In tutti i regimi totalitari del Novecento – in Unione Sovietica, in Germania, in Italia – il cinema si piegò in maniera netta e univoca alle esigenze della propaganda. Per Stalin, Hitler e Mussolini era fondamentale controllare le masse e «educarle»: il cinema (insieme alla radio e alla stampa) era il miglior mezzo per raggiungere questo scopo, attraverso il controllo della produzione e la censura.
Nei paesi democratici accadde qualcosa di diverso, ma per alcuni aspetti simile: con toni più sfumati e senza le costrizioni tipiche dei regimi. Nell’Italia repubblicana, il cinema continuò a rappresentare una potente arma di comunicazione di massa e come tale fu soggetta alla censura delle istituzioni deputate al suo controllo. All’epoca i temi politici caldi che preoccupavano i censori erano essenzialmente di tre tipi. Da un lato, la denuncia dei «panni sporchi», l’attenzione ai temi sociali che pareva a volte troppo politicamente caratterizzata; dall’altro lato, c’era lo spettro del fascismo, presente e scomodo, contro il quale urtarono film come Anni difficili di Luigi Zampa o Tragica alba a Dongo di Vittorio Crucillà. E, infine, c’era la preoccupazione per il buon nome delle forze dell’ordine, della politica e dei funzionari statali, che conduceva a interventi su alcuni casi di satira troppo azzardata1.
La censura fu particolarmente attiva nell’ambito della produzione di documentari, dove la macchina da presa era più direttamente al servizio della realtà che le stava di fronte. In vari casi si trattava di produzioni commissionate da gruppi vicini alle sinistre o comunque maturate nell’alveo di questa cultura politica. Per cui, nella maggior parte dei casi, vi erano riprese di operai sfruttati nelle fabbriche, di contadini che reclamavano la terra, di cittadini divisi da disparità sociali, di immagini che mostravano la fame e la miseria che caratterizzavano l’Italia del secondo dopoguerra. Nonostante il clima di riconquistata libertà degli anni cinquanta, anche per i retaggi della cultura del ventennio, la censura dei mezzi di divulgazione mise più volte i bastoni tra le ruote delle cineprese.
In una stagione politica incentrata sui governi a guida democristiana, nei quali spiccava la figura autoritaria di Mario Scelba, non era rara l’insofferenza verso condizioni giudicate liberticide. In varie città, si avevano manifestazioni nelle quali operai e braccianti – sotto l’egida del Partito comunista – protestavano gridando contro lo «scelbismo», come venne da allora chiamato l’insieme delle varie discriminazioni nei loro confronti. In un’intervista del 21 settembre 2019, lo storico Sabino Cassese sostenne che lo scelbismo era «l’espressione più significativa della vocazione repressiva, ereditata dal precedente regime, che fino ai primi anni settanta l’Italia non [aveva] mai dismesso nei propri corpi statuali»2. E uno dei mezzi per attuare tale strategia fu appunto la censura.
In questo articolo prendiamo in breve considerazione un filmato tratto dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico (Aamod)3. Si tratta del documentario Modena, una città dell’Emilia rossa – liberamente fruibile online4 –, del regista di fama internazionale Carlo Lizzani, molto vicino al Pci, ma non organico ad esso, tanto da essere abbastanza scettico rispetto alle «magnifiche sorti e progressive»:
Da sempre attento alla visione storica e all’attualità del suo tempo, anche in questo documentario Lizzani dimostra una volta di più il prodigo slancio di sempre nella dedizione del suo cinema e, ancor più, della sua vita dalla parte “dei giusti”, dalla parte di una civile, democratica visione del mondo5.
Il soggetto del documentario è Modena, di cui se nei ripercorrono le origini, partendo dagli illustri natali romani, i curiosi aneddoti dell’età comunale, fino alle vicende principali delle trasformazioni degli anni cinquanta. La città emiliana, infatti, scelta come sede del convegno nazionale del comitato della «Costituente della terra», era stata per un giorno Capitale dei contadini d’Italia, che l’avevano scelta come proprio teatro, grazie alla sua idea di futuro, nonché per il coraggio dimostrato dai suoi cittadini nel passato.
Ed è la voce di Gianni Rodari che racconta tutte queste vicende. Lo scrittore, oggi famoso soprattutto per la letteratura per bambini e ragazzi, trasporta gli spettatori in un’altra epoca, così lontana eppure così vicina, tratteggiando con la sapienza di un pittore le figure degli operai che dopo anni e anni di lavoro in condizioni bestiali nelle miniere del modenese, finalmente vedono le loro condizioni migliorarsi grazie agli investimenti fatti dal Comune, grazie al progresso tecnologico industriale, o grazie all’alleanza politica coi ceti medi delle campagne, ovvero quei contadini che richiedevano a gran voce la terra che era stata promessa loro.
