Cronache degli anni del boom. Il cinema racconta il miracolo economico (1959-1965)

Miracolo economico

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, grazie anche al nuovo contesto creato dal mercato comune europeo, l’Italia è protagonista – e in certo qual modo “vittima” – di una radicale trasformazione economica, sociale e culturale. Un miracolo. Come scrive, per esempio, il 25 maggio del 1959, il quotidiano londinese, “Daily Mail”: «il livello di efficienza e di prosperità del potenziale produttivo dell’Italia è uno dei miracoli economici del continente europeo». Il boom investe le regioni settentrionali e determina una migrazione interna imponente e traumatica. La disoccupazione è a livelli bassissimi. I consumi privati esplodono: le automobili e le motociclette decuplicano, gli elettrodomestici entrano in molte case.

 

Cinema testimone

Attraverso la televisione (Carosello, tanto per annotare una data, è nato nel 1957), s’impongono nuovi stili di vita e modi di consumare. Si diffonde l’italiano: quello standardizzato del piccolo schermo, naturalmente. Dal quale gl’italiani imparano a vestirsi, mangiare, andare in vacanza… Il cinema, fino a quel momento principale «agente» dell’industria culturale, comincia a cedere il passo alla televisione. Certo ancora per qualche lustro sarà florido dal punto di vista produttivo; e molto seguito dal pubblico. Ma è ormai chiaro che non è (o non sarà più tra breve) il creatore egemone di mentalità, valori, miti. Si sta trasformando, pur se lentamente, in un testimone (o una spia) dei tempi che cambiano. Un sismografo. Un “occhio” che registra gli avvenimenti “come accadono”. Chi scorra le filmografie dell’epoca ne troverà molti esempi. Diretti e indiretti. Non saranno dunque i sociologi, gli antropologi, i commentatori di costume, gli storici dell’«immediato»1, gli analisti dei nuovi tempi, gli uomini politici, i giornalisti, ma i cineasti che per primi mostreranno sugli schermi il grande rivolgimento in atto.

 

Film esemplari d’autore

L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni, La dolce vita (1960) di Federico Fellini, Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti, elencati in rigoroso ordine alfabetico, oltre che film assai noti e amati, dischiudono le porte dei nuovi tempi, anche se, a rigore, nessuno di essi si riferisce in modo esplicito e diretto al boom economico.

La dolce vita mette in scena un’epoca, che Calvino definisce «la nostra belle époque», caratterizzata dalla «gioia di vivere e la paura del futuro, il piacere del sesso e l’orrore del peccato, la decadenza della nobiltà e lo smarrimento degli intellettuali». È l’Italia del miracolo economico «ricca, felice, corrotta e disperata». Che l’«occhio di Fellini ha visto prima e meglio di altri», e mostra senza voler dimostrare nulla, senza giudicare «cosa sta diventando il nostro paese»2. Non solo, il regista incastona nel film la scena di uno spogliarello, ispirato a quello improvvisato dalla ballerina turca, Aiché Nana, in un locale di Trastevere, il Rugantino. Che, finito sui giornali, provoca un autentico scandalo nell’Italia bigotta dell’epoca con conseguente chiusura del locale. Con lo spogliarello di Aiché Nana al Rugantino, il 5 novembre 1958, ha inizio la «dolce vita». Ma sarà un altro corpo erotico, quello della divina Anita Ekberg che si bagna nella fontana di Trevi, a diventare, secondo l’opinione comune, il simbolo di quell’epoca.

Rocco e i suoi fratelli è un resoconto del dramma dell’emigrazione interna innescata dal boom. Rosaria Parondi dalla Lucania coi quattro figli raggiunge il quinto che è già a Milano. La campagna si scontra con la città. La famiglia arcaica si disgrega nell’incontro con la società urbana. Il mondo del pugilato. La prostituzione. (Lo stesso dramma ha cercato di restituirci Gianni Amelio con Così ridevano del 1998. Il film vincitore della Mostra di Venezia rimanda a Rocco anche perché in esso si mostra un rapporto tra fratelli. Riguardo al boom, la prima parte ne rappresenta l’altra faccia in modo eccellente: la Torino buia e cupa degli immigrati tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta).

