Percorsi musicali negli anni Settanta

La complessità dei fenomeni storici difficilmente si lascia comprimere in rigide cronologie. Questo è ancora più vero se a essere osservati sono i fenomeni musicali nel loro rapporto con le giovani generazioni. Nel caso specifico degli anni Settanta, da un lato in questo decennio vengono a maturazione processi iniziati alla fine degli anni Cinquanta e proseguiti per tutti gli anni Sessanta; dall’altro lato, il punto di svolta non è alla fine del decennio, ma si colloca sostanzialmente attorno al 1977. Le ragioni di questa periodizzazione più estesa, rispetto al periodo oggetto di questo contributo, sono riconducibili al fatto che sul finire degli anni Cinquanta si determina un incontro tra giovani e politica che, per la sua durata, non ha confronti con altri paesi occidentali e che si esprime in larga parte attraverso il consumo e la pratica della musica. Dal 1977 questo rapporto entra in crisi e inizia a prevalere un utilizzo della musica legato più alla dimensione privata1.

 

Fare storia con le canzoni

Il ‘mestiere dello storico’ ha subìto e vissuto in questi ultimi decenni diversi mutamenti e, se possibile, assistiamo ora ad una ulteriore accelerazione con l’introduzione nel nostro paese delle pratiche specifiche della Public History2. In particolare, oggi lo storico si trova a dover maneggiare una massa enorme di fonti e materiali a disposizione, molto diversi anche come tipologia, e deve dialogare non più e non solo con un pubblico specialistico, ma rivolgendosi a pubblici diversi, in un mercato della storia in grado di offrire prodotti più accattivanti di quelli proposti dagli storici professionisti.

Il rapporto tra lo storico e le canzoni è in molti casi ancora problematico, perché per lungo tempo la canzone non è stata trattata come fonte storica avente pari dignità delle altre e, qualche volta, la citazione di una canzone era inserita più per dare ‘colore’ alla narrazione piuttosto che come documento utile a gettare luce su un determinato contesto.

Questa difficoltà nel trattare la canzone come fonte storico-sociale è dovuta ad alcune ragioni. La prima è in che modo riuscire a trattare con gli strumenti dello storico – che utilizza prevalentemente il linguaggio della scrittura, anche se oggi sono possibili testi multimediali – un oggetto complesso come la canzone, fatto di testo, musica, interpretazione, tipo di supporto musicale, contesto di utilizzo. In effetti, le parole di una canzone sono scritte per essere cantate, non per essere lette, e di una canzone conta molto come viene interpretata e come viene percepita, non come è scritta. Leggere il testo di una canzone o ascoltarla possono risultare operazioni molto diverse, anche se le parole sono le stesse3.

La seconda è che la canzone è un oggetto che mette in discussione molto più di altri il rapporto tra lo storico e la sua fonte. La canzone agisce in profondità nella costruzione delle identità individuali e collettive e, quindi, può esercitare un’influenza anche nella dimensione emotiva dello storico che la deve utilizzare. Non si tratta quindi di una fonte ‘neutra’ o asettica come può esserlo un verbale di una riunione o una relazione prefettizia. Essa richiama sentimenti e passioni collettive di intere generazioni o i contesti sociali in cui si è diffusa, ma anche emozioni, ricordi personali dello storico che ha attraversato quei contesti e quei fenomeni. È dunque una fonte che può interferire sulla distanza professionale dall’oggetto di studio.

Infine, una terza ragione deriva dal fatto che sono tuttora presenti pregiudizi nei confronti della musica popular e in particolare verso la “forma” canzone, non ritenuta alla pari di altre espressioni artistiche, come letteratura, poesia o cinema. Come è stato ricordato, questo ha impedito per lungo tempo che su di esse si potesse aprire un «dibattito teorico approfondito che non [fosse] demagogico o gerarchicamente discriminatorio»4, che non sottovalutasse, insomma, il ruolo che queste canzoni hanno avuto in tanti processi di lungo e breve periodo e nella stessa storia individuale delle persone.

Certo, non sono mancate eccezioni né studi specifici, ma è indubbio che solo in questi ultimi anni si siano compiuti notevoli passi avanti da parte degli storici nel comprendere l’importanza della musica nei processi sociali e nella costruzione degli immaginari simbolici. Al pari, vi è ora, anche da parte di musicologi, antropologi, sociologi e semiologi una maggiore attenzione alla dimensione storica nella quale inserire le riflessioni sulla musica5.

Si può considerare acquisita la consapevolezza che la musica sia un complemento necessario al lavoro dello storico, per il ruolo rilevante che essa riveste nella vita delle persone, per la capacità di influenzare le identità individuali e collettive nella costruzione di universi simbolici sociali e generazionali. In particolare, questo vale per le canzoni, «perché le canzoni, certe canzoni, hanno molto a che fare con la storia: la disegnano, ne traggono ispirazione, la ricostruiscono e la comunicano traducendola nel presente»6.

 

Cosa vuoi che sia una canzone…

Un approccio utile per leggere le canzoni è quello offerto da Marco Peroni nel suo volume Il nostro concerto del 2005. Peroni ha evidenziato tre aspetti fondamentali delle canzoni – che possono raccontare una storia, agire nella storia, diventare documento storico –, da non intendere come separati o alternativi tra loro, perché si possono ritrovare tutti nella stessa canzone. Un esempio emblematico è Stalingrado degli Stormy six: uscita nel 1975 nell’album Un biglietto del tram (interamente dedicato alla Resistenza), la canzone narra della battaglia di Stalingrado del 1943, ma è diventata al contempo un inno dei movimenti rivoluzionari nella seconda metà degli anni Settanta7. Se quindi da un lato essa racconta una storia, dall’altro ha agito nella storia; in quanto canzone simbolo/icona della stagione dei movimenti, infine, è diventata documento utile alla ricostruzione storica di quel periodo.

Allargando lo sguardo, ci si accorge dunque che esistono canzoni capaci di offrire un’interpretazione del presente, come nel caso di Per i morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei, scritta nel 1960 in uno dei momenti di massima tensione nel nostro paese. Altre invece possono anche riportare il passato nel presente, come accade per le canzoni partigiane riproposte da artisti o band in diversi momenti storici. Altre ancora possono infine produrre senso comune storico e formare o consolidare opinioni sulla storia. Una potenzialità che non riguarda solo le canzoni che, più o meno esplicitamente, si propongono di incidere nello spazio pubblico o collettivo, bensì tutte quelle canzoni popular che intervengono nella sfera privata delle persone, producendo nuove consapevolezze morali ed etiche.

Canzoni apparentemente banali possono dire molto sui processi di cambiamento dei costumi e della mentalità collettiva di una società o di significativi segmenti di essa. E, comunque, anche le canzoni d’amore o di vita quotidiana producono processi di rispecchiamento o di identificazione, fissandosi con forza nel vissuto delle persone8. In conclusione, non solo le canzoni esplicitamente politiche e sociali sono utili per ricostruire una storia. Anche nelle canzoni cosiddette ‘leggere’ possono comparire riferimenti storici impliciti che restituiscono un particolare clima sociale e culturale e trasmettono messaggi collegati al contesto storico.

Sono dunque numerosi gli elementi da prendere in considerazione nel momento in cui si lavora su una canzone: la sua capacità di agire nel tempo e di parlare a generazioni successive, attraverso usi attivi di individui e di collettività (canzoni cantate tra amici in occasioni di momenti ludici, nei cortei e nelle manifestazioni collettive); la presenza di elementi non intenzionali, perché il destino di una canzone può essere diverso da quello per cui è stata prodotta; la sua ricezione, l’impatto che ha avuto sull’opinione pubblica e nella società e da cosa questo è stato determinato; quali elementi di conoscenza offre su temi che i documenti ufficiali ci restituiscono in modo parziale o formale, come nel caso della storia della cultura, dei sentimenti, delle identità delle giovani generazioni.

