Public History e scuola: il perché di un legame
Numerosi e rilevanti fattori hanno modificato, negli ultimi quindici anni, la ricezione della storia tra le nuove generazioni. Fattori legislativi dal forte impatto, come le Indicazioni Nazionali, emanate dal ministro Moratti e destinate a riformare profondamente lo studio della storia nelle scuole primarie e nelle secondarie di primo grado; oppure come il recente D.P.R. 61/20171, che, nel ratificare alcune sperimentazioni già in atto in alcune scuole, ha ridimensionato lo spazio della storia a un’ora alla settimana nella prima classe degli Istituti Professionali. Ma anche fattori socio-culturali, primo tra tutti la ristrutturazione delle formae mentis delle nuove generazioni che, provocato dal decollo degli smartphone e del Web 2.0, ha stimolato la costruzione di un diverso sistema attentivo e mnemonico. Ma non solo. A esser mutato risulta infatti anche un altro atteggiamento nei confronti della scuola, del sapere, e di tutte quelle discipline i cui cardini sembrano facilmente rintracciabili sul World Wide Web – in primis, la storia2. Se la diffusione di fonti di informazioni vastissime e alla portata di tutti ha dato l’illusoria percezione di una conoscenza neutra e aliena dai tradizionali apprendimenti scolastici, compito della scuola deve diventare, a maggior ragione, la formazione negli alunni della capacità di saper cercare e selezionare le cognizioni di cui necessitano, di imparare non tanto un set predefinito di conoscenze quanto, piuttosto, di imparare a imparare – secondo quello che Baldacci definisce deutero apprendimento3. Tutti questi elementi hanno contribuito a definire nel panorama educativo una cartografia di nuove esigenze a cui è necessario, nello spiegare natura e significato dei processi storici, rispondere adoperando modalità inedite, più vicine alla cultura e alle modalità comunicative a noi contemporanee.
A queste urgenze educative la Public History e la sua branca della Public History of Education, con le loro modalità di coinvolgimento collettivo, cercano di fornire una prima risposta4. Molte sono le definizioni – spesso scarsamente conciliabili – a cui questa disciplina è andata incontro5. Nel manifesto approntato dall’Associazione italiana di Public History (Aiph) nel maggio 2018, la Public History
È un campo delle scienze storiche a cui aderiscono storici che svolgono attività attinenti alla ricerca e alla comunicazione della storia all’esterno degli ambienti accademici nel settore pubblico come nel privato, con e per diversi pubblici6.
Compito dei public historians è, quindi, presidiare tutti quei luoghi dove la domanda di senso del passato intercetta un’utenza diversa e più vasta rispetto a quella tradizionalmente intesa: musei, archivi, biblioteche, spazi pubblici, commemorazioni, scuole7. È la Public History una disciplina relativamente giovane: era il 2017 quando si è costituita l’Aiph; sempre nel 2017 ha avuto luogo il primo convegno italiano della disciplina, a Ravenna. Ma lo è solo sulla carta: è giovane nelle aule universitarie italiane, ma non in quelle statunitensi e britanniche, dove, già dalla metà degli anni Settanta, l’accademia prendeva atto e cercava di rispondere a una domanda collettiva di passato8; e non lo è giovane nemmeno nel tessuto culturale italiano, dove Claudio Silingardi (direttore, fino al 2019, dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri di Milano) ha avuto l’occasione di notare che pratiche di public history erano ampiamente diffuse già prima della sua “invenzione” come disciplina accademica9.