Antonioni in L’avventura, primo film di una trilogia sull’incomunicabilità e  la provvisorietà dei sentimenti, coi modi del giallo psicologico, indaga sul disagio di coloro che, invece, dovrebbero essere beneficiati dal miracolo economico. Lea Massari, protagonista del film, è vittima di un malessere sottile e inspiegabile. Solitudine. Alienazione.

Al centro di un altro film del regista, pochi anni dopo, il tema dell’industrializzazione. Gian Piero Brunetta, descrivendo la scoperta del paesaggio nazionale da parte del cinema tra il ’45 e il miracolo economico, pone alla fine del percorso «uno dei film più inquietanti e apocalittici» – parole sue –, «in cui il paesaggio di Ravenna è tutto ridisegnato a misura dei grandi impianti petrolchimici dell’Eni di Enrico Mattei». Il film è Il deserto rosso (1964), girato a Ravenna da Antonioni, che «sembra essersi ispirato – aggiunge Brunetta – alle tele di Burri per rappresentare le devastazioni esterne e interiori prodotte dall’industrializzazione»3. La Romagna rurale o tutt’al più turistica, diventa il fondale emblematico del miracolo economico e dei suoi guasti. Antonioni4 descrive così l’effetto dell’industria sull’ambiente naturale:

Prima di tutto il silenzio, che mancava completamente. Anche penetrandovi dentro, cosa che io feci subito, il bosco non rivelava rumori e nemmeno odori suoi tipici, ma era costretto ad accettare attenuandoli appena quelli cittadini, o se volete periferici. Era circondato da strade, assediato: auto autocarri motorette in continuazione, persino un treno, sulla base costante di un ronzio di macchinari misto a sibili di vapore, e come odore quello del fumo giallo pieno di acidi che impestava tutta la zona. Ronzio e fumo provenivano dalla grossa fabbrica (3000 operai) costruita nel mezzo di una enorme pineta della quale il bosco attuale è ciò che rimane, per il momento. La fabbrica è in funzione giorno e notte […]. È noto che Ravenna era circondata fino a una ventina di anni fa da immense pinete e che oggi queste pinete stanno morendo. Lo si vede a occhio nudo: alberi secchi, rattrappiti, che, è proprio il caso di dirlo, vegetano senza speranza.

La storia, narrata nel film, è quella di una nevrosi. Che è posta in relazione costante, anche attraverso la ricolorazione del paesaggio, con l’ambiente sotteso: Ravenna «in cui il nuovo – la raffineria – è tutto visto, mentre il vecchio è dato per scorci o per implicito»5.

Forse è un po’ troppo semplicistico formulare l’equazione industrializzazione uguale alienazione, e Antonioni in una celebre intervista a Godard parla della «beltà di quel mondo, dove anche le fabbriche possono essere molto belle»6. Eppure, chi guardasse il film (ciò che conta sono le immagini), alla ricerca della bellezza della modernità, anche compiendo uno sforzo “tardofuturista”, vi troverebbe l’esatto opposto. Incorniciato in due sequenze che mostrano (quella iniziale con maggiore dovizia di particolari) la fabbrica (ciminiere, fumo, attrezzi industriali), punteggiato da scene in esterni naturali dove è ricorrente il segno del nuovo (scarichi, rifiuti, plastica), attraversato da navi che sbucano in moli nebbiosi, popolato da tralicci, piattaforme e rottami metallici, con la Ravenna vecchia, deserta e appena mostrata, e sopra tutto il fischio delle sirene e il ronzio continuo delle macchine, Il deserto rosso mostra un paesaggio dilaniato, nel quale agiscono dei “sopravvissuti”, a cavallo tra il vecchio e il nuovo. E dove, di certo, nuovo non significa migliore.

