È uscito per Donzelli un piccolo volume, dal titolo Lavoro e storia, che raccoglie scritti e lezioni di Lucien Febvre, in parte inediti per il pubblico italiano; testi nei quali il grande storico francese, fondatore della celebre Scuola delle Annales, si misura sui temi del lavoro e del sindacato. Ne parliamo con il curatore, Fabrizio Loreto, docente di storia contemporanea all’Università di Torino e presidente della Società italiana di storia del lavoro (Sislav). L’intervista è a cura di Eloisa Betti e Rossella Roncati.
Da dove nasce l’interesse di Lucien Febvre per il tema del lavoro?
Lucien Febvre, prima di diventare il grande storico che conosciamo, la cui fama – a livello internazionale – fu legata strettamente all’avventura delle “Annales”, fu anche un attivo militante socialista. Agli inizi del Novecento, infatti, negli anni della sua formazione giovanile, egli partecipò attivamente ad alcune importanti battaglie politiche, come quella sull’Affaire Dreyfus, e prese parte al dibattito interno alla Sfio, la Sezione francese dell’Internazionale operaia, cioè il Partito socialista transalpino. Proprio da tale esperienza, vissuta a stretto contatto con il movimento operaio, tra Parigi e la Franca-Contea (la sua regione di origine), deriva l’interesse del giovane storico verso i temi e i problemi del mondo del lavoro; un interesse che non avrebbe più abbandonato.
Quando, alla fine del 2012, la rivista “Le Mouvement Social” ha pubblicato le lezioni inedite sul sindacalismo che Febvre aveva tenuto alla Sorbona nel 1920, mi sono chiesto perché uno storico modernista, impegnato soprattutto nelle ricerche sulla vita economica, sociale, culturale e religiosa nella Francia e nell’Europa del Cinquecento, avesse deciso di impegnarsi su un tema così originale e delicato, lontano dai suoi interessi di studio, nonché un nodo rilevante della storia contemporanea e della cosiddetta “storia del tempo presente”. Le risposte migliori le ho trovate in un bel libro di uno studioso basco, José Antonio Ereño Altuna, intitolato Lucien Febvre. Combates por el socialismo, pubblicato in Spagna nel 1994, nel quale il curatore presentava un’interessante antologia di scritti giovanili di Febvre, apparsi sul periodico “Le Socialiste Comtois” tra il marzo 1907 e il maggio 1909. Gli articoli – oltre una trentina – erano usciti in forma anonima; così, soltanto attraverso il contatto diretto con la famiglia e tramite la ricerca d’archivio nelle carte personali dello storico depositate a Parigi, Ereño Altuna era riuscito a risalire a quei contributi che erano stati effettivamente scritti da Febvre.
L’analisi di questi articoli, accompagnata dalla lettura della ricca introduzione di Ereño Altuna, mi ha permesso non solo di esaminare le sue posizioni politiche giovanili, ma anche (e soprattutto) di capire le ragioni, sia culturali che “sentimentali”, alla base delle lezioni parigine del 1920 e di alcuni scritti precedenti e successivi. Riguardo alla sua militanza politica, per anni Febvre – insieme a tanti altri amici, colleghi e maestri – cercò di combattere i pericoli che provenivano dall’azione spregiudicata di una destra di tipo nuovo, radicale ed estremista, fortemente orientata in senso xenofobo e antisemita, che si era affacciata sulla scena francese ai tempi dell’Affaire. Nello stesso tempo, egli ingaggiò anche un’accesa battaglia politica contro la cosiddetta “Repubblica dei radicali”, ben impersonata da Georges Clemenceau, a causa del sostegno esplicito delle classi dirigenti a favore degli interessi della borghesia conservatrice. Inoltre, non mancarono dispute, anche particolarmente aspre, all’interno dello stesso campo socialista, dove Febvre cercò di contrastare in modo risoluto l’ascesa dei cosiddetti “guesdisti”, che accusava di imporre una lettura non semplicemente ortodossa, ma ottusamente dogmatica del marxismo. Le sue simpatie, al contrario, andavano in particolare alla Cgt, la francese Confederazione generale del lavoro, le cui idee e direttive “rivoluzionarie” affascinavano il giovane storico; questi, d’altronde, aveva sempre subito il fascino delle teorie espresse alcuni decenni prima dal suo conterraneo Pierre-Joseph Proudhon, il cui “socialismo anarchico” si era continuamente contrapposto al “socialismo scientifico” di Karl Marx.