 

Le premesse: gli anni Cinquanta

I giovani dell’immediato secondo dopoguerra non hanno consapevolezza generazionale. La loro educazione e formazione si sviluppa in senso verticale, all’interno della famiglia, ed è connotata da un forte legame con le tradizioni. Sono in sostanza degli “apprendisti adulti”, che ascoltano le stesse musiche dei padri o delle madri, vanno a ballare negli stessi luoghi, leggono gli stessi giornali, vedono gli stessi film9. E sono immersi in una cultura moderata di massa che avvolge il paese per tutti gli anni Quaranta e buona parte degli anni Cinquanta, che in ambito musicale è ben rappresentata dal festival di Sanremo, inaugurato nel 1951: autori come Nilla Pizzi e Claudio Villa propongono melodie rassicuranti, rappresentative di un’Italia arcaica e rurale, in perfetta continuità con la canzone di evasione degli anni Trenta10.

Solo in ambienti ristretti, intellettuali, matura un’attenzione al folk e alla canzone francese, che esercita una influenza importante sui primi cantautori in virtù dell’interesse verso il quotidiano dei disperati e degli ultimi. Esperienze come il teatro di Brecht e la musica di Kurt Weill in Germania stimolano invece la nascita del Cantacronache, nel 1957 a Torino. Del gruppo fanno parte musicisti, scrittori e poeti quali Fausto Amodei, Michele Straniero, Italo Calvino, Franco Fortini e Umberto Eco, che si propongono di produrre canzoni legate alla realtà sociale11.

Si tratta di un caso raro, che è tuttavia prodromico di ciò che avviene proprio tra la metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, con l’arrivo del rock’n’roll dagli Stati Uniti, l’esplosione dell’industria discografica dopo l’introduzione del 45 giri, la diffusione dei juke box e la nascita del Festivalbar. Contemporaneamente arrivano anche le radio e i giradischi portatili, grazie a cui non si deve più andare in una balera per ballare o ascoltare musica, ma lo si può fare direttamente con gli amici a casa. Nel 1965 appaiono anche le prime musicassette. Numeri consistenti di giovani cominciano a percepirsi come tali, entrano in conflitto con le generazioni precedenti e cominciano ad esprimere, anche tramite la musica, la loro distanza dal mondo degli adulti. La vendita di dischi passa da 3 milioni nel 1951 a 17 milioni nel 1958 e, per la prima volta, l’industria discografica offre un repertorio presentato come “musica giovanile”.

Dalla seconda metà degli anni Cinquanta la società italiana è investita da profondi cambiamenti: prendono avvio i processi di trasformazione economica che caratterizzano il Miracolo economico, l’urbanizzazione e l’emigrazione interna, con la conseguente nascita della società dei consumi di massa. Si mette in moto anche un profondo rinnovamento della Chiesa innescato dal Concilio Vaticano II e dalla figura fortemente simbolica di Papa Giovanni XXIII.

Persino il Festival di Sanremo non può che registrare questi processi: è del 1958 la vittoria di Domenico Modugno con Nel blu dipinto di blu, canzone simbolo del desiderio di cambiamento e dell’incipiente boom economico. Interessante sottolineare come l’innovazione sia rintracciabile anche nella sua interpretazione: dopo anni di cantanti che eseguivano le canzoni con le braccia ferme lungo i fianchi o con la mano sul cuore, il fatto che Modugno apra le braccia costituisce per quei tempi un fatto dirompente.

 

Gli anni Sessanta

L’anno di svolta è il 1960. In luglio i durissimi scontri di piazza contro il governo Tambroni e il tentativo di svolgere a Genova il congresso del Movimento sociale culminano nell’uccisione di cinque lavoratori il 7 luglio a Reggio Emilia. Il giorno dopo, durante lo sciopero generale, altri quattro muoiono in Sicilia. Le dimissioni del presidente del consiglio aprono la strada alla stagione dei governi di centro-sinistra e dunque si tratta di eventi periodizzanti di un cambiamento politico significativo. Quello che interessa è il fatto che nel corso di questi scontri appare un nuovo soggetto collettivo, i giovani dalle ‘magliette a strisce’, che diventano protagonisti di un nuovo antifascismo, dopo la fine della guerra e l’esperienza resistenziale.

Un altro aspetto fondamentale che accelera la modernizzazione della società italiana è la scolarizzazione di massa, che porta nel corso del decennio a definire la condizione giovanile prevalentemente come condizione studentesca. Grazie a questi processi, segmenti sempre più ampi di giovani vivono insieme, sviluppano gusti e atteggiamenti comuni, si confrontano più con i loro coetanei che con la famiglia.

Soprattutto nella seconda metà degli anni Sessanta anche l’Italia è investita da nuovi fenomeni musicali e di costume. Nasce il Beat, che sull’onda di gruppi come i Beatles o i Rolling Stones stimola in Italia la nascita di migliaia di gruppi che si dedicano a realizzare cover delle loro canzoni e di altri cantanti. Il Beat si trasforma rapidamente da fenomeno musicale a modo nuovo di autorappresentarsi da parte dei giovani. In tutta Italia nascono locali sul modello del Piper, dove si balla lo shake, il ballo beat, che preoccupa autorità e Chiesa perché carico di erotismo e non più di coppia.

Anche se molte di queste canzoni possono apparire banali, prive di contenuti – soprattutto se paragonate a quelle di alcuni cantautori degli anni Settanta – in realtà alcune di queste riescono comunque a esprimere un sufficiente grado di coscienza sociale, necessario per interpretare al meglio il conflitto e l’antagonismo generazionale presente in molte famiglie italiane in quel momento. Rappresentativo, ad esempio, è il primo successo dei Nomadi, la canzone Come potete giudicar, nel 1966.

Accanto a questi fenomeni musicali arrivano anche mode e modelli di vita alternativi, con la comparsa del movimento hippie e dei capelloni, che spesso la polizia allontana dalle città con fogli di via. Un movimento che ha come elementi caratteristici il vestire in modo trasandato, il portare i capelli lunghi, l’esprimere una spiritualità mistica, l’usare le droghe come forma di allargamento delle coscienze, il rigetto di ogni ideologia, la pratica della non violenza e il rifiuto del consumismo.

La capitale di questa controcultura è Milano, dove centinaia di giovani capelloni organizzano manifestazioni e proteste non violente sui temi dell’antimilitarismo, del pacifismo e dei diritti civili. Questa esperienza si conclude nel luglio 1967 con lo sgombero del campeggio di via Ripamonti, soprannominato Barbonia city dal “Corriere della Sera”, per poi confluire nella radicale politicizzazione della protesta studentesca a partire dal ’68. Da questa esperienza prendono corpo i viaggi verso Oriente e la nascita delle comuni hippie.

Dagli Stati Uniti arriva anche il folk-beat, la canzone di protesta americana con personaggi come Bob Dylan e Joan Baez, che trovano interpreti italiani in cantautori come Francesco Guccini e altri. Canzoni come Masters of war e Blowin’ in the wind iniziano a essere cantate anche in Italia. Si apre l’epoca dei raduni di massa, come Woodstock, e nelle canzoni si inizia a parlare di protesta, rivoluzione, nonviolenza, con una centralità sempre più forte del Vietnam, teatro di una guerra che suscita solidarietà, soprattutto dopo l’intervento diretto degli americani nel conflitto nel 1965. A questo proposito, il caso più celebre è probabilmente la canzone di Gianni Morandi C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones.