 

Film storici

Le tracce del presente si trovano, ancorché in modo indiretto, anche nei film ambientati nel passato. Eccone due esempi. Nel 1960, Rossellini, che pochi anni dopo passerà alla televisione convinto che sia il medium ideale per il suo progetto di “insegnamento” audiovisivo della storia (più o meno sulla stessa lunghezza d’onda un altro grande del cinema italiano: Alessandro Blasetti), accetta di dirigere il film del centenario dell’unità d’Italia, Viva l’Italia, che uscirà nel 1961. Ispirandosi a I Mille. Da Genova a Capua di Giuseppe Bandi, fa la cronaca della spedizione garibaldina nel meridione; racconta quasi con pedanteria i fatti: sbarco in Sicilia, vittoria nell’isola, attraversamento dello stretto, “liberazione” del resto del regno di Napoli, cessione delle regioni conquistate ai Savoia. Predilige, tuttavia, non le gesta altisonanti per i libri di storia, ma la vita quotidiana di Garibaldi e delle camicie rosse. Respingendo la retorica, rischia le trappole della retorica dell’antiretorica. Rossellini ha un programma oggettivo, per così dire: raccontare i fatti. Spiegherà più tardi, parlando del suo capolavoro La presa di potere di Luigi XIV (1966): “Non propongo un’interpretazione. Non trasmetto messaggi. Evito di esprimere delle tesi […] Ricostruisco dei documenti, offro una serie di informazioni che lasciano allo spettatore una piena responsabilità di giudizio”7. Il che lo pone in contrasto con gli sceneggiatori. I quali – Solinas e Trombadori in particolare – desiderano partecipare al dibattito contemporaneo8. Rossellini no. Eppure il film va oltre le sue intenzioni dichiarate. E, ancorché in modo allusivo, entra nella discussione coeva. All’epoca, l’attenzione al Risorgimento va sfumando, mentre cresce la polemica sul modello di sviluppo. I partiti dell’area governativa sostengono che l’obiettivo prioritario è il potenziamento dell’economia nazionale, per evitare al Paese il ruolo di fanalino di coda della Cee; l’opposizione di sinistra sottolinea soprattutto che non dovrà essere ancora una volta il meridione a pagare. Rossellini, rappresentando con dovizia di particolari il viaggio di conoscenza da parte dei Mille di una realtà sconosciuta (esemplare la scena al tempio di Segesta), suggerisce un patto di fratellanza tra nord e sud9. La storia – come sappiamo – prenderà un’altra direzione.

La polemica meridionalista si riflette in qualche modo anche in un altro film storico: Il gattopardo (1963) di Visconti. Il regista, che seguita “il discorso” sulla storia patria iniziato con Senso (1954), scegliendo come obbiettivo polemico il trasformismo – una costante della vicenda del nuovo regno –, denuncia, in termini allusivi, il fallimento della politica meridionalista, facendo propria – almeno negli intenti – la polemica gramsciana contro il Risorgimento. In tal modo, almeno a parole, riafferma la sua fedeltà al Partito comunista. Se è pur vero, infatti, che ha scelto come fondamento un romanzo conservatore se non reazionario, il libro omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, non è in discussione la sua permanenza nel campo della sinistra. Tant’è vero che gli argomenti “classici” nel film ci sono tutti: dall’unità d’Italia come conquista regia alla soggezione del sud nei confronti del nord. Nondimeno, come ha mostrato Antonio Costa10, istituendo un paragone tra i due media, il film «finisce per restare tutto sommato fedele alla visione storica dell’opera letteraria molto più di quanto i pur vistosi interventi (omissioni e integrazioni) e le sue dichiarazioni programmatiche avrebbero potuto far credere».

 

Comici

Ma chi volesse trovare le più ampie tracce del miracolo economico italiano dovrebbe volgersi, non ai film drammatici o storici, ma soprattutto alla commedia. Che «nasce a ridosso della trasformazione sociale e culturale del paese e ha con il boom un rapporto simbiotico e speculare (“la commedia del miracolo” l’ha definita Goffredo Fofi nel 1964) anche se si tratta di uno specchio deformante»11.

Assai lungo è il catalogo dei film e dei registi che mostrano il boom: da Monicelli a Risi, da Comencini a Germi, da Lizzani a Pietrangeli, da Salce a De Sica… A Risi va la palma di principale cantore “agro” (per citare un aggettivo del Luciano Bianciardi di La vita agra, proprio su quegli anni, da cui il film omonimo di Lizzani) della trasformazione. I suoi film, un paio dei quali vedremo più in dettaglio, sono altrettanti documenti quasi in presa diretta dell’Italia che cambia. Da parte loro Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi incarnano gli eroi del cambiamento.