Del resto, questa legittimazione tardiva non intacca il legame privilegiato che i public historians instaurano, da sempre, con il territorio e la società civile10. Non è il loro un legame estemporaneo: elemento costitutivo della Public History è un approccio metodologico costruttivista, consapevole di quale rilievo abbia la costruzione culturale nell’interpretazione critica delle fonti11. Il coinvolgimento del pubblico, la sua trasformazione in un attivo co-protagonista, diventano fondamentali. Ciò non vuol dire che la professionalità dello storico venga meno – viene meno, piuttosto, una certa impostazione “trasmissiva” della conoscenza storica, perché la competenza dello studioso è chiamata ad agire come “facilitatrice” nel processo con cui cittadini e visitatori si appropriano e danno senso al proprio passato12. Molte sono dunque le dimensioni che accomunano il public historian con l’insegnante della pedagogia costruttiva: il rifiuto di una metodologia puramente trasmissiva, la riconfigurazione di attori solitamente passivi (gli alunni, il pubblico) come protagonisti attivi del loro apprendimento. Sono comunanze tanto più singolari se pensiamo alla povertà di riferimenti pedagogici che la “tradizionale” storiografia sulla Public History riserva, ma non del tutto eccentriche se, nel contempo, rivolgiamo il nostro sguardo alle radici geografiche della disciplina13: gli USA degli anni Sessanta, profondamente influenzati dalla riflessione di Dewey su educazione e cittadinanza attiva14.
È nella sfera pubblica che mostre, esibizioni e progetti trovano infatti la loro naturale collocazione, in un’opera di dialogo e confronto: è sulla base del contesto, dei rilievi, dei bisogni di storia – intesi non nel senso deteriore di pura domanda commerciale, ma di domanda di senso storico – della collettività che si muove lo storico pubblico15. I prodotti della Public History sono tutto fuorché cattedrali nel deserto: stimolare una conoscenza del passato non mnemonica ed episodica, ma organica e problematica, che consideri i suoi processi e le sue ricadute sui problemi del tempo presente, stimola i cittadini a sviluppare in maniera attiva e significativa gli strumenti critici ed epistemologici attraverso cui sarà capace, quando sarà messo di fronte all’attualità, di analizzare razionalmente le posizioni in gioco e di scegliere il proprio punto di vista16. E questo fine non è in contraddizione con il coinvolgimento emotivo che la scoperta e il racconto di esperienze personali, familiari, locali possono indurre; ché anzi, proprio il conflitto socio-cognitivo che può scaturire dalla curiosità per le proprie radici può stimolare una maggiore attenzione per quegli accadimenti storici che alle vicende personali hanno fatto da cornice17.
Esperienze concrete per una Public History al servizio della didattica della storia
È con questo pedigree contrastato che la Public History si accosta alla didattica della storia. Cosa può proporre alle scuole? Può indicare, innanzitutto, nuove modalità di interazione tra istituti e territorio, come è avvenuto per due delle iniziative che nel 2017 maggiormente hanno contraddistinto il programma storico di Pistoia capitale italiana della cultura: le mostre La guerra vista dal fronte e La guerra partigiana, realizzate nell’ottobre e nel maggio 2017.
Realizzata nel corso delle commemorazioni per il centenario della battaglia di Caporetto e dedicata alla vita quotidiana degli italiani e dei pistoiesi in quegli anni di guerra, La guerra vista dal fronte ha postulato un primo livello di collaborazione tra storici e territorio. Era il dicembre 2016 quando il comitato di organizzazione della mostra lanciò una call for objects destinata alla cittadinanza, con l’obbiettivo di poter disporre non solo di documenti d’archivio e riviste d’epoca, ma anche di suppellettili quotidiane, oggetti che nella loro materialità rimandassero alla concretezza della vita di tutti i giorni. Santini, cartoline, quaderni, volumetti e veri e propri cimeli come l’altare semimobile da campo sono stati così rinvenuti, congeniati in un ordine coerentemente significativo ed esposti nell’ottobre dell’anno successivo nelle sale affrescate del palazzo comunale18. Oggetti spesso custoditi da privati hanno ricevuto un nuovo significato, alla luce di eventi di cui si era quasi persa la memoria: l’influenza spagnola, quasi dimenticata in un 2017 inconsapevole di quello che sarebbe accaduto tre anni dopo19; il trasferimento, dopo l’avanzata austriaca del novembre 1917, dei comuni di Treviso e Belluno nel pistoiese, con un gemellaggio raramente rievocato al di fuori delle tradizionali commemorazioni20.