Tornando ai primi anni Settanta, va ricordato che nel 1962 nasce a Milano la rivista “Nuovo canzoniere italiano”, e attorno a essa un nuovo gruppo musicale molto attivo, con centinaia di concerti in tutta Italia. Una realtà che serve da esempio per la nascita, sul finire del decennio, di diversi canzonieri politici. Contestualmente viene fondata una casa discografica militante, “I dischi del sole”, che fino alla fine degli anni Settanta pubblica canzonieri popolari e album della canzone impegnata. Tutto questo si inserisce in un quadro di riscoperta e di recupero delle tradizioni folcloriche, dei canti di lotta e di lavoro, che vede attive altre realtà nazionali come l’Istituto Ernesto De Martino o le Edizioni Avanti!, oltre a realtà locali come il Gruppo Padano di Piadena, nato nel 1962 proprio allo scopo di recuperare le tradizioni popolari locali12.

Sul finire del decennio assume sempre maggiore importanza il messaggio contenuto nelle canzoni, aspetto che causa un confronto anche duro tra cantanti e gruppi musicali. È l’epoca della contrapposizione tra la linea gialla, la linea verde e la linea rossa. La linea gialla è quella della canzone disimpegnata o qualunquista, quand’anche non di critica all’esperienza beat, come alcune canzoni di Adriano Celentano; la linea verde, nata su idea di Mogol (il celebre paroliere di Battisti) raggruppa invece quei cantanti che propongono canzoni non solo d’amore ma vagamente di protesta, su tematiche generiche largamente condivise, come l’ecologia e la libertà. La linea rossa è quella appunto rappresentata dai cantanti del Nuovo canzoniere italiano, vicini ai partiti socialista e comunista, che propongono canzoni più impegnate sul piano dei contenuti.

 

Il Sessantotto: il vento della rivoluzione

Anche in Italia si registra l’esplosione delle lotte studentesche del ’68, che si alimentano di quanto accade nelle Università americane e francesi ma che assumono, nel contesto nazionale, tratti originali di protesta forte e dilagante verso una scuola inadeguata per strutture e metodi di insegnamento all’aumento della popolazione studentesca, dovuto negli anni Sessanta alla crescita demografica derivante dal boom economico. Non a caso, le proteste di quegli anni superano i confini delle Università e si estendono anche alle scuole medie superiori, soprattutto nelle città di provincia.

Una scuola accusata di essere autoritaria e di classe (pensiamo solo al successo di Lettera a una professoressa di don Milani, del 1967), che è già attraversata da diversi elementi di tensione, come ad esempio le aggressioni fasciste all’Università di Roma nel 1966, che si concludono con la morte dello studente socialista Paolo Rossi; o come la vicenda del Liceo Parini di Milano, sempre nel 1967, che vede protagonisti i redattori del giornalino della scuola “La zanzara”, denunciati e processati con l’accusa di pubblicazione oscena per aver divulgato un’inchiesta su sessualità e amore tra le studentesse. Non è comunque un caso isolato: altri interventi repressivi sono segnalati nei confronti anche di altri giornali studenteschi.

Da questo momento i giovani non si limitano più a protestare tramite l’abbigliamento o le canzoni, ma contestano concretamente le istituzioni, occupando scuole e università e collegandosi alle lotte operaie. È un fenomeno che coinvolge giovani consapevoli dei pericoli della guerra atomica, dei drammi vissuti nella Seconda guerra mondiale – finalmente, con il processo Eichmann del 1961, si è cominciato a parlare pubblicamente della Shoah – e della dimensione planetaria dei diritti: questi sono tra i motivi che spiegano perché vi sia grande attenzione a quanto avviene nel Vietnam, o nei paesi che stanno lottando per la loro indipendenza nel terzo mondo, conseguenza della decolonizzazione spesso connotata da sanguinosi conflitti fra popoli colonizzati e paesi europei dominatori.

Ciò che è importante sottolineare è che per la prima volta un movimento di protesta collettivo del Novecento adotta il linguaggio musicale come elemento fondamentale della protesta, come parte integrante della lotta che viene condotta13. In questa occasione si scopre la dimensione collettiva dell’ascolto della musica, lo stare insieme come esperienza politica e il piacere di nuove sensazioni anche sonore, vissute come occasione per nuove forme di aggregazione. Le canzoni si diffondono grazie a migliaia di giovani che iniziano a cantare, processo favorito anche dal fatto che sono messe in vendita chitarre a prezzi popolari, accessibili a tutti.

In questo contesto conquista spazio anche la canzone impegnata, grazie ai cantanti aggregati al Nuovo canzoniere italiano (come Ivan Della Mea), e altri che emergono attraverso la nascita di numerosi Canzonieri, come il Canzoniere pisano, il Canzoniere popolare veneto, il Canzoniere delle Lame, il Gruppo folk internazionale, il Canzoniere internazionale, il Contemporaneo, che iniziano ad attraversare l’Italia e l’Europa portando le loro canzoni politiche nelle manifestazioni, nei picchetti davanti alle fabbriche, nelle occupazioni delle scuole e delle università.

I canzonieri politici alimentano la rilettura del folk in chiave antagonista e contribuiscono ad ampliare quella fascia di pubblico giovanile sempre più attratto dalle musiche alternative al mainstream sanremese, messo ormai in grande crisi dall’ondata di nuovi generi musicali che arrivano da oltre oceano e dalla Gran Bretagna. Sono numerose le canzoni ‘militanti’ che in questo periodo registrano un successo notevole, da O cara moglie di Ivan Della Mea a Le basi americane di Rudi Assuntino o Nina di Gualtiero Bertelli, per arrivare a quella che è considerata l’inno del ’68, Contessa di Paolo Pietrangeli. Cambia anche la modalità di diffondere queste canzoni, perché la loro vendita non avviene tramite i canali commerciali, ma direttamente nel corso degli spettacoli.

In questo periodo debutta Francesco Guccini e ha un grande seguito Fabrizio De André. Il primo, autore di canzoni portate al successo da Nomadi ed Equipe 84, come Auschwitz e Dio è morto, dedica a questi anni la canzone Eskimo, pubblicata nel 1978. Il secondo consacra a questa stagione un intero album, Storia di un impiegato del 1973, nel quale emerge tra le altre la Canzone del maggio, chiaro omaggio al movimento giovanile del ’68.

 

Musica e politica negli anni Settanta

Tutte le pulsioni di cambiamento sociale e politico maturate nel biennio 1968-69 devono però fare i conti con la strategia della tensione inaugurata dalla strage di Piazza Fontana a Milano nel dicembre 1969, che vede apparati dello Stato e del neofascismo impegnati a contrastare, con la violenza stragista, l’avanzata delle sinistre e i forti cambiamenti che stanno avvenendo sul piano delle relazioni sindacali e dei diritti civili.

Dai primi anni Settanta comincia a manifestarsi un antifascismo militante che si alimenta di una quotidianità fatta di scontri fisici con i fascisti e la polizia, di conflitti generazionali e familiari, nei quali la musica diventa una delle forme principali di educazione politica e i concerti momenti di militanza. Il centro della scena viene occupato da una generazione fortemente politicizzata, orientata a sinistra, che ha come obiettivo la trasformazione radicale della società. Una generazione che è minoranza, ma che è molto attiva e può agire in un contesto favorevole di radicalizzazione e di conflitto permanente.

Nonostante l’indubbia e rapida politicizzazione dei movimenti giovanili, continua però ad esistere un’area underground che dà voce a un mondo di protesta libertaria, situazionista, trasgressiva e meno ideologizzata rispetto a quella della sinistra extraparlamentare. Più vicina alle lotte del Partito radicale per l’attenzione prestata alle carceri, ai fenomeni delle tossicodipendenze, dell’omosessualità, alle istanze dei movimenti femministi e pro-aborto.

