“There was no genocide in Rakhine”. Cronaca di un viaggio nella Birmania occidentale tra storia, conflitti e contraddizioni

Il Rackine, o, come preferiscono chiamarlo i suoi abitanti, l’Arakan, è uno stato del Myanmar (o Birmania) occidentale che si affaccia sul Golfo del Bengala e confina a nordest con il Bangladesh. Le Arakan Mountains isolano la regione e rendono difficili i collegamenti, se non via mare.

Nell’VIII secolo con i mercanti arabi che viaggiavano nel sudest asiatico, arrivò in quella regione l’Islam, religione che poi ebbe un successivo rafforzamento nel XV secolo con la sudditanza dell’Arakan al Sultanato del Bengala. Nel XVI e XVII secolo l’Arakan prosperò come Regno indipendente di Mrauk U (la capitale) con rapporti con la compagnia delle Indie olandese e con il Portogallo. A metà del XVII secolo conobbe la dominazione dell’impero islamico Mogul, e a partire dall’inizio del XVIII secolo declinò rapidamente.

Dopo la conquista da parte della British East India Company, l’Arakan divenne una delle divisioni dell’India britannica e dalla vicina Chittagong, provincia del Bengala, confluirono numerosi coloni, impiegati nella produzione del riso, di cui l’Arakan era grande esportatore. Nel 1937 divenne parte della Birmania britannica. Durante la seconda guerra mondiale, la regione fu occupata dal Giappone e dal dopoguerra divenne una provincia birmana. Nel 1982 la legge sulla nazionalità birmana privò gli abitanti della cittadinanza e nel 1989, la giunta militare cambiò il nome ufficiale della Birmania in Myanmar, e in seguito il nome di Arakan State in Rakhine State.

Cominciano qui i conflitti tra lo stato birmano, i nazionalisti rakhine e la minoranza rohingya, e in tempi più recenti l’esodo di questi ultimi nei paesi vicini a causa delle operazioni militari da parte del Tatmadaw (Esercito del Myanmar). Il conflitto con il Tatmadaw si somma a quello tra le comunità musulmane rohingya e buddiste rakhine.

I problemi nascono principalmente dalla differenziazione religiosa e sociale tra buddisti rakhine e musulmani rohingya. Durante la seconda guerra mondiale in Birmania i musulmani rohingya, erano alleati con gli inglesi in cambio della promessa di uno stato autonomo musulmano, e combatterono contro i buddisti rakhine locali, alleati con i giapponesi. Dopo l’indipendenza nel 1948 il governo, prevalentemente buddista, ha negato la cittadinanza ai rohingya, sottoponendoli a una vasta e sistematica discriminazione nel paese.

Dal 1947 al 1961, i mujahideen dei rohingya combatterono l’esercito birmano nel tentativo di ottenere, invano, l’autonomia. Negli anni ’70 i movimenti separatisti rohingya ripresero vigore, così come la repressione governativa, che culminò nel 1978 con l’Operation Dragon King che costrinse più di 150.000 rohingya a fuggire nel vicino Bangladesh. Da allora l’esercito clandestino rohingya, (Rohingya Solidarity Organisation (RSO) fu protagonista di attacchi alle autorità birmane vicino al confine tra Bangladesh e Myanmar. L’esercito birmano rispose militarmente, in una lunga escalation di violenze e di atti di vera e propria pulizia etnica, che ebbe il suo apice nell’agosto 2017, dopo gli attacchi simultanei dell’Arakan Rohingya Salvation Army a 24 posti di polizia e una base militare, che portarono all’uccisione di 71 soldati. Ad oggi più di 800 mila rohingya sono stati deportati o sono fuggiti dalla propria terra, e il governo del Myanmar è stato accusato di genocidio.

Avevamo programmato per il mese di gennaio 2020 un viaggio in quelle zone, attratti dalle vestigia della vecchia capitale del regno di Arakan,  Mrauk U,  con i suoi 49 re che dal XIII secolo e per 350 anni regnarono su uno dei più grandi imperi del Sud-Est asiatico, estendendosi dal fiume Irrawaddy al Gange. Ma quando siamo arrivati a Mrauk U, dopo un avventuroso viaggio in auto durato oltre quattro ore per percorrere poco più di cento chilometri, costeggiando una ferrovia a binario unico, in disuso perché gli abitanti avevano osteggiato la sua costruzione decisa dal governo centrale, cominciammo ad intuire che i problemi dello stato Rakhine erano molto più complessi. Eravamo in tre, in un tardo pomeriggio di una giornata faticosa, e la prima cosa che ci balzò agli occhi fu la città: cadente, un’accozzaglia di macerie e edifici pericolanti, strade completamente dissestate, gli alberghi, anche dalla parvenza lussuosa, chiusi, solo il nostro aperto, e “abitato” da un unico altro sparuto gruppo di belgi, capitati lì per caso. Le finestre della hall attraversate da buchi di proiettili. Appena effettuato il check-in ci venne consigliato di andare presto a cena, perché dopo le 8.30 della sera è molto pericoloso farsi trovare in giro.