In sintesi, nel primo decennio del XX secolo, da un lato la formazione culturale, dall’altro l’esperienza politica diretta, portarono Febvre a sostenere una forma eterodossa e originale di “socialismo sindacalista”, o meglio di “sindacalismo socialista”, nel quale il ruolo (economico) del sindacato fosse preminente rispetto all’azione (politica) del partito. Tale posizione era piuttosto minoritaria all’interno della Sfio, riscuotendo il consenso della piccola corrente degli allemanisti e dei pochi sindacalisti della Cgt impegnati anche nella vita del partito. Anche per questo motivo Febvre decise di abbandonare presto la militanza politica per dedicarsi a tempo pieno agli studi storici, dapprima per completare la sua celebre tesi di dottorato su Filippo II e la Franca-Contea, edita nel 1911, e quindi per intraprendere la carriera accademica presso l’Università di Digione, a partire dal 1912. Tuttavia, come detto, l’interesse per i temi e i problemi del lavoro e del sindacato non sarebbe mai venuto meno.
Sindacalismo e questione sociale: qual è l’interpretazione di Febvre sul ruolo del sindacato?
L’interpretazione di Febvre sul ruolo del sindacalismo, nella Francia tra il Secondo Impero e la Terza Repubblica, emerge chiaramente nelle quattro lezioni che egli preparò dall’estate del 1919 e tenne a Parigi nel settembre 1920. Già in precedenza, tuttavia, in un importante articolo scritto nel 1909 per la “Revue de synthèse historique” (Une question d’influence: Proudhon et le syndicalisme contemporain), che avrebbe più volte ricordato anche in altri interventi successivi, Febvre aveva avviato una lucida riflessione sull’argomento. In questo contributo, infatti, pur esaltando la figura del filosofo di Besançon, egli teneva a precisare due punti che riteneva essenziali: primo, che non si poteva stabilire alcuna influenza diretta tra le idee di Proudhon, pure lungimiranti, e quegli avvenimenti, frutto di un enorme sforzo collettivo, che avevano condotto, parecchi anni dopo, alla costituzione e al consolidamento della Cgt; secondo, che i fatti storici – qualsiasi fatto storico – erano straordinariamente complessi, essendo il risultato di molteplici fattori, spaziali e temporali, in cui interveniva una pluralità di soggetti, i quali agivano spesso in modo imprevedibile, rendendo molto intricata e problematica l’analisi di cause ed effetti.
Le stesse lezioni del 1920 presentano spunti interessanti di riflessione proprio riguardo alla metodologia della ricerca storica: innanzitutto sul terreno delle fonti, poiché Febvre riteneva naturalmente prioritario passare in rassegna la bibliografia prodotta sull’argomento, senza timore di denunciarne le numerose lacune e mancanze; allo stesso tempo, egli criticò duramente l’operato dei sindacalisti, che si mostravano completamente disinteressati alla conservazione dei loro documenti. In secondo luogo, inaugurando una prassi che avrebbe ripetuto più volte nel corso dei suoi studi, Febvre mostrò di attribuire una grande importanza, nelle fasi iniziali di una ricerca, alla storia e alla corretta definizione delle parole che rappresentavano l’oggetto delle sue indagini; in questo caso, egli dedicò riflessioni brillanti sull’origine e l’evoluzione storica della parola “syndicat” (lo stesso procedimento, com’è noto, venne seguito più tardi anche nell’analisi di altre parole – lavoro, nazione, patria, Europa – che sono state centrali nella storiografia di Febvre). Infine, sempre sul piano metodologico, egli ribadiva il convincimento di dare una maggiore rilevanza ai fatti rispetto alle idee, specie quando si affrontavano argomenti di natura strettamente economica e sociale; così come occorreva prestare una maggiore attenzione agli attivisti di base e ai quadri intermedi rispetto ai leader e ai gruppi dirigenti delle organizzazioni sindacali.
Quanto ai contenuti delle lezioni, di fronte alle numerose intuizioni e ai molteplici aspetti che andrebbero sottolineati, mi limito a segnalarne uno. Nell’analisi del caso francese, che pure appariva esplicitamente orientato a favore delle posizioni più radicali ed estreme, Febvre – con notevole lungimiranza, a mio modo di vedere – invitava a non focalizzare l’attenzione soltanto sulla qualificazione “politica” delle diverse componenti che animavano il movimento operaio (riformista e rivoluzionaria, anarchica e socialista, repubblicana e cattolica); l’esperienza transalpina, invece, doveva spingere gli studiosi a porre l’accento, più che sull’aggettivo, sul sostantivo “sindacalismo”, proprio a voler evidenziare non solo la piena autonomia, ma la vera e propria indipendenza delle organizzazioni dei lavoratori rispetto alla politica e alle istituzioni, in nome di un primato che occorreva finalmente riconoscere al sindacato e, all’interno di questo, ai suoi “oscuri” militanti.
