Un nuovo archivio mondiale? Dal progetto napoleonico all’Artic World Archive

È uscito da pochi mesi un bel saggio di Maria Pia Donato (L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia edito da Laterza) che racconta il sogno, non privo di megalomania, del Bonaparte di costruire un archivio nel quale convogliare tutti i documenti dei paesi sottomessi alla Francia. In un certo senso la fantasia napoleonica era quella di dominare l’Europa non solo dal punto di vista politico ma anche da quello culturale, appropriandosi letteralmente del sapere sedimentato da secoli nei grandi archivi delle monarchie da lui sottomesse e deposte. Anno chiave di questo processo fu il 1809 quando l’esercito napoleonico, dopo aver sconfitto la Quinta Coalizione, occupò militarmente Vienna. Iniziò così un processo di confisca dei ricchissimi archivi del Sacro Romano Impero e dei territori degli Asburgo. L’operazione fu fatta in fretta, anche perché dopo la pace Vienna sarebbe ritornata sotto il controllo degli Asburgo e così i francesi confiscarono centinaia di casse di documenti destinate agli Archivi imperiali creati all’Hotel de Soubise nel quartiere parigino del Marais. Per la quantità di materiale sequestrato l’operazione fu davvero notevole ma fu solo l’inizio. A sancire la seconda parte del progetto fu la decisione napoleonica di portare a Parigi anche parte degli archivi vaticani, Roma infatti nello stesso anno era stata annessa alla Francia, e di quelli spagnoli dove regnava Giuseppe Bonaparte. Da queste prime confische prese rapidamente forma un vero e proprio piano di “esproprio” della memoria storica dei territori annessi e dei paesi satelliti. L’idea era di creare un archivio universale che fosse anche un monumento della grandeur dell’impero.

Maria Pia Donato spiega molto bene i motivi di tale operazione. C’erano sicuramente quelle di ordine pratico, e cioè disporre di documenti utili per l’amministrazione delle nuove regioni francesi e dei territori controllati. Vi era però anche un progetto politico più forte. Possedere gli archivi aveva una dimensione simbolica molto forte in quanto erano visti come una fonte di legittimazione basilare. L’impero napoleonico appena nato, oltre a portare avanti idealmente i principi della Rivoluzione, tentava di creare una nuova dinastia che aveva bisogno di una forte legittimazione storica. Il controllo delle fonti e la volontà di controllare l’accesso ai materiali per elaborare la narrazione storica è un elemento chiave della Storia. Con il suo Archivio del mondo, Napoleone voleva controllare la narrazione della storia in funzione di quella che credeva essere una nuova era, l’era del dominio francese sul mondo.

Interessante notare come nel lavoro della Donato sia evidente che la Francia in questa operazione sfruttò a pieno la grande esperienza che aveva elaborato nella confisca di opere d’arte, libri, manoscritti e altri oggetti; sin dalla prima guerra rivoluzionaria, erano state organizzate delle missioni ad hoc per selezionarli e portarli in Francia. Anche per gli archivi fu messa in funzione questa ben rodata macchina di spoliazione culturale. Parigi si faceva spedire gli inventari disponibili, poi inviava degli agenti in missione per verificare i fondi archivistici e organizzare le spedizioni, con l’aiuto di funzionari civili e militari. Le centinaia di migliaia di volumi, registri e cartelle furono spediti in convogli via terra dalle Fiandre, dalla Spagna, da Vienna e dall’Italia accompagnati da gendarmi. L’operazione colossale fu interrotta solo dal precipitare degli eventi bellici dopo la disastrosa campagna di Russia che porterà Napoleone al primo esilio all’isola d’Elba. Dopo la caduta di Bonaparte, la maggior parte dei documenti, ritornarono ai legittimi proprietari. Chiuso il Congresso di Vienna iniziò la Restaurazione e anche in questo senso il vecchio ordine fu ristabilito.

Tre secoli dopo e in un contesto tecnologico decisamente differente a qualcuno è venuto in mente di riproporre qualcosa di simile pur con ovvie diversità. È del marzo 2017 la notizia dell’inaugurazione, in un’ex miniera nel permafrost, dell’Arctic World Archive pensato per proteggere i dati e i documenti più importanti del mondo da qualunque minaccia, catastrofi nucleari incluse. La struttura nasce in imitazione del Global Seed Vault, il bunker mondiale dei semi (a cui si riferisce l’immagine di apertura dell’articolo), e non è un caso che sia stato realizzato a pochi metri di distanza da questo nell’isola di Spitsbergen delle Svalbard. Se però il Global Seed Vault è finanziato da organizzazioni no profit e dal governo norvegese con l’intento di conservare il più grande numero possibile di specie vegetali prevenendo l’eventuale estinzione di piante causata da catastrofi, l’Arctic World Archive ha finalità di lucro, in quanto creato dalla società tecnologica norvegese Piql e dalla società mineraria statale norvegese SNSK.