Ma mostre ed esibizioni possono essere approntate anche dagli studenti stessi, dietro la guida di un public historian. È quel che succede dal 2014 con il progetto “La guerra partigiana”21. Sorto dalla collaborazione tra la scuola primaria di Bonelle (frazione di Pistoia), lo SPI CGIL pistoiese e l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, “La guerra partigiana” traeva la sua prima motivazione dall’esigenza di colmare, con un progetto extra-curriculare, quella conoscenza della seconda guerra mondiale e della Resistenza che la riforma Moratti ha rimosso dal programma di storia della scuola primaria.
Il progetto ha solitamente inizio nel secondo quadrimestre, quando un esperto esterno – solitamente un ricercatore dell’Istituto storico – interviene con due lezioni di un’ora su fascismo e Resistenza nelle classi quinte della scuola primaria. Una terza lezione, di carattere più esperienziale, è dedicata a un piccolo tour tra cippi e monumenti dedicati alla seconda guerra mondiale a Pistoia. Dopo la visita guidata (che solitamente ha luogo a febbraio) può aver inizio la seconda fase, in cui entrano in gioco dinamiche gruppali, processi di rielaborazione e di autoregolazione. Sotto la supervisione dei maestri e dell’esperto esterno, gli alunni si riuniscono e decidono l’argomento specifico su cui allestire una mostra di lavori didattici da inaugurare nell’ultima settimana di maggio. La cerimonia di inaugurazione ha un carattere pubblico, quasi a sancire la fine del percorso scolastico: alla mostra sono infatti invitati non solo i genitori degli alunni, ma anche tutta la comunità scolastica. Agli alunni, suddivisi in gruppi di quattro-cinque persone, è affidato il compito di gestire e organizzare il proprio pannello, dedicato a una particolare sotto-tematica dell’argomento più vasto che la classe ha deciso di trattare: può essere un pannello sull’alimentazione in guerra, sui bombardamenti aerei, così come sugli sfollati. Autoregolazione, interdipendenza positiva e comprensione delle ragioni altrui assumono una rilevanza essenziale per raggiungere il risultato finale, e questo tanto a livello gruppale quanto a livello sistemico: la mostra avrà successo solo se tutti i gruppi sapranno allestire i propri pannelli.
È con questo secondo livello di elaborazione e coinvolgimento che la Public History può saldarsi a progetti innovativi di co-costruzione della conoscenza: didattiche cooperative, dove gli alunni imparino a discutere un progetto, a condividerne le decisioni in proposito e a portarlo a termine, suddividendosi le varie parti del lavoro – sia esso un pannello da scrivere o una ricerca di immagini; e didattiche meta-cognitive, attraverso cui gli studenti apprendano che la storia non è un cumulo di nomi ed eventi da memorizzare22. Sono didattiche difficili da impostare, se non altro perché richiedono tempo, esigono ore – proprio quelle che la storia non ha. Ma è questo il motivo per cui acquistano rilievo e sostanza: delle Indicazioni Nazionali vaste e un monte orario troppo esiguo possono indurre a un approccio veloce, a prediligere la “quantità” delle conoscenze sulla comprensione degli eventi storici e su una loro adeguata interpretazione. Abituare gli alunni a ricercare le informazioni, a confrontarle, a selezionarle e analizzarle può forse comportare un ritardo nella progettazione didattica e a tralasciar qualche argomento, ma li condurrà ad appropriarsi di un metodo storico ancora attuale23.
