Episodi di lotta mezzadrile nel Montefeltro del secondo dopoguerra

1. Conflitti mezzadrili tra fine della guerra e “sequestro dei padroni” (1945-1949)

La campagna marchigiana del Montefeltro, fin dal Basso medioevo, è stata modellata dall’istituto della mezzadria1. Questa forma di conduzione agraria prevedeva da parte del proprietario terriero l’assegnazione al mezzadro di un podere, comprendente la terra e la casa in cui il contadino era tenuto a risiedere stabilmente con la propria famiglia; il contratto elencava minuziosamente tutte le lavorazioni che il colono era obbligato a svolgere per mantenere la redditività del fondo, i cui prodotti andavano divisi a metà con il proprietario. La direzione dell’azienda spettava al padrone, senza il suo ordine il contadino non poteva mietere, né trebbiare, né vendemmiare, né acquistare animali, né raccogliere e vendere altri prodotti, né fare nulla. A mediare i rapporti tra proprietario e mezzadro c’era la figura del fattore, una specie di moderno vassallo, spesso più rapace e arrogante dello stesso signore.

Il contadino era inoltre vincolato al rispetto di una serie di innumerevoli obblighi, come svolgere prestazioni d’opera straordinarie nella casa padronale, custodirne la cantina, omaggiare a ogni festività la tavola del signore con regalìe di uova, polli, formaggi. Il contratto aveva valenza annuale e si rinnovava tacitamente, sempre che nel frattempo non fosse sopraggiunta la temuta disdetta, ovvero il principale motivo di soggezione verso i proprietari. Con la disdetta l’intera famiglia veniva letteralmente gettata in mezzo a una strada, con verosimili difficoltà a trovare un altro podere e un altro padrone, prospettandosi quindi, se andava bene, una nuova e ancor più miserevole vita da braccianti.

Nell’immediato secondo dopoguerra le campagne marchigiane affrontano una situazione di penuria generalizzata. In particolare il territorio del Montefeltro, attraversato dalla Linea gotica, si ritrova ferito dalla lunga occupazione nazifascista e dalla prolungata permanenza del fronte. Le case coloniche sono per la maggior parte decrepite, senza servizi igienici né acqua corrente, mal riscaldate e male illuminate. La guerriglia partigiana, alla quale molte famiglie contadine avevano offerto copertura assumendosi i rischi del caso, aveva però portato un vento nuovo in queste campagne disastrate, una speranza di rinnovamento e trasformazione. È grazie al contatto con giovani fuggiaschi, disertori, partigiani e con gli sfollati dalle città della costa, che la sottomissione al padrone, la cui figura è sovrapponibile a quella del fascista, viene rimessa in discussione.

Nel 1945 si riorganizza la Federterra soppressa dal fascismo; a livello locale proliferano le leghe contadine, come nuclei sindacali di base organizzati attorno alle Camere mandamentali del lavoro. Le leghe danno vita a una serie di agitazioni, battendosi in primo luogo per la ripartizione dei prodotti non più metà e metà, ma 60% al colono e 40% al proprietario. I primi conflitti si hanno già con la trebbiatura del giugno-luglio 1945 quando sull’aia arrivano in aiuto squadre di operai la cui sola presenza minaccia l’equilibrio del momento di maggior tensione, quello della divisione del grano: una presenza ostile che infastidisce fattori e proprietari, una presenza solidale che incoraggia i mezzadri a rimanere fermi nelle proprie rivendicazioni. Ma il vero indice che nelle campagne qualcosa sta cambiando è la battaglia contro le regalìe. I contadini cominciano a portare uova, galline e capponi non più sull’uscio del signore ma agli istituti di beneficienza, agli ospedali, alle cooperative di consumo, guadagnando in questo modo la non scontata solidarietà popolare cittadina.