Il giorno dopo, la nostra guida, un ragazzo che abbiamo incontrato nei pressi dell’albergo, ci porta a vedere le rovine: passeggiando completamente soli tra boschetti, antichi templi e palazzi, ci mostra la cima della collina: ecco, li vedete, i soldati del Tatmadaw (l’esercito del Myanmar) stanno pattugliando. Solo due settimane fa qui c’è stato uno scontro a fuoco. Con chi? Chiediamo. Coi ribelli dell’esercito dell’Arakan, l’Arakan Army, ci risponde. Più tardi, passeggiando, raccogliamo da terra un bossolo di kalashnikov che il ragazzo ci dice appartenere al Tatmadaw.

E ci rendiamo conto che il conflitto in atto è complesso e contradditorio. La stragrande maggioranza della popolazione Rakhine non riconosce il governo del Myanmar, che si rende attore di violenze e sopraffazioni notevoli, e ha creato un esercito clandestino che si oppone con atti di sabotaggio e di guerriglia a quella che viene vissuta come un’occupazione militare.

Uno degli ultimi episodi, avvenuto nel 2019, l’attacco dell’AA (Arakan Army) a quattro stazioni di polizia nel Rakhine occidentale, in cui sono stati uccisi 13 militari, ha inasprito ulteriormente il conflitto. L’esercito del Myanmar ha promesso di “schiacciare i terroristi”, segnando l’inizio dell’ultimo capitolo sanguinoso nei conflitti senza fine del paese, condotto principalmente tra i Tatmadaw e vari gruppi ribelli etnici, non solo nel Rackine.

La sensazione per i civili come noi che arrivavamo da fuori era stranissima: nessuno ci voleva accompagnare in uno dei pochi ristoranti ancora aperti in città, dopo le 19. All’inizio non capivamo perché, ma ci hanno spiegato che c’era il coprifuoco e si temevano atti violenti da parte dell’esercito birmano. La domenica mattina, poi, la nostra guida è stata avvisata che un piccolo contingente di soldati birmani era in giro per le vie di Mrauk U, dunque era consigliabile non uscire di casa. E, la sera prima della nostra partenza (biglietto per la barca delle 7 del mattino) una telefonata suggeriva di partire il prima possibile perché una donna rackine era stata uccisa ad un posto di blocco. Le conseguenze di questa situazione sono distruttive per una delle poche attività economiche che mobilitano flussi di valuta pregiata e consentono di far salire il livello del prodotto interno lordo: il turismo. La paura per i continui conflitti porta i proprietari di alberghi e ristoranti a chiudere, facendo decrescere il flusso di turisti stranieri. I pochi alberghi e ristoranti che restano aperti, di fronte al minor numero di turisti in arrivo alzano i prezzi, così deprimendo ulteriormente i flussi di turisti in entrata. Un circolo vizioso che si autoalimenta, una situazione tipica delle economie di guerra. E un’atmosfera di guerra, paura e rabbia si respira oggi a Mrauk U. Le meravigliose vestigia di un’antica civiltà stanno per essere ancora una volta lasciate all’abbandono, nonostante i recenti tentativi, anche grazie all’Unesco, di restaurare i magnifici templi che fecero di quella capitale dell’impero Arakan la Angkor della Birmania.

Una menzione particolare meritano i campi profughi: ne abbiamo attraversati molti, sparsi per lo stato Rakhine, e la contraddizione forse più forte è a Mrauk U: in mezzo ad una vallata c’è un grande campo profughi rohingya, superaffollato, la gente che vaga senza meta tra le vie polverose tra una baracca e l’altra, i bambini che ci guardano attraverso le palizzate di confine1, poco più in là un villaggio rakhine completamente vuoto: le capanne deserte e abbandonate da contadini costretti a spostarsi perché l’economia agricola è soffocata dalla guerra.

Il governo centrale di Aung San Suu Kyi ha enormi responsabilità in questa situazione: la politica è quella della cieca repressione. Il vero responsabile delle violenze è il Comandante in Capo dell’Esercito birmano Aung Min Hlaing. Il silenzio di Aung San Suu Kyi potrebbe essere visto come un tentativo di evitare che l’esercito dichiari lo Stato di Emergenza per riprendere definitivamente il controllo del Myanmar. Ma alla luce delle atrocità commesse fino ad oggi la linea del non intervento non è più accettabile.