In tale scenario, oggi sembra strano essere accompagnati dalla guida virgiliana di Gianni Rodari. Tuttavia, non ci deve sorprendere la sua presenza in un tale produzione, né la sua adesione al pensiero comunista. Rodari si era iscritto al Pci sin dal 1944: era stato «militante attivo nella lotta partigiana, poi funzionario e giornalista in varie testate legate o vicine al partito. La sua fu un’adesione leale e che tenne uniti il riserbo e una rara autonomia intellettuale»6.
Questa autonomia fu in parte oltraggiata dalle operazioni di taglio e cucito a cui fu sottoposto il filmato. Più volte nel documentario i manifestanti gridano «Niente si conquista senza lotta» e questo sembra preannunciare il lungo iter burocratico a cui tale prodotto cinematografico avrebbe dovuto sottoporsi prima di essere reso pubblico.
Archiviato come «Film di propaganda del Partito comunista degli anni Cinquanta sull’arte, le attività economiche, la lotta all’occupazione, la modernizzazione dell’industria e i servizi sociali a Modena», non sembrò destare nessun sospetto di anomalie, tuttavia basta guardare più attentamente nella documentazione per ritrovare una serie di visti, di lettere e di altro materiale che testimonia come ne sia stata impedita la visione per un lungo periodo. Almeno fino a quando, dopo una pesante revisione, non si è giunti alla versione oggi disponibile. Sul visto censura, tra le prescrizioni, è specificato quanto segue: «eliminare dal commento le parole “i braccianti senza terre spinti dalla miseria occupano le riserve di caccia. Sotto i loro colpi vigorosi cedono i privilegi che sono di ostacolo alla produzione”; e le parole “sebbene privo di autonomia comunale”»7. Nella documentazione, oltre al copione preparato per Rodari con le frasi ritenute «pericolose per l’ordine pubblico», sottolineate e sbarrate, è possibile trovare anche lettere di politici del Modenese, di area democristiana o comunque moderata, che insistono nell’impedire l’uscita del film senza modifiche.
Come mai quello che veniva dopotutto presentato come un semplice documentario sulla città di Modena finiva per creare così tanto rumore? Non era il mercato del bestiame immortalato da Lizzani a destare il clamore; piuttosto, il clima politico del Modenese, all’epoca animato da manifestazioni dei lavoratori, rinvigorite dalla memoria della recente lotta di Liberazione, veniva presentato senza ambiguità, con espliciti riferimenti al trattamento subito dalla classe operaia della città e dei principali centri industriali della provincia. Inoltre, si approfondiva l’operato delle giunte comunali, imperniate sul Pci e all’epoca interpreti di quel «modello emiliano» che in un certo senso avrebbe fatto scuola anche al di fuori della regione8.
E così, anche nei confronti di un regista del calibro di Lizzani, all’interno di un progetto in cui collaborava lo stesso Gianni Rodari, la grande macchina della censura non si placò, ma produsse fogli e fogli pieni d’inchiostro, affinché fosse impedita l’apertura di una finestra sulla realtà di quegli anni, in una città che stava rinascendo dalle rovine della guerra, che sfoggiava a mo’ di exempla i nomi dei partigiani e delle vittime del fascismo; una città che anche grazie alle spinte della riflessione comunista stava lavorando senza sosta per costruire una nuova realtà più equa per tutti.
Note
1 Cfr. http://cinecensura.com/sala-i-temi/politica/.
2 Cfr. «La Repubblica», 21 settembre 2019, p. 3.
3 L’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico (Aamod) nacque nel 1979 come associazione deputata alla conservazione audiovisiva. Ereditò il patrimonio filmico del Partito comunista italiano e della Unitelefilm, società di produzione cinematografica legata al Pci. Il primo Presidente di tale archivio fu Cesare Zavattini. Nel 1983 il patrimonio dell’archivio venne dichiarato dalla Soprintendenza archivistica per il Lazio di notevole interesse storico: fu il primo archivio audiovisivo italiano a ricevere tale notifica.
4 http://patrimonio.aamod.it/aamod-web/film/detail/IL8300001575/22/modena-citta-emilia-rossa.html?startPage=0&idFondo=IL8000000009.
5 Cfr. «La Repubblica», 13 luglio 2013.
6 Paola Pavese, Pionieri del futuro. Una proposta pedagogica comunista, mimeo, 2014, p. 11, https://issuu.com/paolapavese/docs/pionieri_del_futuro.
7 Cfr. https://cinecensura.com/politica/modena-una-citta-dellemilia-rossa/.
8 Carlo De Maria (a cura di), Il modello emiliano nella storia d’Italia. Tra culture politiche e pratiche di governo locale, Bologna, Bradypus, 2014.