Quest’area, che fa riferimento alla rivista “Re nudo”, è promotrice dell’esperienza dei raduni pop che dal 1974 prendono il nome di feste del proletariato giovanile. Il primo si tiene nel 1971 a Ballabio, il secondo nel 1972 a Zerbio. Sono raduni prepolitici, si ascolta musica, si consumano droghe leggere, si fa meditazione zen, si pratica il nudismo. Dal 1974, e nei due anni successivi, le feste si tengono al Parco Lambro di Milano, ma nel 1976 questa vicenda si conclude a causa degli scontri che avvengono sia tra le diverse anime del movimento che con la polizia14.

La cultura popolare diventa un elemento portante della battaglia politica dei movimenti della sinistra extraparlamentare e i dischi militanti e i canzonieri politici diventano parte integrante degli strumenti di propaganda e di proselitismo dei movimenti giovanili e della nuova sinistra. Sono i casi, ad esempio, della Lega del Vento rosso, del Canzoniere di Lotta continua, della Commissione artistica del Movimento studentesco di Milano. Proprio in quest’ultimo caso, i complessi del Movimento si chiamano Squadre di propaganda e le canzoni proposte sono discusse negli organi dirigenti e presentate come lezioni canore a sfondo politico che, non a caso, seguono lo stesso ordine dei documenti politici di queste organizzazioni.

In questo modo si mette in discussione l’autonomia della musica e la sua libertà creativa, sacrificando la possibilità di sviluppare percorsi musicali nuovi e capaci di dialogare con pubblici più vasti ad una malintesa semplicità di esecuzione, ritenuta l’unica via per allargare il consenso. E tutto si concentra sulle parole, sul messaggio, così che queste canzoni non riescono a uscire dai circoli ristretti delle organizzazioni che le promuovono. Solo chi si allontana da queste impostazioni riesce a esprimere qualcosa di nuovo, come Pierangelo Bertoli e soprattutto gli Stormy six.

Questo vale anche per le canzoni proposte dai canzonieri meno legati alle organizzazioni extraparlamentari e per quelli del Nuovo canzoniere italiano. Si sovrappongono diversi elementi che, combinati tra loro, determinano una progressiva polarizzazione tra la canzone politica, che vive – tranne poche eccezioni – entro circuiti limitati e di nicchia, e un gusto popolare diffuso che privilegia le canzoni d’amore e disimpegnate. In particolare, il rifiuto della popular music in quanto espressione del capitalismo e prodotto culturale ‘basso’, unito al dogma della purezza stilistica e della non-contaminazione, segneranno il progressivo declino della canzone sociale e politica nel corso degli anni Settanta.

Analizzando i movimenti nella prima metà degli anni Settanta, si rimane stupiti di quante poche canzoni coeve siano capaci di uscire da un circuito ristretto per diventare patrimonio diffuso. Forse si può dire nessuna, eccezion fatta per quelle ritenute emblematiche di una tradizione come potevano esserlo Per i morti di Reggio Emilia o Contessa. Ad essere riconosciute come simbolo sono canzoni che provengono dall’esterno dei circuiti strettamente militanti, come La locomotiva di Francesco Guccini, La canzone del maggio di Fabrizio De André, persino Stalingrado degli Stormy six, anche se accusata di “formalismo” da parte del movimento.

 

Intanto, nelle feste dell’Unità…

Prendendo in considerazione la politica culturale del Partito comunista, appare evidente la contraddizione tra l’attenzione prestata ad arte, letteratura, scienza, comprovata anche dal rapporto privilegiato con intellettuali di tradizione umanistica, e lo snobismo di fondo esibito verso la popular music, nel quadro di una condanna della cultura di massa vista come cedimento all’edonismo americano, contrario alle politiche di austerità introdotte dopo la crisi petrolifera del 1973. Così facendo, si allarga il solco tra l’affermazione della cultura di massa e il sapere umanistico, destinato a diventare sempre più minoritario e marginale.

Il risultato di questa politica culturale contraddittoria è un opportunismo strumentale per il quale, da un lato, si valorizza la musica colta, elitaria che spesso è vissuta – ad esempio nelle feste dell’unità – come un rito obbligato da parte di persone che coltivano gusti musicali diversi, e dall’altro si ingaggiano cantanti e gruppi popular per la loro capacità di coinvolgere giovani che, in questo modo, possono essere avvicinati al partito15.

In realtà, se si analizza ciò che accade durante le feste organizzate nelle aree di più forte insediamento comunista, come Emilia-Romagna e Toscana, si scopre che queste sono impermeabili in buona parte a musiche ‘ribelli’. Risultano molto illuminanti a questo proposito le memorie di Giovanna Marini in Italia quanto sei lunga16: la proposta di canzoni politiche determina tensioni tra nuclei di giovani e anziani e, in generale, in queste aree sono apprezzati cantanti come Gianni Morandi, del quale si esalta l’appartenenza comunista, e cantanti che appartengono alla tradizione melodica, per tacere della centralità e del gradimento dilagante fatti registrare dalle orchestre che propongono il ballo liscio17.

In sostanza in questi anni si accentua una sorta di schizofrenia tra le musiche scelte come colonna sonora della militanza politica e quelle amate nel privato e nel quotidiano. Perché anche i militanti duri e puri che intonano Contessa o Bandiera rossa, poi si ritrovano, magari di nascosto in casa, ad ascoltare Lucio Battisti o Claudio Baglioni, che segna un periodo con la sua Questo piccolo grande amore del 1972. Una sorta di divaricazione fra la canzone politicamente corretta e quella intimamente gradita e fruita.

La prima metà degli anni Settanta presenta un panorama molto ricco: emergono gruppi capaci di segnare la storia della musica italiana, come i Nomadi (che nel 1972 lanciano Io vagabondo, canzone che subito conquista un largo seguito di pubblico genericamente impegnato) o i Pooh. Nascono nuovi stili musicali sulla scia dell’influenza anglo-americana; entra in crisi il Festival di Sanremo (dal 1973 la televisione presenta solo la serata finale), mentre l’industria musicale in quello stesso anno supera come incassi quella del cinema, benché il format più diffuso sia ormai il 33 giri, che ha soppiantato il 45.

A ciò si aggiunge il fatto che, con la nascita delle Regioni nel 1970, si determina un nuovo protagonismo degli enti locali che promuovono spettacoli e concerti. Un ruolo fondamentale è ricoperto anche dalla stampa musicale giovanile, come testimonia la grandissima diffusione della rivista “Ciao 2001”, che svolge una funzione fortemente divulgativa, anche se criticata da altre riviste e fanzine.

Ma ciò che più conta è che i giovani dei primi anni Settanta hanno la possibilità di scegliere qualcosa di diverso dal commercializzato, dal pubblicizzato, dall’imposto. E mostrano una straordinaria apertura verso le più diverse forme musicali. Non a caso sono gli anni anche di una forte diffusione del Jazz e di contaminazione dei generi musicali. Nel 1973 nasce Umbria jazz, anche le feste dell’Unità si aprono a questi concerti e il movimento studentesco organizza alla statale di Milano, nel 1975, il festival delle nuove tendenze del jazz italiano. Anche il blues riesce a ritagliarsi un suo spazio.

 

Arriva il rock progressivo

Dal punto di vista musicale, il fenomeno sicuramente più rilevante, che investe l’Italia nella prima metà degli anni Settanta è il rock progressivo. Si tratta di una fusione di generi, dal rock al blues, dal jazz alla musica psichedelica, dalla musica tradizionale a quella classica (si parla infatti anche di rock sinfonico) che proprio in Italia ottiene i maggiori successi. Gruppi come i Genesis, ad esempio, hanno nel nostro Paese un successo persino superiore a quello ottenuto in patria.