La nostra guida, alla domanda sul “nuovo corso democratico” di Aung San Suu Kyi, risponde con una sola parola: delusione. Il Rakhine e le minoranze di tutto il Myanmar avevano sperato molto in lei, ma l’unico risultato che il Myanmar ha ottenuto è la visibilità a livello internazionale. Le cose per la popolazione non sono cambiate.

Il Myanmar è un Unione di stati dove si parlano più di un centinaio di lingue e 135 sono le etnie censite ufficialmente (i Rohingya non sono censiti) e dal dopoguerra il regime militare ha affrontato i conflitti e le diversità tra etnie e territori soltanto con la repressione. Purtroppo Aung San Suu Kyi pare non voler dare una svolta umanitaria alle varie situazioni, non solo la più eclatante, quella dei Rohingya, o dei Rakhine, ma anche con i Kachin, i Chin (un piccolo gruppo ormai isolato in villaggi quasi inaccessibili nello stato omonimo, dove siamo arrivati con una piccola giunca lungo il fiume), i Karen, gli Shan, e molti altri.

D’altra parte, la cosa che più ci ha sorpreso, è stato leggere in prima pagina su un quotidiano birmano di lingua inglese, il “Global New Light of Myanmar” del 24 gennaio 2020, “There was no Genocide in Rakhine” – non ci fu genocidio in Rakhine, esattamente pochi giorni dopo che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva approvato una risoluzione di condanna per abusi dei diritti umani – arresti arbitrari, torture, violenze – ai danni degli islamici rohingya e di altre minoranze in Myanmar. Un monumento alla correttezza dell’informazione.

Partiti fortunosamente all’alba da Mrauk U, arriviamo a Sittwe, dove un grande campo profughi rohingya ci ricorda che è da qui che è partita una delle grandi ondate di pulizia etnica contro questo popolo e passiamo davanti alla bellissima moschea della città, ora abbandonata, piena di erbacce e transennata, presidiata da soldati armati per impedirne l’avvicinamento: lasciata così, non più toccata da quei giorni del 2013 in cui nelle sommosse centinaia di  rohingya sono stati uccisi e migliaia deportati nei campi birmani e del Bangladesh.

Abbiamo lasciato il Rakhine agli inizi di febbraio 2020, ma da allora gli scontri si sono intensificati. Il responsabile delle Nazioni Unite sui diritti umani in Myanmar chiede un’inchiesta immediata sull’esercito del Myanmar, a seguito delle accuse di continui crimini di guerra e crimini contro l’umanità negli Stati occidentali di Rakhine e Chin. “Il Tatmadaw sta sistematicamente violando i principi fondamentali del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. La sua condotta contro la popolazione civile degli Stati di Rakhine e Chin potrebbe equivalere a crimini di guerra e crimini contro l’umanità”, ha affermato2.

La violenza dunque aumenta mentre anche il Myanmar affronta l’emergenza sanitaria del coronavirus. L’Arakan Army aveva dichiarato per aprile 2020 un cessate il fuoco di un mese a causa del diffondersi anche in quelle zone del COVID-19.

L’esercito del Tatmadaw, tuttavia, lo ha respinto, anzi è accusato di aver inasprito il conflitto con raid aerei e di artiglieria nelle aree civili negli stati di Rakhine e Chin, uccidendo e ferendo “decine di adulti e bambini”3. Sempre secondo il rapporto delle Nazioni Unite, uomini sospettati di legami con l’Arakan Army sono stati detenuti per giorni e torturati. Nel marzo 2020 sono stati distrutti o dati alle fiamme scuole, case e un tempio buddista, e un intero villaggio di 700 abitazioni. “In un attacco di artiglieria del 13 aprile 2020, il Tatmadaw ha ucciso otto civili, tra cui almeno due bambini, e ha colpito il villaggio di Kyauk Seik, nel comune di Ponnagyun, con artiglieria dalla vicina base del Battaglione 550 in Rackine”4.

Non c’è pace per il Rakhine, per i rohingya e per le etnie che fanno parte del tormentato stato del Myanmar.


Note

1 Ritratti nella foto di apertura dell’articolo.

2 Rapporto delle Nazioni Unite in: https://www.aljazeera.com/news/2020/04/rapporteur-urges-probe-myanmar-war-crimes-200428072927948.html.

3 Sempre secondo il rapporto delle Nazioni Unite citato dal reportage di AlJazeera.

4 Ibid.