Dopo quelle lezioni sul sindacalismo, Febvre volse sempre di più lo sguardo verso nuovi orizzonti, interessandosi ad altri temi e problemi; ciò dipese anche dalle profonde delusioni che egli visse a causa della vittoria della rivoluzione bolscevica e della successiva influenza che il “mito” sovietico iniziò a propagare in Francia, in Europa e nel mondo. Eppure, anche durante l’effervescente stagione delle “Annales”, non sarebbero mancate sue frequenti incursioni nella storia del movimento operaio, attraverso una miriade di recensioni, note, rassegne e interventi, con cui avrebbe ribadito alcune convinzioni che aveva maturato nella sua vita “precedente”.
Tra i numerosi interlocutori di Lucien Febvre vi fu anche Albert Thomas, Direttore dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Come questo rapporto influì sull’elaborazione e l’interesse di Febvre?
Il legame umano, oltre che politico e anche scientifico, che lo unì ad Albert Thomas è proprio uno degli elementi che possono aiutare a documentare l’attenzione costante che Febvre rivolse verso i lavoratori e il sindacato. I due ebbero modo di incontrarsi e conoscersi già tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, quando entrambi frequentarono l’École normale supérieure; Thomas, infatti, prima di intraprendere la carriera politica si distinse come uno storico promettente, specialmente grazie a un importante volume sulle vicende del Secondo Impero, che venne pubblicato nel 1907 all’interno della Histoire socialiste diretta da Jean Jaurès. Febvre e Thomas, di fatto, non si persero mai di vista; Febvre, in diverse occasioni (anche nelle già citate lezioni sul sindacalismo), ebbe modo di esprimere giudizi lusinghieri sull’operato politico di Thomas, sia in qualità di membro influente del Governo francese durante la Grande Guerra, sia nella veste di direttore dell’Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro, nel dopoguerra. Non a caso, quando Thomas venne a mancare nel 1932, Febvre volle scrivere sulle “Annales” un sincero e commosso ricordo dell’amico scomparso, sottolineandone soprattutto le qualità di storico.
Negli anni Venti Febvre e Thomas si cercarono a più riprese: Febvre, ad esempio, provò a coinvolgerlo nel progetto, concepito insieme ad Henri Pirenne, di dare vita a una rivista internazionale di storia economica; Thomas, a sua volta, chiese il suo aiuto per realizzare una ricerca sulla riduzione degli orari di lavoro. In seguito, mentre si approssimava l’uscita del primo numero delle “Annales”, stampato nel 1929, Febvre provò nuovamente a coinvolgere il direttore dell’Organizzazione internazionale del lavoro, non solo per un eventuale sostegno sul piano finanziario, ma anche per stimolare la partecipazione dei dirigenti e degli studiosi che ruotavano intorno all’Organizzazione, alla nuova avventura editoriale che stava prendendo forma.
Emerge un’idea di lavoro negli scritti presentati nel volume e un “diritto alla storia” delle classi lavoratrici?
Come ho detto, l’interesse di Febvre verso il lavoro come problema storico si mantenne vivo nel corso del tempo, come mostrano i suoi molteplici interventi sulle “Annales” apparsi tra anni Trenta e Cinquanta. A tale proposito, particolarmente proficua risultò la presenza all’interno della redazione del sociologo del lavoro Georges Friedmann, il quale, soprattutto nel secondo dopoguerra, dopo la tragica scomparsa di Marc Bloch, divenne uno dei più stretti collaboratori di Febvre e uno dei direttori scientifici della rivista.
Il segno più profondo del dialogo tra Febvre e Friedmann si vide concretamente nel 1948, quando il “Journal de psychologie normale et pathologique” pubblicò un numero monografico dedicato alla storia del lavoro, al quale contribuirono, tra gli altri, anche Friedmann, con un saggio importante sulla “psico-sociologia” del lavoro alla catena di montaggio, e Bloch, con un contributo (postumo) sulla “trasformazione delle tecniche come problema di psicologia collettiva”. Il saggio di Febvre, concepito con un’ottica di “lunga durata”, attraverso un’analisi che partiva dal Cinquecento per arrivare al Novecento, spiccava per acume e capacità interpretativa. Innanzitutto, egli affrontava l’evoluzione storica del termine lavoro (travail), spiegando la sua derivazione dal latino tripalium, che per secoli aveva rappresentato uno strumento di tortura; da qui era scaturita l’accezione negativa con cui, per lungo tempo (almeno per un paio di secoli), il lavoro – specie quello manuale – era stato inteso come sinonimo di sofferenza, fatica e dolore.
