Le tortuose strade del cinema italiano negli anni del boom. La commedia all’italiana: autobiografia di una nazione

Se Piero Gobetti compendiò la sua analisi del fascismo nell’espressione “dell’autobiografia di una nazione”, il cinema che si sviluppa negli anni del boom economico offre l’occasione per analizzare i cambiamenti sedimentatisi nella società italiana, a fronte di un processo di modernizzazione che non ha avuto eguali nella storia del Paese. Per certi aspetti, possiamo affermare che il cinema a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta si fa descrittore di passioni, sogni, necessità e riflessioni degli italiani, diventa autobiografia di un popolo, scrive il poema d’amore e d’anarchia di una società che brinda al futuro senza prestare attenzione alle lancette della storia. Nell’infinito disordine del caos, lo sguardo attento dell’intellettuale e del cineasta ci restituisce la visione del tempo, il paesaggio arido e disordinato della modernità, la febbre della civiltà del progresso, la comicità delle maschere italiane dominate da individualismo e soggettività.

 

Totò-Sordi: la punta dell’iceberg. La comicità all’alba della commedia all’italiana

Per comprendere cosa sia accaduto nell’arco di un lustro, le ripercussioni sui decenni successivi e la popolarità smisurata di alcuni attori del tempo, è necessario fare un passo indietro e partire da una data chiave: il 1951. Lo European Recovery Program, conosciuto come Piano Marshall, annunciato dal segretario di Stato statunitense George Marshall il 5 giugno 1947, con l’obiettivo di incentivare la ricostruzione dell’Europa, giunge al termine. È l’anno in cui la Guerra di Corea (1950-1953) entra nel vivo e la richiesta di metallo e lavorati alimenta l’incremento dell’industria pesante italiana e dell’intera filiera produttiva. Ad inizio decennio, se da una parte vengono gettate le basi di una crescita economica eccezionale, dall’altra si abbassa il sipario sul neorealismo e si assiste alla grande rinascita del cinema italiano: la stagione 1950-1951, difatti, fa registrare un record di incassi al botteghino, con in testa i film leggeri. Gli anni Cinquanta, quindi, cominciano nel segno del disimpegno, dell’allegria, dello svago frivolo. Sono gli anni dell’intramontabile Totò: gira ventisette film tra il 1950 e il 1954. Figaro qua e Figaro là, 47 morto che parla di Carlo Ludovico Bragaglia, Totòtarzan, Totò sceicco, Totò terzo uomo, Miseria e nobiltà di Mario Mattoli, ecc.; tutti film stroncati dalla critica del tempo ma che rivelano, invece, il tentativo di eludere i cliché della comicità che lo avevano reso celebre nel decennio precedente. Tra le tante pellicole va ricordata una pietra miliare del decennio: Guardie e ladri (1951), di Steno e Mario Monicelli. Totò, che fu premiato con un nastro d’argento per l’interpretazione, è un piccolo ladruncolo che sfugge con l’imbroglio al brigadiere Lorenzo Bottoni (Aldo Fabrizi), il quale rischia di perder il posto in caso di latitanza dello sventurato. Messosi sulle sue tracce, conosce a poco a poco l’intero parentado e durante il pranzo organizzato per far conoscere le rispettive famiglie, il truffatore Ferdinando Esposito riconosce il carabiniere in borghese. Guardia e ladro si parlano lontano dagli occhi indiscreti dei famigliari: i ruoli si invertono ed Esposito, compresa la vita grama del Bottoni, decide di consegnarsi facendo credere ai propri cari che sarebbe partito per un lungo viaggio. Dopo il film che ha segnato l’addio di Totò al varietà e alla rivista, lo rivediamo in Totò e i re di Roma, di Steno e Monicelli, una satira sulla burocrazia ministeriale tratta dai racconti di Čechov; Dov’è la libertà…? di Roberto Rossellini; L’uomo, la bestia e la virtù di Steno, tratto da una commedia di Pirandello; nei film ad episodi Questa è la vita di Luigi Zampa e l’Oro di Napoli di Vittorio De Sica. È sicuramente un Totò più impegnato, ma che non rinuncia a tornare sul suo tracciato originario offrendo prestazioni maiuscole in Totò cerca moglie, Sei mogli di Barbablù di Bragaglia, Totò e le donne di Steno e Monicelli e Totò a colori di Steno1. La comicità italiana del periodo non si può riassumere nell’irriverenza del principe Antonio De Curtis; al suo fianco va menzionato l’altro grande fenomeno degli anni Cinquanta: Alberto Sordi.