Malgrado questo movimento musicale in alcuni casi scivoli in manierismo e tecnicismo, esso è indubbiamente il fenomeno più rilevante per due terzi del decennio. Si può considerare la fase adulta del rock, perché le contaminazioni e la rottura dello schema canzone di 3-4 minuti, a favore di lunghe suite che coprono un intero lato di un LP, consente di esprimere un’enorme creatività compositiva.

Con il rock progressivo assume una importanza maggiore la confezione dei dischi a 33 giri. Le copertine, spesso a doppia facciata, non riportano più solo le foto degli artisti ma diventano vere e proprie opere d’arte. In generale è l’oggetto LP che si modifica, comincia a contenere non solo la busta con il disco, ma i testi e le indicazioni tecniche delle canzoni. Famoso l’LP di Thick as a Brick dei Jethro Tull, che era inserito in un intero quotidiano ripiegato e sfogliabile.

La musica progressive viene proposta e vissuta come momento essenzialmente legato all’ascolto concentrato e intellettuale, come si fa con la musica colta, e in cui la parte strumentale prende il sopravvento sui testi, che, se presenti, raccontano universi immaginari e simbolici, favole epiche. L’aspetto ritmico passa in secondo piano, perché è più importante l’effetto di stimolo mentale18.

La realtà italiana ha visto proliferare un numero impressionante di gruppi, ma alcuni emergono con forza: tra questi, la Premiata Forneria Marconi, l’unica ad avere un successo duraturo fuori d’Italia, il Banco del Mutuo Soccorso, le Orme e gli Area-International popular group. L’esperienza degli Area è oltremodo interessante, tanto più per la presenza di un vero genio della musica qual è Gianni Sassi, il promotore della casa discografica Cramps. L’obiettivo degli Area è creare una musica totale, una fusione tra vari generi, con apertura al free jazz, alla musica elettronica, alla musica etnica e alle sperimentazioni sulla voce, possibili grazie alla presenza di un cantante straordinario come Demetrio Stratos. Insieme agli Stormy six, gli Area sono l’unico gruppo progressive a manifestare un esplicito impegno politico.

 

Una pluralità di generi

Nello stesso periodo arrivano in Italia l’Hard rock con Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath, creatori di canzoni che propongono universi mistici con continui richiami alla magia e a immagini apocalittiche e distruttive, e il Glam rock che unisce, in particolar modo in David Bowie, il linguaggio rock a suggestioni provenienti dal mondo dell’arte contemporanea, che vanno a scandagliare gli aspetti più cupi della deriva umana.

Nello scenario italiano ci sono in particolare due esperienze significative della molteplicità delle espressioni musicali che connotano gli anni Settanta. La prima riguarda i già citati Stormy six. Nato nell’ambito del beat, con un forte legame con il Movimento studentesco milanese, nei primi anni Settanta il gruppo inizia un proprio percorso di riflessione attorno alla storia d‘Italia, con tre album: L’Unità, uscito nel 1972 e dedicato al brigantaggio e alle lotte sociali, Guarda giù dalla pianura, album del 1974 dedicato alla canzone politica e Un biglietto del tram del 1975 dedicato alla Resistenza. L’aspetto interessante è che guardano al rock piuttosto che alla canzone popolare tradizionale e, per questo, intercettano maggiormente i gusti musicali delle nuove generazioni che si affacciano sulla scena politica.

Soprattutto Un biglietto del tram è un disco fondamentale perché segna una svolta nella canzone di protesta a partire già dalla struttura dell’opera, con le canzoni disposte in ordine cronologico, (dalla battaglia di Stalingrado alla liberazione) come se si trattasse di un libro di storia cantata. Due canzoni, più di altre, diventano famose: Dante Di Nanni, dedicata a un giovane partigiano torinese, che si fissa nella memoria di tanti giovani di allora, e Stalingrado, che diventa la colonna sonora del movimento studentesco milanese e dei movimenti in tutta Italia e, per anni, apre e chiude le trasmissioni di Radio Popolare di Milano.

Altra esperienza significativa è quella degli Inti Illimani, un gruppo musicale cileno che si trova in Italia al momento del colpo di stato di Pinochet. Adottati dal Partito comunista, che si sta impegnando molto per dare sostegno agli esuli cileni, gli Inti Illimani partecipano a centinaia di manifestazioni e feste dell’Unità, nonché al festival nazionale dei giovani promosso dal Partito comunista nel 1976, dove suonano assieme agli Area per recuperare il complesso rapporto fra gruppi musicali e mondo giovanile di quel momento. Fino alla fine del decennio si registra una grande partecipazione ai loro concerti, nei quali il momento più emozionante è la canzone El pueblo unido, con migliaia di persone che la cantano a pugno chiuso.

 

I cantautori

Nel corso degli anni Settanta i cantautori assumono un ruolo centrale nel mercato discografico e alcuni di loro incontrano la politica e la storia. Anche in questo caso l’elenco è nutrito e può essere utile ripercorrerlo indicando anche le aree di provenienza: da Roma, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Riccardo Cocciante, Claudio Baglioni, Renato Zero, Rino Gaetano; da Milano, Eugenio Finardi e Roberto Vecchioni; da Napoli, Edoardo Bennato, Alan Sorrenti e Pino Daniele; da Bologna e Modena, Lucio Dalla, Francesco Guccini, Claudio Lolli, Pierangelo Bertoli; da Genova, Francesco De André e Ivano Fossati; infine dalla Sicilia, Franco Battiato.

È un fenomeno talmente rilevante che nel 1974 viene istituito il Premio Tenco, proprio per premiare la canzone d’autore. Benché ogni artista sviluppi percorsi personali e cerchi soluzioni originali, con un’attenzione notevole anche alla musica e non solo alle parole, si possono tuttavia rintracciare alcuni tratti comuni, in un contesto nel quale viene riconosciuta una forte legittimità culturale alla canzone d’autore perché ciò che conta maggiormente è il messaggio contenuto nella canzone.

I cantautori riescono, con le loro opere, a dare senso alla realtà sociale che sta diventando sempre più complessa e propongono un intreccio tra poesia e denuncia, tra vita pubblica, vita privata e dimensione sentimentale che risulta di estrema efficacia, perché in molti casi produce auto-riconoscimento e immedesimazione. Quella che i cantautori cantano e rappresentano è in realtà la vita delle persone che ascoltano le loro canzoni. Anzi, l’identificazione autore-interprete porta a una sorta di mitizzazione del personaggio: colui che canta è autentico, perché canta sé stesso, non porta maschere, quindi sentirlo cantare significa ri-conoscerlo come persona.

Fondamentali come già ricordato sono i testi, sia laddove si affrontano tematiche civili o vicende storiche, sia quando vengono indagati gli aspetti intimi, privati, sentimentali delle persone. Eppure, la parte musicale non viene trascurata, anzi parecchi di loro cercano di ampliarla e potenziarla (pensiamo solo alla collaborazione tra De André e la PFM). L’aspetto positivo e abbastanza innovativo è che le loro canzoni possono essere cantate da tutti, purché si abbia una chitarra. E questo determina una diffusione enorme in ogni ambiente sociale, culturale e politico. 

 

La violenza nella musica

In ogni caso, il grande successo dei cantautori non li pone al riparo dal clima di contestazione della musica che si manifesta in Italia nel corso degli anni Settanta, con autoriduzioni dei biglietti dei concerti, sfondamenti dei cancelli, violenze e contestazioni della dimensione consumistica della musica. Un fenomeno iniziato nel 1970 in occasione del concerto dei Rolling Stones, con situazioni di vera e propria guerriglia urbana, come accade per il concerto dei Traffic a Roma nel 1974.