Sostenuti in particolare del Partito comunista, che intravedendo la possibilità di conquistare le campagne si fa portavoce delle loro istanze, i contadini iniziano a frequentare circoli e sedi politiche e sindacali e tentano di ribaltare quei rapporti di forza che avevano da sempre permesso al padrone di fare il bello e il cattivo tempo: “quel che c’è da fare è semplice: non osservare più i patti colonici, non eseguire gli ordini del padrone, lavorare come meglio ci piace, cercare di nascondere una parte dei nostri prodotti”2. Nasce anche un inedito e coraggioso protagonismo delle donne, in prima fila nelle lotte:

“le donne – racconta Gina Rossi – sfruttate da tutto quello che c’era, dai padroni, dalla famiglia, nelle lotte partecipavano molto e l’hanno preso proprio come l’olio nell’insalata, perché allora erano stanche. Noi siamo esseri come gli uomini, come tutti gli altri. Partecipavano e diciamo che la lotta delle donne è stata determinante anche nelle lotte che abbiamo fatto a Macerata Feltria perché davanti andavamo noi, perché se andavano avanti gli uomini li arrestavano, ma se andavamo noi non potevano farci niente, non avevamo paura. Le prime volte di quei mitra un po’ si tremava perché per quanto sia non avevamo mai visto, ma poi ci siamo maturate, non avevamo paura neanche del diavolo!”3.

Il momento culminante delle lotte mezzadrili di questo periodo si ha domenica 28 dicembre 1947 con il “sequestro dei padroni” a Macerata Feltria4. Lo svolgimento dei fatti è piuttosto lineare: nei tredici comuni del mandamento di Macerata Feltria, i contadini organizzati “sequestrano” 41 proprietari terrieri e li conducono alla Camera del lavoro, istituiscono posti di blocco isolando il centro cittadino e li trattengono fino a tarda sera costringendoli a firmare l’accettazione del cosiddetto Lodo De Gasperi. Ovvero una sorta di arbitrato in base al quale De Gasperi, facendo attenzione a non intaccare per nulla né la struttura profonda della mezzadria né le coordinate del contratto di patto colonico, sperava di chiudere la stagione di agitazioni mezzadrili in cambio di una serie di concessioni ai lavoratori della terra5. Concessioni invero limitate e temporanee, e che per giunta dovevano essere applicate attraverso apposite commissioni provinciali, ma che si erano comunque scontrate con lo spietato ostruzionismo degli agrari.

Qualche padrone, quel giorno, è facile da convincere, firma il Lodo e riceve in cambio un lasciapassare per uscire dal paese, per altri la giornata è invece piuttosto lunga. Racconta Mario Ugolini, ex partigiano, attivista sindacale, poi consigliere comunale per il PCI:

il comportamento è stato così che questi padroni un po’ firmavano e un po’ no, così la manifestazione si allungava; migliaia di persone che aspettavano di fuori, era più di mezzogiorno ed era cominciata all’alba. Allora io entravo dentro e uscivo fuori nella Camera del lavoro, tenendo la calma di tutto fin che si poteva. Ma i padroni non riuscivano a concordare questi rapporti che avevamo chiesto: Lodo De Gasperi, chiusura dei conti, abolizione delle regalie, ecc. Dopo parecchio che facevo questa spola, ho detto che era ora di sbrigarsi, perché la gente fuori cominciava a essere stufa: dove vogliamo andare a finire, a notte? Qui ci sono la gente che ha fame, non vorrei che succedesse qualche cosa. E allora? Tanto qui è chiaro quello che chiediamo6.

Non si verificano particolari episodi di violenza, ma l’azione è evidentemente condotta ben oltre il limite delle lotte sindacali legalitarie. Sindacato e partito si dissociano infatti da questa forma di lotta che li ha trascesi e che considerano frutto delle “spinte rivoluzionarie, anarcoidi” dominanti la montagna del Montefeltro, diversamente dal pesarese o dalla valle del Metauro in cui il movimento contadino era, a detta loro, “più riflessivo”, “più ragionatore”7.

La stagione del 1948 si apre con uno sciopero dei lavori di trebbiatura che causa ancora una volta forti tensioni nelle campagne. E la durezza dello scontro del 1949 non è da meno, soprattutto nelle zone montane della provincia, tanto che i camion di polizia e carabinieri devono percorrere in lungo e in largo le strade di campagna, costretti spesso a intervenire per proteggere i proprietari dalle pretese dei contadini8.