La svolta, precisava Febvre, si era verificata nel corso del Settecento, grazie a due processi “rivoluzionari” avvenuti, più o meno, in concomitanza: da un lato, il grande cambiamento culturale e politico che venne innescato in Francia dagli “enciclopedisti”, la cui fiducia ottimistica nel progresso e nella scienza iniziò a far maturare una nuova idea del lavoro, inteso anche in senso positivo, come leva capace di contribuire in modo determinante allo sviluppo umano; da un altro lato, il potente mutamento economico e sociale che venne innescato in Inghilterra dalla Rivoluzione industriale, la quale, se causò nel breve periodo enormi traumi, aggravando in modo considerevole la “questione sociale”, nel lungo periodo favorì il netto miglioramento delle condizioni di vita di una parte consistente dei ceti popolari. La cesura fu notevole, tanto che “allora finalmente – sono parole di Febvre – le classi lavoratrici conquistarono il diritto alla storia perché operaie, non più perché miserabili” (il corsivo è nel testo originale).
Il lavoro, in definitiva, cessava di essere soltanto un aspetto negativo della vita umana, per diventare anche un potente fattore di emancipazione, individuale e collettiva, per chiunque. Tuttavia, per centrare tale traguardo, Febvre era ben consapevole della necessità di unire i lavoratori, specialmente coloro che appartenevano alle fasce meno protette della popolazione; occorreva cioè rappresentare, unificare e dare voce ai bisogni e alle esigenze che provenivano dai numerosi e differenti mondi del lavoro, promuovendo e sviluppando anche forme inedite di socializzazione e associazione; tra queste, il sindacato avrebbe certamente rappresentato – come scrisse Febvre, alla fine degli anni Trenta, nella prefazione al volume di Édouard Dolléans sulla storia del movimento operaio – uno strumento efficace “di difesa ed in seguito di liberazione” dei lavoratori.
Qual è l’attualità del pensiero di Febvre?
Come mostrano le lezioni e gli scritti raccolti nell’antologia, così come i numerosi altri interventi citati nella mia introduzione, penso si possa affermare che i temi e i problemi del mondo del lavoro abbiano sempre affascinato Febvre, stimolandone la curiosità e l’interesse. Ciò, come si è visto, è dipeso certamente dalla sua militanza giovanile nel mondo socialista e dalla sua vicinanza alla Confederazione generale del lavoro; tuttavia, anche nella sua attività di studioso, egli ha visto nel lavoro di donne e uomini un prisma importante attraverso cui poter raccontare e interpretare la storia del genere umano. D’altronde, l’incipit del suo splendido saggio del 1948 sta lì a dimostrarlo: “Da quando gli uomini esistono, il lavoro ha occupato sempre la vita della maggior parte di loro”. È un’affermazione molto chiara, netta, che sottolinea con forza tutta la centralità del lavoro come problema storiografico. Inoltre, alla fine dello stesso saggio, egli aggiunge la seguente frase: “Lavoro, dura legge. Ma nulla impedirà all’uomo di soffrire, di lottare perché divenga un giorno la dolce legge del mondo”. Da questo breve frammento mi sembra che emergano altre due suggestioni molto importanti.
La prima sta nella “doppiezza” del lavoro (una legge dura, ma anche dolce); un lavoro, cioè, come elemento necessario per l’umanità, per poter vivere e a volte semplicemente sopravvivere, che nasconde in tante (troppe) occasioni forme di sfruttamento, sopraffazione e ingiustizia. Nello stesso tempo, utilizzando in modo sapiente la “cassetta degli attrezzi” dello storico, Febvre è consapevole che il lavoro è stato (ed è) anche altro: uno strumento incisivo e decisivo di emancipazione, per poter raggiungere il livello più elevato possibile di autonomia, autodeterminazione, e dunque di libertà.
Per liberarsi, tuttavia, spesso è necessario organizzarsi e “resistere”; ed è questa, a mio avviso, la seconda importante lezione che ci proviene dagli scritti di Febvre. Se il lavoro è centrale nella vita degli uomini, allora anche il tema della rappresentanza del lavoro deve essere considerato centrale; ma, prima ancora della rappresentanza “politica” del Lavoro, conta la rappresentanza “sociale” dei lavoratori, in carne e ossa, che si esercita soprattutto attraverso l’azione immediata di tutela da parte sindacale. Perciò gli studiosi, nell’esame di ogni epoca storica, dovranno valorizzare il tema del lavoro e della sua rappresentanza, la quale, nell’epoca contemporanea, ha assunto soprattutto le sembianze del sindacato. In definitiva, ciò che Febvre sembra suggerirci in questi scritti è un sentiero di ricerca che conduca a una vera e propria storia “sociale” del lavoro e del sindacato, in cui si presti maggiore attenzione alla concretezza dei bisogni e delle rivendicazioni dei lavoratori, alla “base” della piramide sindacale, nonché alla dimensione interdisciplinare (tra storia e politologia, sociologia ed economia, antropologia e diritto) che l’analisi dei mondi operai e sindacali favorisce e sollecita.