Si verificano anche annullamenti di interi festival per motivi di ordine pubblico, come al Santa Monica rock festival (a Misano adriatico). Dopo il lancio di molotov sul palco del concerto di Santana nel 1977, quasi tutti i gruppi rock stranieri evitano tournée in Italia per qualche anno. Ad essere presi di mira sono soprattutto i concerti che possono dare visibilità ai contestatori, che non hanno alcun interesse per i contenuti artistici dell’evento. Infatti, gli slogan di queste componenti del movimento sono “distruggiamo la musica” in quanto è “un prodotto borghese” oppure “la musica si ascolta, non si paga”. Pertanto, paradossalmente, queste frange rivoluzionarie, con la loro azione di attacco distruttivo, limitano la capacità della musica di innescare reali processi di cambiamento, di essere veicolo di aggregazione pubblica e strumento di definizione di una collettività sociale.

Anche i cantautori subiscono contestazioni in occasione dei loro concerti. Succede a Fabrizio De André, per avere suonato alla Bussola di Viareggio, quindi in un luogo borghese. Forme di contestazioni che proseguono anche negli anni successivi, nonostante la sua appartenenza culturale all’anarchismo, e si ripetono persino in occasione dei concerti con la PFM alla fine del decennio. Succede a Francesco De Gregori che nel 1976 subisce un vero e proprio processo sul palco, quando vengono contestati i prezzi dei biglietti e i suoi cachet troppo alti, che il cantautore “dovrebbe versare ai lavoratori”. Nonostante un tour di concerti a sostegno di Lotta Continua, De Gregori viene contestato anche in altri luoghi. Poche sono le voci che cercano di mediare tra le frange più politicizzate del movimento e i cantautori19.

Nella seconda metà del decennio il clima si fa molto pesante, aumentano i morti negli scontri tra polizia e manifestanti e fra questi e i fascisti. Soprattutto la crisi economica produce un aumento della disoccupazione che colpisce anche giovani diplomati e laureati, facendo aumentare il lavoro precario e marginale. Dopo il 1976, con il consolidamento del Partito comunista, entrano in crisi le organizzazioni extraparlamentari e molti si spostano verso l’autonomia organizzata e persino verso il terrorismo e la clandestinità.

Si genera, per un breve periodo, un nuovo ciclo di conflittualità che vede protagonista un composito mondo di sottoproletariato e di non garantiti che non puntano più, come nel ‘68, a costruire una società nuova, ma a soddisfare i propri bisogni e aspirazioni, perché non credono più al futuro. È un fenomeno che riguarda soprattutto i giovani delle grandi periferie delle città metropolitane, che vivono gli effetti più pesanti della crisi economica e della mancanza di prospettive e che entrano in aperto conflitto con il mondo operaio e impiegatizio20.

Nel 1976 nascono i Circoli del proletariato giovanile, che danno voce a questo magma in fondo incontrollabile, come dimostrano gli scontri che avvengono in occasione della festa di Re Nudo al Parco Lambro nel 1976. Questi movimenti di protesta e ribellione violenta trovano il culmine nelle vicende che accadono l’anno dopo a Bologna, con la morte di Francesco Lorusso, militante di Lotta continua ucciso da un carabiniere l’11 marzo 1977, e poi nella grande manifestazione di Roma che vede l’occupazione militare della città e la repressione del movimento. In ambito musicale, se da un lato si palesa un’ala creativa che si esprime con il rock demenziale degli Skiantos, dall’altro lato si continua a contestare durante i concerti, si fa autoriduzione dei prezzi, si occupano spazi pubblici e privati non utilizzati per svolgervi attività creative, teatrali, musicali di dimensione limitata e in alcuni casi autoreferenziale.

Nel momento dello scontro più alto – simboleggiato nel 1978 dal rapimento e uccisione di Aldo Moro – prende il via quel processo che è stato chiamato di riflusso, di riscoperta del privato a scapito dell’impegno politico. Per molti giovani del movimento questo vuol dire l’avvio di percorsi tormentati che, in alcuni casi, sfociano in suicidi, nella scoperta e nell’uso massiccio dell’eroina – che dal 1975 si trova in grandi quantità e a prezzi modici – e nella ricerca di nuove forme di spiritualità. Per tanti altri, si fa strada il desiderio di uscire da un decennio di tensioni e violenze mettendo al centro la voglia di divertirsi, di consumare e di realizzarsi individualmente.

 

Disco music e punk

Il 1977 segna la chiusura della stagione che si era aperta nel 67-68. Un decennio che aveva messo la politica e l’impegno al centro dell’identità giovanile e che viene ben raccontato da Eugenio Finardi nella canzone Cuba21. Il cambiamento più vistoso si registra proprio sul piano musicale, in due direzioni contrapposte: la disco music e il punk.

La disco music in Italia dilaga quando scoppia La febbre del sabato sera, dal titolo del film interpretato da John Travolta, che esce proprio nel 1977. Si afferma il piacere del divertimento fine a se stesso e le serate trascorse in discoteca diventano il passatempo preferito per molti giovani. In effetti, proprio in questo periodo si assiste al passaggio dalla balera alla discoteca moderna, in cui la musica non è più eseguita dal vivo da orchestre, bensì riprodotta da disc jockey. Eppure, è proprio in discoteca che si svolgono alcuni dei più importanti concerti degli esponenti della disco music, come Donna Summer.

La disco music è un fenomeno planetario che abbatte le barriere tra musica bianca e nera, e si produce come miscela di soul, rhythm’n’blus, pop e jazz. Una musica priva di impegno sociale, individualistica, in contrapposizione netta con lo spirito comunitario degli anni Sessanta. Il suo sviluppo parte dagli Stati Uniti, non solo come genere musicale ma anche fenomeno di costume per i suoi legami con le comunità gay. Anche in Italia finisce per occupare in modo preponderante la scena musicale, come fenomeno di massa e di tendenza.

Paradossalmente, la dance e la Febbre del sabato sera si configurano come riti collettivi liberatori, quasi una reazione alla cappa plumbea che la politica e le sue interpretazioni estremistiche avevano imposto alla libera ricerca musicale e al piacere del suo ascolto senza steccati. Si tratta di un processo ben simboleggiato dal passaggio di Alan Sorrenti dalla musica sperimentale di Aria a quella sognante e disimpegnata di Figli delle stelle.

Anche il punk arriva nel 1977, ma in Italia trova poco spazio, sospettato di essere fascista da parte del movimento della sinistra (ad eccezione degli anarchici). Solo alla fine del decennio viene infine sdoganato. È per altro interessante notare che i punk provengono da ambienti operai e popolari e non da ambienti studenteschi. Il movimento nasce infatti in una Detroit dal settore auto in crisi e in una Inghilterra che conosce disoccupazione, conflitti sociali e odio razziale. Il primo festival punk italiano si svolge a Milano nel 1978 e si conclude con scontri tra band e pubblico. Uno dei momenti di maggiore visibilità di questo movimento è a Bologna, con la contestazione al concerto dei Clash, gruppo che era stato ingaggiato dal Comune nel tentativo di ricostruire un rapporto con i giovani dopo gli avvenimenti del 1977.

Questo genere musicale, caratterizzato da forti pulsioni violente, arriva paradossalmente in Italia in un contesto di raffreddamento delle tensioni politiche e sociali e in riflusso generale nel privato e nel disimpegno del mondo giovanile tipico degli anni Ottanta. Costituisce una presenza antagonista, anche perché si politicizza superando la dimensione nichilista dei primi tempi (hardcore-punk), molto vicino all’anarchismo. Attecchisce anche perché, a differenza di generi come il progressive, anche giovani che non hanno particolari esperienze musicali o capacità compositive o interpretative possono fare musica per e tra i loro coetanei.