Nel frattempo si mette in moto la macchina giudiziaria per il processo relativo al “sequestro” di Macerata Feltria. Tra l’imbarazzo dei carabinieri che devono ammettere di aver assistito a tutta la faccenda senza aver mosso un dito a protezione dei proprietari, e quest’ultimi che intimoriti da un confronto diretto con i propri mezzadri riducono di fronte ai giudici il peso delle accuse, le udienze si susseguono con imputati e testimoni decisi a negare anche l’evidenza.

Fu simpatico – racconta Giovanni Costantini, segretario locale della Federterra – perché così come quando preparammo quella manifestazione, nell’arco dei quindici giorni di tempo tra la decisione e la manifestazione nessuno aveva fiatato, nessuno aveva aperto bocca, così è avvenuto nel processo in fondo, cioè furono 68 imputati, ma dei 400 [recte: 154] interrogati compresi i 68 imputati nessuno sapeva niente, si erano trovati tutti per caso, hanno preso in giro anche i giudici, tutti abbiamo detto: ma io ero lì per caso, non so, ho visto la gente, mi sono fermato anch’io […] il Presidente del tribunale era anche un po’ incavolato, alla fine mi pare che mandò tutti assolti9.

In realtà il processo si chiude solo quattro anni dopo con alcune lievi condanne, tra l’indifferenza generale. La vera rivincita i padroni se la prendono con una serie di disdette che vanno a colpire i contadini più combattivi, i quali rispondono, come vedremo negli episodi qui sotto descritti, con la forza della solidarietà interna al movimento mezzadrile.

 

2. Solidarietà mezzadrile (1950-1951)

Sono da poco passate le dieci di mattina di mercoledì 8 marzo 1950, quando la famiglia Cesarini residente a Case Nuove di Montecerignone, composta dal capoccia Antonio insieme alla moglie Elvira Bernardini, ai figli Argo e Sebastiano e al fratello Sigismondo, si presenta a Macerata Feltria, in località Candeline di S. Vicino, sul podere di proprietà del parroco don Giuseppe Rossi. Li accompagna Biagio Camporesi, intermediario e nipote del proprietario. I Cesarini sono i nuovi assegnatari del fondo che al termine dell’anno agrario, ovvero intorno a metà novembre, il mezzadro Antonio Tombini, disdettato, avrebbe dovuto suo malgrado lasciare libero.

Su indicazione della proprietà, la nuova famiglia intende seminare la “crocetta” (detta anche “sementina”, nome volgare della lupinella, un’erba da foraggio). Antonio Tombini, in quel momento intento a sarchiare il grano, non è però dello stesso avviso e caccia dal fondo i nuovi arrivati affermando che si sarebbe occupato personalmente, come sempre fatto fino ad allora, della semina su quel campo.

I Cesarini, zappa in spalla, riprendono la strada da dove erano venuti, ma percorse poche centinaia di metri vengono affrontati da un gruppo di donne che sopraggiunge in tutta fretta attraverso i campi “saltando i filari di viti come capre” e facendo “fracasso come quattro mitragliatrici”, mentre altri gruppetti di contadine “con aria non del tutto conciliante” li guardavano a distanza, “in atteggiamento di intervenire subito se necessario”10. Le donne in prima linea sono Ines Bindelli di 36 anni, Gina Bonci di 24 anni, Gelsira Cecchetti di 38 anni, Chiara Emanuelli Simoncini di 35 anni, Adelmina Fiorini di 25 anni e Filomena Gabrielli di 68 anni che si trovavano insieme, così raccontano, perché stavano organizzando una prossima trasferta a Pesaro in occasione della festa dell’UDI (Unione donne italiane), organizzazione antifascista e di sinistra per la mobilitazione politica delle donne e l’emancipazione femminile. Una di loro, rimasta non individuata, alza la voce con un solido argomento per fermare il passo ai Cesarini: “se non vi fermate – grida – vi levo quelle zappe e vi spacco la testa!”.