Nuove prospettive di collaborazione transdisciplinare
Infine, alcune prospettive ulteriori a cui può condurre il connubio tra Public History e didattica della storia. Alla selezione e al vaglio delle fonti (competenza quanto mai indispensabile al giorno d’oggi) l’esperto può aggiungere, tra gli obbiettivi didattici da perseguire, la comprensione delle sensazioni, delle emozioni e delle formae mentis dell’epoca. Esempi di coeva letteratura realista, di articoli, di riviste, possono aiutare l’attività didattica a dirigersi verso questo scopo. Due sono le conseguenze di questo approccio: una comprensione empatica dei vissuti storici e l’emancipazione degli alunni da una prospettiva culturale miopemente centrata su valori della nostra società. Non c’è nessun orizzonte mentale definitivo e necessario: altri orizzonti hanno preceduto il nostro; altri lo seguiranno, senza contare quelli che coesistono negli stessi anni, ma in altri spazi, e in altre culture24.
Si tratta del recupero della pratica ermeneutica, teorizzata nella sua valenza epistemologica da Hans-Georg Gadamer in Verità e metodo25. Pur alla base, almeno tra i modernisti degli anni Ottanta e Novanta, di una stagione intensa e feconda, la prospettiva di Gadamer ha incontrato scarsa ricezione nella didattica della storia e nella Public History. Comprendere la storia significa, nei limiti del possibile e dell’umano, comprendere i vissuti di chi ci ha preceduto, le sue mentalità, le sue esigenze culturali, le sue aspettative. E questo tenendo conto di ciò che ci appartiene: ovvero dei nostri vissuti, delle nostre esigenze culturali, delle nostre aspettative – in una parola, dei nostri pre-giudizi, se spogliamo questo termine dal suo originario significato deteriore e lo intendiamo come una forma a noi data di pre-comprensione della realtà26.
È certo quello ermeneutico un esercizio asintotico: troppo ampio è il fossato temporale che ci separa dai soggetti di studio per poterlo colmare del tutto; e le nostre stesse formae mentis devono essere tenute in considerazione nel momento in cui pensiamo di poterle valicare. Ma è nondimeno un esercizio utile, utilissimo, essenziale forse: perché allena a costruire un’empatia cognitiva troppo spesso aliena dalle pratiche scolastiche ma fondamentale, nella vita di tutti i giorni, per la fondazione di una comunità tollerante e solidale. Gli studenti a cui oggi insegniamo a riconoscere e ad accettare gli orizzonti mentali di chi viveva settanta, cento o duecento anni fa saranno cittadini capaci di comprendere le posizioni e gli orizzonti del loro prossimo, e che con lui sapranno trovare un accordo.
Note
1 D.P.R. 61/2017, All. B. Nell’immagine di apertura dell’articolo, La scuola degli animali, incisione di E. Heemskerk, Europeana.
2 Cfr. Giuliano Franceschini, Didattica generale: dai temi emergenti allo statuto epistemologico, “Studi sulla formazione”, 2017, pp. 127-39: 133-4.
3 Cfr. Miguel Gotor, L’isola di Wikipedia, in Sergio Luzzatto (a cura di), Prima lezione di metodo storico, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 183-202, Massimo Baldacci, Ripensare il curricolo, Milano, Carocci, 2010, p. 98, Edgar Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Cortina, 2001, pp. 19-21 e Anna Maria Ajello, Daniela Torti, Imparare a imparare come competenza chiave di cittadinanza e come soft skills, “Scuola democratica”, 2019, n. 1, pp. 63-82: 77-9.
4 Per quanto riguarda la Public History of Education, il rimando è a Gianfranco Bandini, Manifesto della Public History of Education. Una proposta per connettere ricerca accademica, didattica e memoria sociale, in Gianfranco Bandini, Stefano Oliviero (a cura di), Public History of Education: riflessioni, testimonianze, esperienze, Firenze, Fupress, 2020, pp. 41-54.