Dopo quindici anni di lavoro nell’avanspettacolo e nella rivista e la presenza, senza grandi clamori, in una quindicina di film, inizia nel 1954, anno in cui è protagonista in tre pellicole ed ha parti di rilievo in altre dieci, il successo popolare di Sordi. Gli anni seguenti vedono un’esplosione inarrestabile: 8 film nel ’55, 5 nel ’56, 6 nel ’57, 7 nel ’58, 10 nel ’59. Per precisione Sordi era già Sordi nei primi film di Federico Fellini: Lo sceicco bianco (1952) e I vitelloni (1953). Il primo, però, sebbene fosse stato accolto con riserve alla Mostra del Cinema di Venezia, fu un disastro al botteghino; il secondo, invece, ha iniziato a far cadere le resistenze dei produttori verso l’attore. Bisogna aspettare Un giorno in pretura (1954) di Steno affinché Sordi raggiunga unanimemente il vasto pubblico. Nando Mericoni, detto l’Americano per il suo abbigliamento e per la improbabile parlata yankee, manda in pensione il comico-macchietta – Rascel e Macario – e vira verso la satira di costume. Nello stesso anno esce Un americano a Roma di Steno e Il seduttore di Franco Rossi, film non banale tratto da una commedia di Diego Fabbri e sceneggiato da un folto gruppo di scrittori tra i quali Rodolfo Sonego, il quale inizierà una collaborazione duratura con l’attore romano. Quando Sordi si rende conto di suscitare la comicità esasperando a suo modo una situazione normale, convince anche la critica e diventa uno dei pilastri della storia del cinema italiano. Di poco posteriore è un altro grande successo: L’arte di arrangiarsi diretto da Luigi Zampa, tratto da un racconto di Vitaliano Brancati.

Totò e Sordi sono solo la punta dell’iceberg di un momento assai florido della comicità italiana: non possono essere dimenticati Walter Chiari e Renato Rascel, Nino Taranto, Tino Scotti, Billi e Riva, Carlo Dapporto. Anche il fenomeno coevo del neorealismo rosa, con la tetralogia dei Pane amore e…, iniziata da Luigi Comencini nel 1953, e la serie dei Don Camillo, cominciata nel 1952 da Julien Duvivier, ha enorme fortuna. In quel periodo il cinema è il fenomeno di consumo culturale più diffuso nel Paese, dalle città ai paesi di provincia le sale registrano spesso il tutto esaurito; frequentare il cinema è una pratica sociale che raggiunge l’apice nel 1955 con 819 milioni di presenze. Poi la Rai, che comincia a trasmettere il 3 gennaio 1954, diventa lentamente un concorrente spietato e a poco a poco vediamo una contrazione degli ingressi e fenomeni di costume mai visti prima, come il ritrovarsi nei bar o a casa di amici per seguire trasmissioni televisive di successo, il Rischiatutto di Mike Bongiorno su tutte. Negli anni del boom nasce, nel segno di Sordi, la cosiddetta commedia all’italiana, fiorente per tutto il quindicennio successivo. Si lega popolarmente soprattutto ai volti di Sordi, Manfredi, Tognazzi, Gassman, in parte Mastroianni2.

Sono anni di cambiamenti profondi della società italiana: nel 1958, per la prima volta il numero degli addetti dell’industria supera quello degli agricoltori; si assiste, inoltre, ad una espansione edilizia, industriale, manifatturiera e tecnologica, con la conseguente diffusione di beni di consumo.

 

La commedia all’italiana: gli esordi

Maurizio Grande in La commedia all’italiana, afferma:

L’origine e l’impiego del termine sono, ad ogni modo, spregiativi, e, proprio sulla falsariga tematica di Divorzio all’italiana, stanno ad indicare una specificità tutta “negativa” della vita sociale e una modalità “ambigua” del rappresentare sullo schermo quel vivere, per un sospetto strisciante o dichiarato di una adesione compiaciuta (o quanto meno acritica) a quel modo di vivere e di spettacolarizzare il quotidiano. In effetti il termine “commedia all’italiana” connota almeno due livelli di significato: il primo, indirizzato a quel vivere quotidiano che è “commedia”; il secondo, indirizzato a quello spettacolo cinematografico che in qualche modo lo “magnifica” e lo esalta, presentandolo in forme ritenute innocue, se non addirittura dannose, per la crescita civile degli italiani3.