Vedendo i nuovi coloni in atteggiamento remissivo, i toni si abbassano ed è Adelmina Fiorini ad ammonirli pacatamente: “bene, andate via, per questa volta vi perdoniamo, ma ricordatevi di non ritornare più, diversamente potreste pentirvene, non dovete prestarvi all’azione dei padroni per far buttare sulla strada delle povere famiglie”11. A quanto pare, l’azione collettiva ottiene il successo sperato di dissuadere l’invisa famiglia dei futuri mezzadri, che in realtà, nella guerra tra poveri alimentata dal giro delle disdette padronali, era pur sempre un’umile famiglia in cerca di un posto dove stare e sopravvivere. “Molto impressionato” dalla determinazione di quelle donne si dice Sigismondo Stefanini e tanto più il dodicenne Sebastiano: “capii che avevano delle intenzioni poco buone nei nostri confronti e quindi ebbi paura”; allo stesso modo, afferma Elvira: “di ritornare in quella località mi mancherebbe ora il coraggio”12. Il maresciallo comandante la locale stazione dei carabinieri, Cosimo Polo, prontamente informato dei fatti scrive nel verbale di denuncia che l’azione messa in opera

è indubbiamente ciò che oggi in queste zone da parte dei contadini viene chiamata resistenza ad oltranza alle disdette da parte dei proprietari del terreno; resistenza che dovrà essere svolta con qualsiasi azione combinata e compatta fra tutti i contadini, siano o pur no disdettati. […] Indubbiamente, in quella circostanza, se i Cesarini avessero insistito nel voler seminare la crocetta nel podere Candeline, qualcosa di grave sarebbe successo13.

Passati pochi giorni, alcune di quelle contadine, nello specifico Chiara Emanuelli Simoncini e Adelmina Fiorini, sono protagoniste di un nuovo episodio conflittuale. Il 13 marzo 1950, sull’aia del proprio podere in località Casanova di Macerata Feltria, ricevono infatti la poco gradita visita del proprietario Federico Battelli, giunto sin lì insieme ai nuovi coloni Lino, Pasquale e Ugo Mascini ed a Luigi Spagnoli, originari di Valle di Tena di Montecerignone. La situazione è del tutto simile a quella verificatasi pochi giorni prima in località Candeline: il proprietario, dopo aver recapitato la disdetta al mezzadro – in questo caso si tratta di Mario Rossi, disdettato per “inadempienze contrattuali” – porta la famiglia che ne avrebbe preso il posto a seminare l’erba da foraggio.

Giunti al podere Casanova, il proprietario entra nella stalla cercando qualcuno della famiglia, mentre i nuovi coloni restano in attesa sull’aia; nel frattempo, sentito il cane abbaiare e quindi accortasi della visita ritenuta inopportuna, la moglie del mezzadro, Chiara Emanuelli Simoncini, scende a passo svelto le scale e affronta a brutto muso la famiglia Mascini. “Facce sporche, delinquenti, lazzaroni, traditori”14, urla loro, mentre la nipote Adelmina Fiorini, che aveva osservato la scena dal campo in cui stava lavorando, accorre prontamente con la zappa ben in vista a dar manforte alla zia. I Mascini sono ricacciati fuori dall’aia a forza di grida e, a quanto pare, anche di qualche spinta ben assestata, circostanza sempre negata dalle donne di casa che, nei successivi interrogatori, negano anche i coloriti insulti affermando di essersi limitate ad apostrofare come “sfacciati” i visitatori.

A quel punto il proprietario Battelli, vista la situazione, attraversa il campo per raggiungere il mezzadro Mario Rossi che insieme al fratello Sigismondo stava lavorando al confine del podere, seguito dai Mascini che si avviano nella stessa direzione badando bene a camminare sulla pubblica strada. I Rossi affermano che alla semina avrebbero pensato loro e rincarano la dose di insulti sui Mascini offendendoli “con delle parole lesive al loro onore”15. Questi, allontanandosi, si accorgono che dalla vicina località Candeline un gruppetto di una trentina tra uomini e donne si stava avvicinando al podere Casanova al canto di Bandiera rossa16, a ulteriore dimostrazione della fattiva solidarietà, cementata politicamente, tra famiglie mezzadrili della campagna montefeltresca.