5 Cfr. le posizioni riportate da Mirco Carrattieri, Per una public history italiana, in “Italia contemporanea”, 2019, n. 289, pp. 106-21: 119-20, e l’interpretazione di Lorenzo Bertuccelli ne La Public History in Italia, in Paolo Bertella Farinetti, Lorenzo Bertuccelli, Alfonso Botti (a cura di), Public history. Discussioni e pratiche, Milano, Mimesis, 2017, pp. 75-96: 76-7.
6 Aiph, Manifesto della Public History Italiana, https://aiph.hypotheses.org/3193. Sulla genesi e sulle discussioni che accompagnarono la definizione del Manifesto, cfr. Agostino Bistarelli, Il vantaggio dell’arretratezza? Innovazione e tradizione nella via italiana alla public history, “Italia contemporanea”, 2019, n. 289, pp. 97-105: 103-5.
7 Ibidem, ma si noti come il Manifesto definisca public historian anche gli accademici che si occupano della formazione dei futuri operatori storici.
8 Serge Noiret, “Public History” e “Storia pubblica” nella rete, in “Ricerche storiche”, 2009, n. 2-3, pp. 276-87.
9 Claudio Silingardi, La Public History prima della Public History: il caso degli Istituti storici della Resistenza, panel presentato alla prima Conferenza di Public History, Ravenna, 7 giugno 2017 e Bistarelli, Il vantaggio dell’arretratezza?, cit., pp. 99-101.
10 Bertuccelli, La Public History in Italia, cit, pp. 78-83.
11 Ivi, pp. 84-5.
12 Cfr. ivi, pp. 87-8 e Serge Noiret, The birth of a new discipline of the past? Public History in Italy, in “Ricerche Storiche”, 2019, n. 3, pp. 131-165.
13 Cfr. a questo proposito le feconde riflessioni in Giuseppe Tognon, Public History e Public Pedagogy. Storia e pedagogia per una nuova «sfera pubblica», in Bandini e Oliviero (a cura di), Public History of Education, cit., pp. 25-40.
14 Cfr. John Dewey, Democracy and Education, New York, Dover, 2004, pp. 82-4.
15 Barbara Franco, Decentralizing culture. Public History and Communities, in James P. Gardner, Paula Hamilton (a cura di), The Oxford Handbook of Public History, Oxford, Oxford University Press, 2017, pp. 67-138: 70.
16 Serge Noiret, La Public History: una disciplina fantasma?, in “Memoria e ricerca”, 2001, n. 37, pp. 7-28: 7-10.
17 Hilda Kean, Public History as a Social Form of Knowledge, in Gardner, Hamilton (a cura di), The Oxford Handbook of Public History, cit., pp. 402-22: 414-6.
18 Francesco Cutolo, La città in guerra. Cittadini e profughi a Pistoia dal 1915 al 1918, in Matteo Grasso (a cura di), Fare storia a Pistoia capitale della cultura. Esperienze e progetti, Pistoia, Isrpt, 2019, pp. 29-44.
19 Roberto Bianchi, Spagnola. La grande pandemia del Novecento tra storia, oblio e memoria, in Francesco Cutolo, L’influenza spagnola del 1918-19. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale, Pistoia, Isrpt, 2020, pp. 7-20.
20 Cfr. Giampaolo Perugi, Pistoia e l’accoglienza ai profughi veneti. Tutto bene?, “Farestoria”, 2017, n. 2, pp. 57-64.
21 Daniela Faralli, La Guerra Partigiana. Un progetto di didattica per le scuole di Pistoia, http://www.toscananovecento.it/custom_type/la-guerra-partigiana-2/ (ultimo accesso: 30 giugno 2020).
22 Cfr. Bertuccelli, La Public History in Italia, cit, p. 85.
23 Ivi, pp. 77-8.
24 Cfr. Tognon, Public History e Public Pedagogy, cit., pp. 34-5.
25 Hans G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Garzanti, 1960, pp. 80-1.
26 Antonio Bellingreri, Per una pedagogia dell’empatia, Milano, Vita&Pensiero, 2005, pp. 231-3.