Tra i film che tematizzano il boom economico cito, senza la minima pretesa di completezza: Esterina (1959) di Carlo Lizzani, Fantasmi a Roma (1960) di Antonio Pietrangeli, Una vita difficile (1961) di Dino Risi, La cuccagna (1962) di Luciano Salce, I nuovi angeli (1962) di Ugo Gregoretti, Renzo e Luciana (episodio di Boccaccio 70, 1962) diretto da Mario Monicelli, La bella di Lodi (1963) di Mario Missiroli, Il boom (1963) di Vittorio De Sica, I mostri (1963) di Risi12, La parmigiana (1963) di Pietrangeli, Il pollo ruspante (episodio di Ro.Go.Pa.G, 1963) di Gregoretti, Il sorpasso (1963) di Risi, Una bella grinta (1965) di Giuliano Montaldo, Io la conoscevo bene (1965) di Pietrangeli, L’ombrellone (1965) di Risi.

Ecco tre dei film citati, considerati in modo più dettagliato. Vittorio De Sica, assieme a Cesare Zavattini (o viceversa), protagonista della stagione neorealista, nella quale, come è noto, si verificò una singolare compenetrazione tra realtà e rappresentazione o rappresentazione e realtà, testimone privilegiato dunque (anzi: più che un testimone un “veicolo”, attraverso il cinema, di idee e valori) della fine della guerra e la nascita della Repubblica, pare meno interessato, per così dire, alla grande trasformazione degli anni Cinquanta/Sessanta. Nella sua filmografia compare un film del 1963 intitolato direttamente Il boom. E null’altro. Anche se, a ben vedere, tracce del miracolo si trovano in Il giudizio universale (1961) e qualche premonizione in Il tetto (1956): urbanizzazione ed edificazione più o meno selvaggia, speculazione edilizia: tratti del decollo dell’economia peninsulare.