Contrariamente a quello che si può pensare l’Archivio mondiale non è formato né da una distesa di super computer né ovviamente da documenti cartacei. Tutti i file da conservare (documenti politico-amministrativi, dati scientifici o sulla sicurezza, persino password) vengono copiati su supporti analogici durevoli e al sicuro da attacchi informatici, e cioè su pellicole fotosensibili. I dati sono archiviati su pellicola ottica sviluppata appositamente dalla ditta Piql. Quello che viene fatto è prendere file di qualsiasi formato, si pensi ai più utilizzati come Pdf, Doc, Jpg, e convertirli in QR grandi e ad altissima risoluzione; una volta stampati i dati sul film, i supporti vengono archiviati nella già citata ex miniera di carbone delle Svalbard.

Piql sostiene che il suo formato proprietario memorizzerà i dati in modo sicuro per almeno 500 anni, grazie allo stesso clima della miniera. Nel profondo del permafrost la temperatura è tra meno 5 e meno 10 gradi, e l’ambiente è anche molto asciutto, creando condizioni ideali alla conservazione. I clienti possono inviare dati all’Archivio in modo digitale o fisico e, una volta memorizzato, richiederne il recupero in qualsiasi momento. Questo non è un processo istantaneo però. Come ulteriore precauzione di sicurezza, i dati non sono collegati a Internet, per evitare il possibile accesso di hacker. Una volta che viene effettuata una richiesta di informazioni memorizzate, il personale dell’Archivio recupera manualmente la bobina pertinente e la carica tramite una connessione in fibra ottica sulla terraferma, una procedura che può richiedere circa mezz’ora.

La scelta dell’arcipelago delle Svalbard ha inoltre un altro vantaggio; non solo le isole sono remote, ma un trattato internazionale firmato dopo la prima guerra mondiale indica che il territorio non può essere utilizzato per scopi militari. Ciò significa che l’Archivio potrebbe essere interessante per i paesi che temono che un giorno i loro documenti nazionali possano essere persi in un conflitto. La nascita di un simile progetto è senz’altro suggestiva eppure se si va ad approfondire non si possono non notare delle contraddizioni che fanno sì che non si possa parlare realmente di un vero archivio ma di un deposito di tracce del passato.

Partiamo dalla stessa idea di documento, questo viene creato da un soggetto come mezzo per poter svolgere un’attività e dunque è sempre inestricabilmente legato a quell’attività, di cui reca le tracce e che costituisce il suo contesto. Tali tracce pongono in relazione il documento con delle dimensioni ad esso esterne e che definiscono l’attività a cui il documento fa riferimento, per l’appunto i contesti. Questi legami fanno sì che per lo svolgimento di un’attività non si produca un singolo documento ma una serie di documenti che vengono raccolti, sia nell’ambito cartaceo che digitale, nel fascicolo. Il legame tra i vari documenti di un archivio, quel complesso di documenti prodotto o acquisito da un ente o una persona nel corso della sua attività, fa sì che questi non possano “vivere da soli” ma stretti al proprio contesto d’appartenenza. Non è infatti un caso se i napoleonici spostarono interi complessi archivistici in quanto coscienti dell’inutilità del singolo documento estratto dal proprio contesto di appartenenza.

Nel contesto analogico è spesso la forma stessa del documento, oltre alle annotazioni, a rendere chiaro il contesto. Lo scenario digitale, sempre più rilevante e diffuso, è però meno indulgente di quello analogico e dunque ciò che in passato poteva essere lasciato implicito deve ora essere esplicitato ricorrendo ai metadati. Questi esprimono soprattutto quella parte del contesto che nella dimensione del documento era puramente implicita e quindi identificabile anche dopo parecchio tempo dalla creazione dello stesso. Contestualizzandosi anche il documento digitale si identifica e si distingue da qualsiasi altro documento e i metadati fungono anche da veicoli dell’identità del documento. Per far sì che il documento digitale non appaia solo come un singolo file elettronico si crea un pacchetto, cioè un file contenitore, all’interno del quale oltre alle componenti digitali che compongono il documento stesso si trova un altro file (in formato XML) nel quale si inseriscono i metadati che garantiscono la sua provenienza, integrità e immodificabilità negli anni.

 

Per approfondire 

  • Maria Pia Donato, L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia, Roma-Bari, Laterza, 2019
  • Luciana Duranti, Il documento archivistico, in Linda Giuva e Maria Guercio (a cura di), Archivistica: teorie, metodi, pratiche, Roma, Carocci, 2014
  • Maria Guercio, Il documento digitale e le relazioni di contesto: affidabilità e autenticità, in Conservare il digitale: principi, metodi e procedure per la conservazione a lungo termine di documenti digitali, Roma-Bari, Laterza, 2003
  • James Vincent, Keep your data safe from the apocalypse in an Arctic mineshaft, in “The Verge”, rivista on line https://www.theverge.com/2017/4/4/15159148/norway-data-vault-svalberd-mine-storage.