 

Verso gli Anni Ottanta: disimpegno e divertimento

Un altro fenomeno tipico della seconda metà degli anni Settanta è la nascita e la diffusione delle radio libere, che dalle 600 nel 1976 diventano più di 2.000 nel 1978. In una prima fase queste radio danno ampio spazio alla musica nelle sue diverse declinazioni, salvo poi iniziare – con qualche eccezione militante – un processo di commercializzazione con la trasmissione/diffusione di musica mainstream. Un’esperienza che viene cantata quasi in diretta da Eugenio Finardi, nelle canzoni La radio e Musica ribelle.

Benché il 1977 non interrompa completamente alcuni processi, le canzoni diventano sempre più un elemento decisivo non tanto nella formazione politica dei giovani, bensì in quella sentimentale ed esistenziale. Frequentare concerti e ascoltare musica non qualifica più da nessun punto di vista, in termini politici, ma diventa consumo di un prodotto come un altro. Passaggio simbolico è sicuramente il concerto di Neil Young in occasione della Festa nazionale dell’amicizia del 1982.

In controtendenza sono gli Stormy six. Dopo aver promosso nel 1974 la Cooperativa l’Orchestra per l’autoproduzione di spettacoli e dischi, coinvolgendo gruppi rock, folk e jazz, nel 1977 danno vita al movimento europeo Rock in opposition, assumendo sempre più una dimensione internazionale. Nel 1980 il loro disco Macchina maccheronica vince il primo premio della critica discografica tedesca come miglior album rock dell’anno, relegando al secondo posto i Police.

Simbolo del passaggio di fase può essere considerato il concerto per Demetrio Stratos a Milano il14 giugno 1979. Oltre 60.000 persone partecipano per raccogliere fondi per la cura della sua malattia, ma lui muore il giorno prima. Si trasforma in un concerto che chiude un’epoca. Dal 1980 arrivano in Italia per fare concerti i Ramones, i Police, Bob Marley e i Talking heads, ma nessuno più utilizza questi appuntamenti per propaganda o iniziativa politica.

In sintesi, è certamente vero che gli anni Ottanta sono gli anni del riflusso, di affermazione una cultura narcisistica orientata alla soddisfazione dei propri bisogni individuali e privati. Ed è altrettanto vero che questi processi sono maggiormente evidenti nella musica, anche perché con la comparsa dei videoclip la musica si vede e si ascolta, e questo favorisce l’ulteriore spettacolarizzazione della musica e la creazione di star planetarie, come Michael Jackson e Madonna. Inoltre, nel 1980 entrano in produzione i walkman, per l’ascolto individuale in cuffia della musica e poi i compact-disc.

Con i Live Aid (il primo si tiene nel 1985) inizia quello che è stato chiamato il rock di beneficenza ma che, al tempo stesso, dimostra la dimensione globale, planetaria che ha raggiunto la musica. Si può però affermare che la musica incide ora prevalentemente sui gusti musicali, non intervenendo più nei processi di trasformazione sociale, né partecipando esplicitamente al cambiamento politico. In questo quadro scompare praticamente il canto sociale e solo dalla metà degli anni Ottanta vi è una ripresa della canzone politica concentrata nei centri sociali, alle posse e al rap, al punk, con gruppi come gli Almamegretta, i Bisca 99 posse, i CCCP e gli stessi Liftiba.

Se quanto detto è vero, non si possono però rappresentare gli anni Ottanta come anni di azzeramento della dimensione politica dei giovani: certamente scompare il carattere totalizzante dell’impegno politico tipico dei Settanta per lasciare il posto a una partecipazione politica più estemporanea e occasionale. Sorgono nuovi movimenti, non più finalistici e generalisti, ma aggregati su obiettivi specifici e circoscritti come quello ecologista, o pacifista e anche di contrasto alla mafia. E non mancano nuovi movimenti studenteschi, anche effimeri e di breve durata22.

Alla crisi dell’impegno politico corrisponde una crescita dell’impegno nel sociale, soprattutto nelle associazioni di volontariato. Quello che però è evidente è che in nessuno di questi movimenti il rapporto tra impegno politico e musica si pone sullo stesso livello di intensità come in quelli degli anni Sessanta e Settanta. A partire dagli anni Ottanta cambia per intensità e modalità di fruizione, modulandosi sui cambiamenti dei grandi quadri sociali e politici impressi dalla globalizzazione e dalla rivoluzione informatica. Tutto è molto più mutevole, effimero e complesso e i gusti del pubblico e i fenomeni musicali disegnano realtà composite in cui si mescolano, a velocità incredibile, fattori, variabili e mezzi di diffusione e di produzione.

 

Indicazioni bibliografiche

Metodologia

  • Marco Gervasoni, Le armi di Orfeo. Musica, identità nazionali e religioni politiche nell’Europa del Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 2002
  • Mario Peroni, Il nostro concerto. La storia contemporanea tra musica leggera e canone popolare, Milano, Bruno Mondadori, 2005

Per contestualizzare gli anni Settanta

  • Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2005
  • Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Milano, Feltrinelli, 2009
  • Mirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Roma-Bari, Laterza, 2015
  • Diego Giachetti, Il ’68 in Italia. Le idee, i movimenti, la politica, Pisa, Serantini, 2018

Storie generali della musica

  • Paolo Prato, La musica italiana. Una storia sociale dall’Unità ad oggi, Roma, Donzelli, 2010
  • Felice Liperi, Storia della canzone italiana, Roma, Rai Eri, 2011
  • Jacopo Tomatis, Storia culturale della canzone italiana, Milano, Il Saggiatore, 2019

Giornalisti e critici musicali

  • Gianni Borgna, Storia della canzone italiana, prefazione di Renzo Arbore, Milano, Mondadori, 1992
  • Daniele Biacchessi, Storie di rock italiano. Dal boom dei consumi alla crisi economica internazionale, Milano, Jaca Book, 2016
  • Federico Ballanti, Ernesto Assante, Rivoluzioni. L’insurrezione poetica e la rivolta politica. Controcultura (1955-1980), Roma, Lit edizioni, 2017
  • Gino Castaldo, Il romanzo della canzone italiana, Torino, Einaudi, 2018

Analisi sociologiche

  • Edoardo Tabasso, Marco Bracci, Da Modugno a X factor. Musica e società italiana dal dopoguerra ad oggi, Roma Carocci, 2010
  • Stefano Nobile, Mezzo secolo di canzoni italiane. Una prospettiva sociologica (1960-2010), Roma, Carocci, 2012
  • Lello Savonardo, Pop music, media e culture giovanili. Dalla Beat revolution alla Bit generation, postfazione di Luciano Ligabue, Milano, EGEA, 2017

Musica, storia, politica

  • Stefano Pivato, La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone italiana, Bologna, Il Mulino, 2002
  • Stefano Pivato, Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Bari-Roma, Laterza, 2005
  • Lorenzo Santoro, Musica e politica nell’Italia unita. Dall’Illuminismo alla repubblica dei partiti, Venezia, Marsilio, 2013
  • Chiara Ferrari, Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, Milano, Unicopli, 2014
  • Alessandro Volpi, Fare gli italiani, a loro insaputa. Musica e politica dal Risorgimento al Sessantotto, Pisa, Pacini, 2017
  • Antonio Fanelli, Contro Canto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap, prefazione di Alessandro Portelli, Roma, Donzelli, 2017

Parole e musica

  • Giuseppe Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, Bologna, Il Mulino, 2010
  • Lucio Spaziante, Dai beat alla generazione Ipod. Le culture musicali giovanili, Roma, Carocci, 2010
  • Marco Santoro, Effetto Tenco. Genealogia della canzone d’autore, Bologna, Il Mulino, 2010
  • Serena Facci, Paolo Soddu, Il festival di Sanremo. Parole e suoni raccontano la nazione, Roma, Carocci, 2011