Fatti come quelli descritti non passano inosservati presso le autorità di polizia. Adelmina Fiorini, Gina Bonci, Filomena Gabrielli, Chiara Emanuelli Simoncini, Gelsira Cecchetti, Ines Bindelli, Mario Rossi e Sigismondo Rossi vengono rinviati a giudizio: le sei donne per “minaccia grave” nei confronti dei Cesarini; Chiara Emanuelli Simoncini e Adelmina Fiorini anche per minacce, ingiurie e violenza privata verso i Mascini; i due fratelli Rossi per ingiuria, sempre verso i Mascini.

Le sei imputate sono assolte dalla prima imputazione per insufficienza di prove, non essendo possibile stabilire con esattezza chi fra loro avesse minacciato di prendere a zappate in testa i nuovi coloni: “indubbiamente a sproposito – scrive il giudice – ed effettuato di certo anche in termini tutt’altro che corretti fu l’intervento di queste donne, ma, in concreto, nessun serio elemento perviene ad indurre questo giudice collegiale ad individuare precisi estremi di reato di quel deprecato comportamento”17.

Chiara e Adelmina sono assolte anche dai successivi capi d’accusa. Allontanando i Mascini non avrebbero infatti commesso violenza privata, semmai esercizio arbitrario delle proprie ragioni, non avendo i nuovi coloni alcun diritto ad entrare nell’aia senza il consenso dei residenti: “se per il rapporto di mezzadria – si legge ancora nella sentenza – il proprietario di un fondo ha diritto a visitare lo stesso, non uguale diritto gli si può attribuire di condurvi altri nella casa colonica o sue appartenenze, contro la volontà del legittimo occupante”. Inoltre, poiché la visita del proprietario e dei nuovi coloni, come ammesso dagli stessi in dibattimento, “non era motivata dalla ferma volontà di procedere alle operazioni di semina, ma unicamente di chiedere se il mezzadro Rossi consentisse o meno a che si effettuasse detta semina”, stando così le cose, le donne non avrebbero operato alcuna arbitraria costrizione. Per quanto riguarda le ingiurie e le minacce, infine, non è dato procedere per il ritiro della querela da parte dei Mascini, una mossa evidentemente dettata dalla volontà di non inimicarsi ulteriormente la comunità mezzadrile del territorio dove di lì a poco sarebbero dovuti andare a vivere.

A dicembre il procuratore della Repubblica Giuseppe La Capria firma il ricorso in appello. A suo parere, per quanto riguarda l’episodio dell’8 marzo, non è necessario individuare chi pronunciò le frasi minacciose contro i Cesarini, perché l’atteggiamento intimidatorio delle donne, ampiamente provato in dibattimento, era già di per sé una grave minaccia; mentre in riferimento ai fatti del 13 marzo era a suo dire evidente la volontà di Battelli – “nella credenza di contare ancora qualcosa sulla sua proprietà” – di iniziare la semina quel giorno, cosa che gli era stata arbitrariamente impedita, anzi “drasticamente erasi già fatto comprendere allo stesso Battelli che la semina con i nuovi coloni egli non l’avrebbe fatta né quel giorno né mai”18. L’11 maggio 1951 la Corte d’appello di Ancona conferma la sentenza di primo grado con la definitiva assoluzione delle imputate e degli imputati.

 

Epilogo

Il vero epilogo è rappresentato dall’inizio dell’abbandono delle campagne e delle zone montuose. I contadini, specie i più giovani, attratti dal miraggio del benessere cominciano a riversarsi nei centri urbani della costa per lavorare nelle nuove industrie, nelle attività turistiche e commerciali in espansione o, scesi dal mulo e saliti sulla Cinquecento, per diventare essi stessi quei piccolissimi imprenditori del modello marchigiano di industrializzazione diffusa, basato sui ben conosciuti autosfruttamento e organizzazione familiare del lavoro.

Nel giro di pochi anni si consuma una svolta epocale per le campagne marchigiane: tra il 1951 e il 1971 la quota di popolazione attiva in agricoltura passa dal 60,2% al 25,3%19. Solo negli anni Sessanta oltre 7.000 aziende mezzadrili scompaiono dalla scena regionale. La legge, infine, arriva a decretare la morte di una realtà che già non esiste più: nel 1964 viene vietata la stipulazione di nuovi contratti di mezzadria, nel 1982 quelli residuali ancora in vigore sono convertiti in contratti di affitto20.