Per Il giudizio universale alla coppia in veste di produttore si aggrega Dino De Laurentiis. Fortemente voluto da De Sica, ambizioso e difficile (parola del regista), il film deluse le aspettative dei suoi realizzatori. Ambientato a Napoli, in prevalenza la Napoli povera, popolare, servito da un cast sontuoso (dove compaiono Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Nino Manfredi; di eccezionale “qualità” il mediatore di bambini interpretato da Sordi), il film reca – com’è ovvio – i segni dell’epoca (per esempio, una scena ci mostra il centro di Napoli pieno di automobili tra le quali non poche utilitarie), ma soprattutto, dal nostro punto di vista, mette in scena la televisione: specchio e agente della modernizzazione del Paese. E non è chi non veda che la frantumazione del racconto in sketches rimanda ai modi del piccolo schermo. D’altra parte, il film a episodi è un genere che precede, almeno in Italia, la televisione. Capostipite Altri tempi (1951) di Blasetti dove i singoli episodi, pur all’interno di un pretesto narrativo generale, hanno una loro piena autonomia. Il giudizio universale colloca le varie vicende nel contesto di un più ampio racconto e le alterna: una modalità quasi mimetica del continuum televisivo. Non solo. La televisione è parte importante della storia. Poco dopo l’inizio vediamo le telecamere alla stazione: sono lì, ovviamente, per documentare un avvenimento: la venuta di un uomo politico. In seguito assistiamo a un dialogo tra Gassman e Rascel (altro membro del cast). Il primo rimprovera il secondo: «Tu stai sempre davanti alla televisione… A me il medico l’ha proibito. Tu stai mangiando e là: scontri, bombe, morti…». Rascel ribatte che la televisione, lui, non ce l’ha. Perché – presumiamo – è povero. Accanto alla deprecatio temporum, che pone tra gli accusati il piccolo schermo, che s’insinua nelle case col suo carico di tragedie, la televisione come indizio di ricchezza (o di arricchimento). Di fatti, in un altro episodio, che ha luogo nell’abitazione di una coppia di “nuovi ricchi”, che ostentano i segni della loro ascesa economica, la televisione è un punto focale. Tra parentesi, l’abitazione degli arricchiti è l’unico luogo privato dove essa si trova. La prima volta che appare, si sta discutendo del giudizio universale, annunciato da una voce stentorea e misteriosa, qualcuno esorta: «Venite! Venite! C’è la televisione!». Sullo schermo l’icona Mike Bongiorno, nella parte di se stesso. «Amici ascoltatori provate a indovinare in quale mano ho nascosto la pallina. Conterò fino a dieci». Conta fino a dieci. Quindi esclama: «Mano destra!». Qualche tempo dopo, quando l’annuncio del giudizio universale ha cominciato a guadagnare credito, una presentatrice introduce tre scienziati, che dovrebbero esprimere il loro punto di vista sull’evento. Gli scienziati, inopinatamente, non appaiono. L’annunciatrice s’impappina. Prende e se ne va. Compare la didascalia che comunica l’interruzione delle trasmissioni. Se ci fermassimo a una lettura superficiale, dovremmo dedurre l’assoluta incapacità del piccolo schermo di comunicare qualche cosa che non sia una sciocchezza. Ma in un altro momento viene, in qualche modo, sottolineata l’importanza sociale della tv. In un teatro dove scorrazzano un gruppo di bambini, l’impresario lamenta il fatto, e aggiunge che al gran ballo che si terrà nella serata sarà presente anche la televisione. E soprattutto al momento del giudizio universale il piccolo schermo riprende un ruolo di primo piano. Sono le diciotto. Finalmente la voce dà inizio al giudizio. «Cominciamo per ordine alfabetico…». Il primo chiamato è uno svizzero; la voce lo rimprovera di essere ingordo; lui ammette. Il secondo è un francese; siamo a Parigi; il peccato contestato è l’avarizia. Passiamo a Roma dove c’è un tale che s’è travestito da prete. Quindi in Germania con un nostalgico della guerra. Poi in Siria dove il “peccatore” protesta dichiarando la sua fede musulmana; la voce replica: «Come non detto». Analogo fallimento a Londra, perché la voce non conosce l’inglese. Passiamo negli Stati Uniti; un bianco viene accusato di razzismo; lui s’affanna per dimostrare il contrario. Torniamo in Italia, a Napoli; la voce rimprovera a un uomo: mi hai nominato invano; questi cerca di giustificarsi… Poi comincia a piovere a dirotto (una sorta di “bagno purificatore” collettivo) e si scatena la paura del diluvio universale. Ma come è stato possibile far partecipare tutto il mondo al giudizio “in diretta”? È la televisione che – come abbiamo anticipato – consente il miracolo. Da Napoli a Parigi, a Roma, a Londra, ai deserti del Medio Oriente, agli Stati Uniti, la Terra è diventata un unico villaggio globale. 

De Sica, Zavattini e De Laurentiis sono all’origine anche di Il boom. Nel ruolo del protagonista Alberto Sordi. Questa la trama. Giovanni è un appaltatore che, nonostante esibisca ricchezza e lusso, versa in una situazione economica sempre più grave. Mentre cerca soluzioni (e prestiti), assillato anche dal desiderio della moglie di un alto tenore di vita, gli si palesa una via d’uscita. Un tale, che ha perso un occhio in un incidente, offre una somma cospicua a chi gliene cederà uno dei suoi. Giovanni si fa avanti, e concorda una cifra che potrà coprire tutti i suoi debiti. Con l’anticipo ottenuto, preso da nuovi progetti d’affari, offre regali alla moglie. Organizza anche una festa, alla quale invita tutti gli amici che non hanno voluto aiutarlo e li bistratta. Entrato in clinica, si pente e fugge dalla sala operatoria. Ma poi, convinto dalla moglie dell’uomo al quale ha venduto il proprio occhio, acconsente a rientrarvi.