Repertori

  • Pietro Brunello, Storia e canzoni in Italia: il Novecento, 2 cd allegati, Comune di Venezia, Assessorato pubblica istruzione, 2000
  • Cesare Bermani, Pane, rose e libertà. Le canzoni che hanno fatto l’Italia: 150 anni di musica popolare, sociale e di protesta, 3 cd allegati, Milano, Rizzoli, 2010
  • Gianpaolo Brusini, Giovanni De Luna, Lucio Salvini, Noi. Non erano solo canzonette 1958-1982, Milano, Skira, 2019

Anni Settanta e dintorni

  • Umberto Bultrighini e Gianni Oliva (a cura di), Dopo i Beatles. Musica e società negli anni Settanta, Lanciano, Carabba, 2003
  • Giordano Casiraghi, Anni 70 Generazione Rock. Interviste ai protagonisti, i festival pop, le radio libere, la stampa giovanile, gli album storici, Roma, Editori Riuniti, 2005
  • Claudio Bernieri, Non sparate sul cantautore. Canzoni come pietre, musica sotto tiro, Milano, Vololibero, 2011
  • Alessandro Carrera, Musica e pubblico giovanile. L’evoluzione del gusto musicale dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, Milano, Odoya, 2014
  • Alessandro Volpi, La rivoluzione mancata. La scomparsa di Demetrio Stratos e il difficile rapporto tra musica e politica negli anni Settanta, Pisa, Pacini, 2015
  • Marcello Giannotti, Paolo Giordano, Vasco, Fabrizio e i Beatles spiegati a mio figlio, Roma, Arcana, 2016
  • Francesco Mirenzi, Rock progressivo italiano. La storia, i concerti, i protagonisti, Roma, DeriveApprodi, 2018

In classe

  • Brunetto Salvarani, Odoardo Semellini, Guccini in classe. Spunti didattici a partire dalle canzoni (e non solo) del maestro di Pàvana, Bologna, EMI, 2013
  • Massimiliano Lepratti, De André in classe. Spunti didattici a partire dalle canzoni di Faber, Bologna, EMI, 2014

Sitografia

  • [www.ildeposito.org] Archivio online di canzoni di protesta politica e sociale, con relativi accordi. Le canzoni sono organizzate anche in sezioni. Quella dedicata al tema “La contestazione e i movimenti di liberazione (1967-1979)” contiene 836 canzoni.
  • [www.antiwarsongs.org] “Canzoni contro la guerra” è un sito promosso nel 2013 da alcuni gruppi online di appassionati di musica, come reazione ai bombardamenti americani sull’Iraq. Le canzoni sono proposte attraverso numerosi percorsi tematici.
  • [www.musicaememoria.com] “Musica & Memoria” non si limita a proporre canzoni ma propone approfondimenti su tutti gli aspetti della musica, dal punto di vista tecnologico, culturale, sociale.
  • [www.canzoneitaliana.it] Portale promosso dal Mibact e dalle associazioni di settore per l’ascolto on line del patrimonio sonoro relativo ad oltre un secolo di canzone italiana, dal 1900 al 2000, proveniente dalle raccolte dell’Istituto Centrale per i beni sonori ed audiovisivi e da archivi pubblici e privati.

Note

1 L’origine di questo contributo è una conferenza che ho svolto a Udine il 14 marzo 2018 nell’ambito di un corso di aggiornamento per insegnanti promosso dall’Istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione nel Friuli Venezia-Giulia (Trieste) e dall’Istituto friulano per la storia del movimento di Liberazione (Udine); corso che aveva come titolo “Anni Settanta del Novecento. Un decennio inquieto tra crisi economiche e violenza politica”.

2 A tale proposito, mi permetto di rinviare al mio saggio Musica e public history. Appunti metodologici e pratici, in Paolo Bertella Farnetti, Lorenzo Bertucelli, Alfonso Botti (a cura di), Public history. Discussioni e pratiche, Milano, Mimesis, 2017.

3 Un esempio concreto è quello proposto da Peroni a proposito di Vedrai, vedrai di Luigi Tenco. Vedi Mario Peroni, Il nostro concerto. La storia contemporanea tra musica leggera e canone popolare, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 19-21.

4 Giordano Montecchi, Fondamenti di diseducazione musicale, in Alessandro Rigolli (a cura di), La divulgazione musicale in Italia oggi, Torino, EDT, 2005, p. 11.

5 Si veda, ad esempio, il dibattito dal titolo Per una nuova storia sociale e culturale della musica curato da Carlotta Sorba sulla rivista “Contemporanea”, a. XV, n. 3, luglio-settembre 2012, pp. 493-527.

6 Chiara Ferrari, Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, Milano, Unicopli, 2014, p. 9.

7 L’immagine di apertura dell’articolo è una foto degli Stormy six scattata nel 1974.

8 Per stare agli anni Settanta, si può citare ad esempio una canzone come Anna di Francia di Claudio Lolli, uscita nel 1976 nell’album Ho visto anche degli zingari felici.

9 Si veda Luca Gorgolini, Un mondo di giovani. Cultura e consumi dopo il 1950, in Paolo Sorcinelli (a cura di), Identikit del Novecento. Conflitti, trasformazioni sociali, stili di vita, Roma, Donzelli, 2004.

10 Jacopo Tomatis, Storia culturale della canzone italiana, Milano, Il Saggiatore, 2019, pp. 48-65.

11 Sull’esperienza di Cantacronache si veda il già citato volume di Chiara Ferrari, Politica e protesta in musica.

12 Antonio Fanelli, Contro Canto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap, Roma, Donzelli, 2017, pp. 66-86. Si veda anche Cesare Bermani, Una storia cantata. 1962-1997: trentacinque anni di attività del Nuovo canzoniere italiano/Istituto Ernesto De Martino, Milano, Jaca Book, 1997.

13 Sergio Secondiano Sacchi, Sergio Staino, Steven Forti, Vent’anni di Sessantotto. Gli avvenimenti e le canzoni che raccontano un’epoca, I libri del club Tenco, Roma, Squilibri, 2018.

14 Maria Rossi, Contro i “padroni della musica”. Dai festival alternativi ai festival autogestiti (1970-1977), Milano, Unicopli, 2018.

15 Antonio Fanelli, Contro Canto, cit., p. 99.

16 Giovanna Marini, Italia, quanto sei lunga, Palermo, L’Epos, 2004 (prima ed. Milano, Mazzotta-Istituto Ernesto De Martino, 1977).

17 Anna Tonelli, Falce e tortello. Storia politica e sociale delle Feste dell’Unità (1945-2011), Roma-Bari, Laterza, 2012.

18 Barbara Della Salda, Utopia della conoscenza un sogno lungo trent’anni, in Umberto Bultrighini e Gianni Oliva (a cura di), Dopo i Beatles. Musica e società negli anni Settanta, Lanciano, Carabba, 2003, pp. 22-23.

19 Alessandro Volpi, La rivoluzione mancata. La scomparsa di Demetrio Stratos e il difficile rapporto tra musica e politica negli anni Settanta, Pisa, Pacini, 2015, pp. 97-108. Si veda anche Luigi Manconi (con Valentina Brinis), La musica è leggera. Racconto su mezzo secolo di canzoni, Milano, Il Saggiatore, 2012.

20 Si vedano Marco Grispigni, 1977, Roma, Manifestolibri, 2006 e Alessio Gagliardi, Il 77 tra storia e memoria, Roma, Manifestolibri, 2017.

21 Francesco Catastini, Dal pentagramma ribelle al pentagramma ubbidiente. La trasformazione della musica pop negli anni Settanta, in “Ricerche storiche”, a. XLVII, n. 3, settembre-dicembre 2017, p. 132.

22 Marica Tolomelli, L’Italia dei movimenti. Politica e società nella Prima repubblica, Roma, Carocci, 2015, pp. 206-218.