Note

1 L’immagine di apertura è una foto di Mario Giacomelli.

2 «Bandiera rossa», a. 2, n. 6, 6 aprile 1944, cit. in Anna Maria Della Fornace, La questione mezzadrile nel Pesarese dalla Resistenza alla metà degli anni Cinquanta, in Istituto per la storia del movimento di Liberazione nelle Marche, Le Marche nel secondo dopoguerra, Ancona, Il lavoro editoriale, 1986, p. 69.

3 Testimonianza di Gina Rossi. Tutte le testimonianze citate sono state raccolte da Anna Maria Della Fornace e Sandro Severi nel 1981-1982, le trascrizioni si trovano in Archivio ANPI di Pesaro, b. “Atti processo di Urbino per la lotta dei contadini mandamento di Macerata Feltria”.

4 Su questo episodio si vedano: A.M. Della Fornace, Sandro Severi, Il sequestro dei padroni per il Lodo De Gasperi. Lotte mezzadrili nel mandamento di Macerata Feltria, 1944-1950, in Marginalità, spontaneismo, organizzazione. 1860-1968, uomini e lotte nel Pesarese, a cura di Paolo Sorcinelli, Pesaro, Iders, 1982, p. 93-122 e Luigi [Balsamini], Macerata Feltria, 1947. Quella volta che i contadini sequestrarono i padroni, “Malamente”, n. 14, p. 73-97.

5 Disposizioni per il contratto di mezzadria, decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato del 27 maggio 1947, n. 495.

6 Archivio ANPI di Pesaro, testimonianza di Mario Ugolini.

7 Ivi, testimonianza di Elio Della Fornace.

8 Cfr. Doriano Pela, Terre e libertà. Lotte mezzadrili e mutamenti antropologici nel mondo rurale marchigiano (1945-1955), Ancona, Il Lavoro editoriale, 2000, p. 159-171.

9 Archivio ANPI di Pesaro, testimonianza di Giovanni Costantini.

10 La prima, seconda e quarta citazione sono tratte dalle deposizioni di Biagio Camporesi, rispettivamente di fronte al pretore Orlando Alessandri, al maresciallo dei carabinieri Cosimo Polo e in udienza, la terza citazione è tratta dalla sentenza di primo grado. La documentazione relativa agli episodi descritti in questo paragrafo si trova in Archivio di Stato di Pesaro, sezione di Urbino, Tribunale penale di Urbino, Atti penali, 1950, n. 227/50 P.M.

11 Rapporto giudiziario del maresciallo Polo, 8 marzo 1950.

12 Dichiarazioni di Sebastiano Stefanini, Sigismondo Stefanini ed Elvira Bernardini al pretore Alessandrini.

13 Rapporto giudiziario del maresciallo Polo, 8 marzo 1950.

14 Rapporto giudiziario del maresciallo Polo, 17 marzo 1950.

15 Ibidem.

16 Interrogatorio di Pasquale, Ugo e Lino Mascini e Luigi Spagnoli, presso la stazione dei carabinieri di Macerata Feltria.

17 Sentenza del Tribunale penale di Urbino, 22 novembre 1950, firmata dai magistrati Vittorio Mungioli, Carlo Falqui-Massidda, Giuseppe Barbarisi.

18 Motivazioni del ricorso in Appello, Urbino, 13 dicembre 1950.

19 Cfr. Ercole Sori, Luca Gorgolini, Evoluzione demografica, sviluppo economico e mutamento sociale, in La provincia di Pesaro e Urbino nel Novecento: caratteri, trasformazioni, identità, Venezia, Marsilio, 2003, v. 1, p. 6.

20 Cfr.: Legge n. 756 del 15 settembre 1964, “Norme in materia di contratti agrari”; legge n. 11 dell’11 febbraio 1971, “Nuova disciplina dell’affitto di fondi rustici”; legge n. 203 del 3 maggio 1982, “Norme sui contratti agrari”.