella, melanzane fritte, kimà – ragù locale al sapore di cannella – e patate a fette sottili. Provate anche il moschári kokkinistò, carne di manzo ricoperta da una salsa di pomodoro e vino rosso intrisa d’aglio, cipolla, cannella e pepe garofanato, o ancora il sofrito la cui penuria di consonanti – pur abituale in una lingua che non conosce le doppie – deriva forse dall’essere in origine un piatto di Corfù dove i Veneziani con la loro pronuncia rimasero fino all’arrivo di Napoleone: anche qui carne di manzo servita con una salsa di aceto, farina e vino bianco, aglio e prezzemolo. Senza la pretesa di esaurire il vasto repertorio culinario greco indichiamo ancora due delizie: lo stifádo, spezzatino in salsa con cipolline dolci e gli iemistà, verdure ripiene di riso e spezie.

Si potrebbe continuare a lungo, ma, per non trasformare questo modesto contributo nella riproposizione di un menù di ristorante e al fine di dare un’idea più completa della cucina greca, due considerazioni si impongono. La prima e più sorprendente è che la Grecia, paese di innumerevoli isole e di terre lambite dal mare da ogni lato, offre poco se non pochissimo pesce. Troverete lo chtapodi, il polipo cotto nel vino, ma non molto altro. Non ci si deve, perciò, far ingannare dalle numerose e care Psarotavernes (taverne di pesce) che si incontrano nei luoghi turistici: la cucina ellenica tradizionale privilegia senza ombra di dubbio la carne, servita nelle ricette appena descritte o anche solo allo spiedo e alla griglia come il famoso spiedino souvlaki o il gyros. Il sottoscritto può testimoniarvi di aver visto perfino a due passi dal mare, da Corfù a Tasos, lunghe file di capre e agnelli infilzati in spiedi rotanti. Il vegetariano non è per questo necessariamente discriminato, perché alternative gustose a base di verdure e latticini sono a disposizione di tutti a partire dall’insalata choriátiki e cioè paesana (la greek salad tanto imitata e bistrattata) con il formaggio feta continuando con le varie pite o focacce con formaggio o spinaci.

Secondo fondamentale principio da tenere a mente è che la Grecia si trova in oriente e che una parte imprescindibile delle sue specialità è costituita dai mezédes che sono in buona parte i mezzé del Levante turco e arabo. Si tratta di vari squisiti antipasti serviti in tanti piattini e li si mangia di solito con il pane o la pita. Lo tzatziki è una gustosissima salsa di yoghurt, cetrioli e aglio, la melitzanosalata, una salsa alle melanzane e i dolmadakia, foglie di vite arrotolate e ripiene di riso, per citare solo qualche esempio.

Proprio a Psinthos, per tornare da dove eravamo partiti, nel maggio del 1912 le truppe del generale Ameglio sconfissero definitivamente la poco motivata guarnigione turca e si impadronirono del Dodecaneso, nel quadro della guerra per il possesso della Libia. Tracce della presenza italiana si trovano oggi in molti luoghi dell’isola e testimoniano di un episodio interessante e nel complesso poco conosciuto della storia del nostro paese.

Nel 1922, giunse a Rodi come governatore il diplomatico piemontese Mario Lago con la moglie Ottavia e l’ambizioso piano di fare dell’isola la vetrina della civiltà italiana in oriente investendo enormi capitali nella modernizzazione delle infrastrutture e dell’agricoltura: capita ancora oggi di sentir dire dai locali «I Italí éftiaxan tus drómus”, gli Italiani hanno costruito le strade. Lago, incoraggiato dal governo centrale edificò anche molto altro a partire dalle prime imponenti strutture turistiche: il Grande Albergo delle Rose a Rodi città e addirittura un hotel in stile alpino nei boschi del monte Profitis Ilias, L’albergo del cervo che conserva immutato l’arredo e il fascino originari. La zona detta del Mandraki, in italiano Mandracchio – posta sul porto a lato del magnifico centro storico cinto dalle possenti mura dei Cavalieri ospitalieri – divenne il nuovo quartiere moderno e dirigenziale dell’isola concepito da celebri architetti come Florestano Di Fausto e Michele Platania. Il loro eclettismo produsse il Foro Italico costituito dalla neogotica Cattedrale cattolica, dai neorinascimentali palazzo di giustizia e delle poste e dal palazzo del governatore costruito sul modello del Palazzo ducale di Venezia per sottolineare che l’Italia si riconosceva come erede dei domini nell’Egeo della grande repubblica marinara. Lago fu abile nel gestire i rapporti con la maggioritaria comunità greca e le minoranze turco-musulmana ed ebraica: per quest’ultima fu creato addirittura un collegio rabbinico che doveva aiutare la penetrazione italiana nelle comunità ebraiche del Levante. Tutto bene dunque? No, perché si trattava pur sempre di un dominio coloniale e per giunta in piena epoca fascista: l’obiettivo di Lago restava l’italianizzazione di Rodi e del Dodecaneso e difatti migliaia di coloni vennero spediti dalla madrepatria come funzionari e contadini dell’Herrenvolk a occupare le terre dei locali. Oggi, vicino a uno di questi insediamenti agricoli di cui restano alcune costruzioni razionaliste, nella località di Kolympia, trovate l’ottima Taverna Tsambikos dove sono così gentili che a fine pasto vi offrono il dolce e vi regalano anche un vasetto.

Ad ogni modo, nel 1936 Lago fu sostituito dal baffuto quadrumvriro della marcia su Roma Cesare Maria De Vecchi che inaugurò fin da principio uno stile molto più autoritario suscitando l’insofferenza di Galeazzo Ciano e – pare – dello stesso Mussolini. Il programma di costruzioni continuò con il restauro del palazzo dei Gran Maestri e il pregevole Teatro Puccini in città o con nuovi centri come il villaggio di Campochiaro, oggi spettrale (chi scrive l’ha proposto come location a Dario Argento), eretto per dei boscaioli trentini. La lingua greca, però, sparì da tutte le scuole sostituita brutalmente dall’italiano, la chiesa cattolica fu utilizzata come instrumentum regni a danno degli ortodossi e agli ebrei vennero applicate con zelo le leggi razziali, facilitando così il loro successivo annientamento ad opera dei tedeschi.

Mario Cervi traccia un ritratto ridicolo e sconsolante di De Vecchi nella sua Storia della guerra di Grecia: fu proprio lui, tra l’altro, a dare inizio alle ostilità con i Greci già nell’agosto del 1940 facendo silurare l’incrociatore ellenico “Elli” da uno dei suoi sottomarini. Chi volesse saperne di più su queste vicende può attingere a “Una faccia, una razza”. Le colonie italiane nell’Egeo di N. Doumanis (Il Mulino 2003) e a Nelle isole del sole. Gli Italiani nel Dodecaneso dall’occupazione al rimpatrio (1912-1947) di A. Villa (Edizioni Seb27, 2016), ma consiglio vivamente anche la bella Guida del TCI del 1929, Possedimenti e colonie. A sentir parlare i Rodioti viene il sospetto che una certa idealizzazione del passato coloniale italiano nasca dalle difficoltà in cui versa oggi il loro paese. Possiamo consigliar loro senz’altro di non rimpiangere proprio nulla e di andar fieri di quanto hanno di buono a partire – perché no? – proprio dalla loro gustosa cucina che non deve temere giudizi sciocchi e superficiali.