I giudizi sul film sono contrastanti. Brunetta13 lo definisce «una delle commedie più amare e penetranti degli anni del miracolo economico». Vittorio Spinazzola14, invece, rileva che «l’acre paradossalità della trovata su cui si regge Il boom si limita a fornire una buona occasione alla sperimentata verve satirica di Alberto Sordi». Franco Pecori15 ribatte che la scelta di Sordi è «perfetta», ma proprio per la funzionalità del racconto, che collocato nel cuore del miracolo economico,

fotografa un momento della società italiana: siamo in bilico tra il vero e il falso, il serio e il ridicolo. I nuovi ricchi, più o meno piccoli, sono appesi al filo della contingenza e devono sfruttare fino a fondo l’arte di arrangiarsi, il cinismo quotidiano, tanto da risultare mostri privi di scrupolo e tutti risolti nella misera facciata di sorridenti vitaioli, con mogliettine da esibire e con speculazioni da nascondere.

I recensori dell’epoca notarono soprattutto – criticando Zavattini – che il soggetto riusciva poco convincente, perché non era un vero povero, vittima della miseria e della disperazione, a vendere un occhio,

ma un tipo che pretende soltanto di mantenersi a un livello sociale che le sue risorse non consentono, e di offrire a se stesso e alla moglie, a dispetto delle scarse entrate, un tenore di vita pari a quello di coloro che, con maggiore fortuna, o astuzia, o disonestà, godono sfacciatamente del “boom”, di questo cosiddetto “miracolo italiano”16.

Ma è proprio questo il punto. Percorso da oggetti simbolo dell’epoca come l’automobile (coupé, spider), con la presenza ricorrente della cambiale che consente di consumare senza limiti di sorta, punteggiato dal lusso delle case dei nuovi ricchi (a cui fanno da contrappunto le aree e i cantieri della speculazione edilizia) e commentato dalle canzoni degli anni sessanta, Il boom dipinge la mutazione antropologica dell’italiano nonché il disorientamento morale della piccola e media borghesia. Come dice un vecchio imprenditore a Giovanni: «Col boom voi giovani avete perso la testa».

Sullo sfondo una paura antica: quella dell’emancipazione della donna, per così dire. Che porterà alla distruzione la famiglia patriarcale. Non è forse il protagonista condotto alla rovina dal desiderio di mantenere elevato il tenore di vita della moglie, dalla paura di perderla? Non è la moglie del vecchio uomo d’affari a gestire tutta la faccenda della vendita dell’occhio?

È Risi, tuttavia, che realizza, come s’è detto, il film ritenuto unanimemente esemplare dei nuovi tempi: Il sorpasso

Ferragosto 1962. Un quarantenne dal comportamento sbrigativo e accattivante attraversa il deserto di Roma a bordo di una bianca Lancia Aurelia Sport supercompressa: un po’ ammaccata. Con gioviale autoritarismo trascina con sé un timido studente di legge verso il convulso formicolio della costa toscana e la mai assaporata gioia di vivere. Ma, proprio nel momento in cui l’happy-end sembra a portata di mano la foga del Sorpasso ad ogni costo fa precipitare l’auto e il suo più giovane passeggero sulla scogliera tirrenica, lasciando Bruno Cortona sul ciglio della strada: sbalzato fuori della sua Lancia “suicida” da un ultimo istintivo slancio di vitalità17.

Nel film, un road movie, teso tra un’entrata e un’uscita di strada, campeggia uno strepitoso Vittorio Gassman nel ruolo di Bruno Cortona tipico esponente dell’Italia dell’epoca. Che coltiva una propria filosofia: «Basta che guido». Così all’insegna della velocità, dell’automobile, del suono assordante del clacson18, corre questa straordinaria rappresentazione del boom. Dove l’imperativo categorico è: arrivare in fretta. Anzi: arrivare subito.

Storia di un’iniziazione, il film segna anche il passaggio del testimone dalla commedia degli anni Cinquanta, che ha per protagonisti i giovani e il loro mondo (esempio: Poveri ma belli del 1956 sempre di Risi), a quella degli anni Sessanta (la cosiddetta commedia all’italiana) dove dominano gli adulti – pur con qualche notevole eccezione – che inseguono il denaro e il successo.

Costruito per accostamento di episodi, per accadimenti, Il sorpasso riflette, come Il giudizio universale, i modi del linguaggio televisivo (anche se qualcuno ha notato che la frammentarietà del racconto, il suo procedere per aggregazione di episodi richiama il desiderio neorealista di far parlare le cose, lasciar loro spazio, ma anche le modalità di scrittura della neoavanguardia come l’accumulo linguistico) ed è costellato dai segni del presente: dai frigoriferi sparsi sulla strada dopo l’incidente del camion che li trasporta, al mangiadischi, alle canzoni dell’epoca fino al tema dell’alienazione, a cui nel film si allude attraverso Bruno che dell’Eclisse (1962) di Antonioni dice: «L’ho dormito». Nella colonna risuonano anche le cadenze regionali, dal romanesco di Gassman, al bolognese del vigile e della moglie del commendatore, al torinese della ragazza incontrata da Roberto in stazione, al centro italico del vecchio al quale danno un passaggio ecc.

Assai interessante risulta l’analisi condotta sull’evoluzione della voce fuori campo o over da Federica Villa19. In periodo neorealista, il narratore è uno speaker anonimo che attesta una certa realtà (la voce del cronista, più che dello storico), si mette a distanza, dà la parola agli eventi. Prendiamo Paisà (1946): «La notte del 10 luglio 1943, la flotta angloamericana apriva il fuoco contro le coste meridionali della Sicilia». Negli anni Cinquanta il narratore entra in contatto con la realtà rappresentata, racconta in prima persona e dichiara la propria aderenza alle persone e ai fatti: esempio di questa modalità è la voce fuori campo che apre e accompagna Non c’è pace tra gli ulivi (1950) di De Santis: «Questa è la Ciociaria: una terra che confina con il Lazio, la Campania e l’Abruzzo […] Chi vi parla è il regista del film, sono nato anch’io da queste parti e conosco molte storie accadute qui. Quella che vi racconterò si è svolta di recente su queste montagne». Infine all’inizio degli anni Sessanta il narratore con voce fuori campo «precipita nel mondo rappresentato»: esemplare è il caso di (1963): rantolo affannoso dell’incipit. È anche il caso del Sorpasso, in cui a rigore non si tratterebbe propriamente di voce fuori campo, ma di monologo interiore come dire la parola ai pensieri del protagonista.

Se Il sorpasso – forse il migliore film di Risi, certo uno dei migliori dell’epoca e che ebbe un’enorme fortuna al botteghino – «critica» il comportamento della borghesia «miracolata», e rileva l’incertezza di fronte «all’alternativa tra integrazione e anticonformismo»20, i film successivi si limitano sempre più a “documentare” degli accadimenti. È il caso di L’ombrellone che, come nota Brunetta21: «è piuttosto un reportage […] e come tale registra comportamenti e raccoglie al volo battute, cercando di non perdere i particolari e l’insieme».

Il film, che si apre su una Roma deserta dove il protagonista parte per Riccione (luogo tipico della vacanza anni Sessanta), si svolge sulla riviera adriatica d’estate. Risi mostra con lunghi campi totali, anche dall’alto, l’affollamento della spiaggia e del mare nonché la varia umanità che li popola. Elenca poi una serie di argomenti tipici: la moglie ai bagni; il marito che la raggiunge nel fine settimana; l’altro che cerca di sedurla; i giochi e le chiacchiere da spiaggia; la serata nella balera; l’attesa dell’alba sulla riva del mare. Insomma tutto un insieme di luoghi comuni che tendono a mostrare una vacanza di tipo caotico e soprattutto vissuta come un imperativo sociale. Risi in diverse interviste ha ribadito questa sua intenzione. Per esempio:

Nel mio lavoro ho sempre avuto ben presente ciò che succedeva nel paese […] Volevo fare un ritratto d’epoca; esplorare gli anni del boom dall’angolo di visuale di quei luoghi di raduno collettivo, che stavano diventando le spiagge italiane; mostrare i pregi e i difetti di questa grande vacanza, dopo i disastri della guerra e le difficoltà della ricostruzione; far balenare agli occhi degli italiani un certo gusto della vita […] Io ho voluto raccontare la vacanza come stress, come fatica22.

Assai eloquente è la paradossale inquadratura finale: il protagonista è tornato a Roma e dorme; una voce fuori campo recita:

Giornale radio. Centocinquantamila tedeschi hanno varcato ieri la frontiera del Brennero. Numerosi incidenti si sono verificati sul confine francese. All’ovest niente di nuovo. Riccione e Cattolica sono completamente occupate da tedeschi, inglesi e svedesi. Si sono avuti numerosi scontri sull’autostrada del sole. Venticinque morti sono finora il bilancio di queste prime ore della giornata…

Il che ci riporta in qualche modo ai temi di Il sorpasso, allargandone la prospettiva: dal crash del singolo individuo a quello della collettività.


Note

1 Jean Lacouture, La storia immediata, in Jacques Le Goff (a cura di), La nuova storia, Milano, Mondadori, 1980 (prima ed. 1979).

2 Miriam Mafai, Il sorpasso. Gli straordinari anni del miracolo economico 1958-1963, Milano, Mondadori, 1997, p. 70. A Fellini è dedicato un capitolo: L’occhio di Fellini, pp. 65-82.

3 La ricerca dell’identità nel cinema italiano del dopoguerra, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Identità italiana e identità europea nel cinema italiano dal 1945 al miracolo economico, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1996, p. 25.

4 Il bosco bianco, in Carlo Di Carlo (a cura di), Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, Bologna, Cappelli, 1964, pp. 16-7.

5 Giorgio Tinazzi, Antonioni, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 101.

6 Jean-Luc Godard, Entretien avec Michelangelo Antonioni, in “Cahiers du cinéma”, n. 160, 1964.

7 Cit. da Pascal Kané, L’effetto stranezza (1975), in Gianfranco Miro Gori (a cura di), La storia al cinema. Ricostruzione del passato / interpretazione del presente, Roma, Bulzoni, 1994, pp. 341-342.

8 Cfr. Gianni Rondolino, Rossellini, Firenze, La Nuova Italia, 1974.

9 Cfr. Pierre Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato (1980), edizione italiana a cura di G. [M.] Gori, Firenze, La nuova Italia, 1984.

10 La traduzione filmica di un romanzo storico: “Il Gattopardo” da Lampedusa Visconti, in Roberto Ellero (a cura di), Cinema e storia, Comune di Venezia – Assessorato alla cultura, 1989, p. 11.

11 G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni ottanta, Roma, Editori Riuniti, 1982, p. 762. Brunetta, che si riferisce al saggio di Fofi, La comédie du miracle (in “Positif”, n. 60, 1964, pp. 14-27), sottolinea che esso è il primo a tracciare un profilo d’insieme della commedia mettendola in relazione con l’evoluzione della società italiana. Definizione icastica, aggiungo da parte mia, quella del titolo del saggio di Fofi. Che non cela un intento derisorio.

12 Esemplare nel film la frase di Tognazzi: «Ho firmato cambiali per venticinque minuti».

13 Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni ottanta, cit., p. 752.

14 Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Milano, Bompiani, 1974, p. 288.

15 Vittorio De Sica, Firenze, La Nuova Italia, 1980, p. 86.

16 Gian Maria Guglielmino, in “La gazzetta del popolo”, 27 settembre 1963.

17 Aldo Viganò, Un “mostruoso” vitalismo ovvero il comico e il tragico nella commedia risiana, in Valerio Caprara (a cura di), Mordi e fuggi. La commedia secondo Dino Risi, Venezia, Marsilio, 1993, p. 1.

18 Oreste De Fornari raffronta le due Aurelie che attraversano il film: la via e l’automobile, in De Fornari (a cura di), Il sorpasso 1962-2012. I filobus sono pieni di gente onesta, Alessandria, Falsopiano, 2012 (prima edizione 1992).

19 L’inventio del quotidiano, in Leonardo Quaresima (a cura di), Il cinema e le altre arti, Venezia, La Biennale di Venezia-Marsilio, 1996.

20 Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, cit., p. 291.

21 Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni ottanta, cit., p. 769.

22 Conversazione con Dino Risi, raccolta da G.M. Gori, in Gianfranco Capitta e Roberto Duiz (a cura di), Ricordando fascinosa Riccione, Bologna, Grafis, 1990, pp. 127-128.