Le commedie del boom descrivono in chiave comico-amara lo sviluppo economico improvviso e caotico, le pulsioni e i desideri della collettività; citando Mario Monicelli, trattano «con termini comici, divertenti, ironici, umoristici, degli argomenti che sono invece drammatici». Utilizzando gli insegnamenti grammaticali del neorealismo, gli sceneggiatori e i registi si basano su una scrittura aderente alla realtà, interpretano i mutamenti della mentalità, del costume sessuale, del rapporto col potere e la religione, della visione del mondo del lavoro e della famiglia. La denuncia dei «mali» della società contemporanea attraverso la chiave comica, ha permesso spesso di aggirare la censura molto attiva negli anni Cinquanta e Sessanta – si vedano i problemi riscontrati dai registi engagé quali Rosi, Antonioni, Petri – e di conquistare un vasto pubblico che era rimasto escluso dalla poetica neorealista. Tra i capolavori del periodo ritroviamo di nuovo Sordi in tre parti di inestimabile valore: La grande guerra (1959), Tutti a casa (1960), Una vita difficile (1961)4. La prima guerra mondiale vista in modo inedito, depurata della vulgata retorica del conflitto eroico, consente a Monicelli di ricevere il Leone d’Oro a Venezia ex aequo con Il generale Della Rovere di Rossellini. Non senza problemi di censura al momento dell’uscita – vietato ai minori di sedici anni per esempio – il film denuncia la violenza del conflitto, il contrasto tra i fanti semplici e le gerarchie militari, le condizioni di vita disperate, le differenze dei localismi-provincialismi peninsulari quando per la prima volta i soldati provenienti da tutta Italia, dialettofoni e analfabeti, si ritrovano nel calvario delle trincee. Il romano Oreste Jacovacci (Sordi) e il milanese Giovanni Busacca (Gassman) sono due personaggi comici che si muovono in un contesto tragico; sono due fanti poco «efficienti» che provano ripetutamente ad imboscarsi per sopravvivere, fino ad esser sul punto di consegnare al nemico informazioni importanti relative al contrattacco italiano sul Piave. L’arroganza dell’ufficiale austriaco e il suo disprezzo per gli italiani fanno scattare, però, un sussulto d’orgoglio e di dignità: i due soldati semplici mantengono il segreto fino alla fucilazione e si riscattano. Fino ad allora, manifestare una visione critica sulla grande guerra era considerato tabù; anche All’ovest niente di nuovo di Lewis Milestone era stato vietato in Italia per molti anni; in quel frangente, ormai, i tempi erano maturi per vedere sul grande schermo ciò che la Storia aveva già sentenziato. Altro tema delicato della storia d’Italia – il caos successivo all’8 settembre 1943 – viene affrontato dal regista Luigi Comencini in Tutti a casa. La pièce segue la vicenda umana del sottotenente Alberto Innocenzi (Sordi) nella discesa verso sud dopo l’armistizio, dal Veneto a Littoria. È una catabasi dove può constatare la salute, pessima, di un Paese allo sbando, dilaniato dalla guerra e dalle violenze, dall’intolleranza e dall’indifferenza, dove chi può cerca di salvarsi la pelle. Dopo la morte del compagno d’avventura, il geniere Ceccarelli (Serge Reggiani), Innocenzi decide di prender posizione e, imbracciata una mitragliatrice, spara contro i tedeschi. In un film-documento a poca distanza dagli eventi storici, neanche vent’anni, Sordi è un personaggio complesso, denso di ironia e pietas, è un eroe per caso che, dopo aver assistito passivamente allo scorrere degli eventi, capisce che è necessario prendere posizione affinché le cose cambino. Suona come un sequel cronologico Una vita difficile di Dino Risi: storia della vita di un uomo qualunque tra il ’43 e i primi anni Sessanta. Silvio Magnozzi (Alberto Sordi) è stato ufficiale di complemento, antifascista, partigiano anche se non militante, giornalista di sinistra presso Il lavoratore, repubblicano durante il referendum, marito di Elena Pavinato (Lea Massari). Trascorre un periodo in carcere a seguito delle sommosse scoppiate per l’attentato a Togliatti del 1948, viene lasciato dalla moglie e si ritrova a Roma a frequentare il sottobosco dell’editoria, mentre Elena conduce uno stile di vita agiato a cui non può rinunciare. Nell’Italia del boom economico non c’è spazio per gli ideali genuini di giustizia sociale di Silvio: celebre è la scena in cui sputa sulle macchine lussuose di Viareggio. Alla fine troverà un posto fisso come segretario tuttofare presso l’azienda di un uomo d’affari che lo sbeffeggia pubblicamente. All’ennesima umiliazione, durante una festa in piscina, lo butta in acqua, e riconquista l’ex moglie, presente alla serata5. In questo percorso caleidoscopico proviamo a soffermarci sulla narrazione della contemporaneità, a capire le percezioni degli autori degli anni a cavallo tra il ’50 e il ’60. Sempre Maurizio Grande afferma:

il radicamento della commedia italiana nel quotidiano e nel banale; l’esagerazione degli aspetti del costume; lo scandaglio del “privato” più allucinato e grottesco; la messa a nudo di quanto veniva accuratamente tenuto nascosto, insabbiato nelle maschere del perbenismo o dell’indifferenza più cinica; l’accostamento deformante agli stereotipi della vita di ogni giorno e ai trucchi a sopravvivere. In una parola, quel tallonamento dell’individuo che la poetica zavattiniana aveva teorizzato come stile e come impegno civile, nella commedia diventa deformazione e degenerazione, rigonfiamento, spettacolo allo stato puro di un altro spettacolo: quello dei vizi e della furberia nazionale6.

Non può che venir in mente un grande regista italiano come Pietro Germi, che sino ad allora si era occupato di argomenti impegnati – si veda In nome della legge (1949), una delle prime denunce sulla mafia siciliana, Cammino della speranza (1952) sull’emigrazione interna – e che incomincia ad occuparsi di commedia all’italiana. Rimproverato aspramente dalla critica, Germi in realtà non perde la vis polemica attraverso cui riesce a denunciare le storture della società. Divorzio all’italiana (1961) è un’epifania improvvisa: premio come miglior commedia al Festival di Cannes e Oscar per la miglior sceneggiatura originale (Ennio De Concini, Pietro Germi, Alfredo Giannetti).

Ad Agramonte, fantasiosa città della Sicilia, il barone Ferdinando Cefalù detto Fefè vive il tramonto di una relazione matrimoniale incominciata dodici anni prima. Nei confronti della soffocante Rosalia non nutre alcun tipo di trasporto amoroso, al contrario si innamora della propria cugina Angela, una giovane sedicenne. Fefè organizza un piano per sbarazzarsi della moglie: trovare un amante alla moglie – Carmelo Patanè, un vecchio spasimante –, coglierli in flagrante e ucciderla. Siamo in un Paese in cui esisteva ancora l’articolo 587 del codice penale, che prevedeva delle attenuanti in presenza del delitto d’onore; il divorzio in quella società cattolica e bigotta era ancora tabù. Il piano, però, non ha buon esito. Patanè e Rosalia si danno alla fuga ancor prima di consumare il tradimento e viene a mancare la flagranza che avrebbe giustificato lo stato d’ira di Fefè. Sullo schermo appare Immacolata, la moglie di Patanè, che umilia pubblicamente Ferdinando sputandogli in faccia in occasione del funerale di Calogero, il padre di Angela e zio di Fefè, morto d’infarto quando ha scoperto la tresca tra la figlia e il nipote. Grazie al boss locale Ciccio Matera, il barone viene a conoscenza del luogo in cui si sono rifugiati la moglie e l’amante. Arrivato sul luogo, vede che Immacolata ha già vendicato il suo onore uccidendo il marito, di conseguenza non resta che fare altrettanto con Rosalia. Ferdinando è condannato a tre anni di carcere: beneficia di un’amnistia e torna in paese per sposare Angela. Nel finale si intuisce che anche la giovane ragazza peccherà di infedeltà.

Riprendendo il romanzo drammatico di Giovanni Arpino Un delitto d’onore, Germi elude la censura sottoponendo un copione con un finale che poi non sarà girato e con un titolo più prudente, Capriccio all’italiana, ed affronta un tema divisivo sul quale era rischioso pronunciarsi, vista la morale dell’epoca e l’arretratezza legislativa. L’opera è particolarmente efficace grazie ad un Marcello Mastroianni in stato di grazia; l’attore di Fontana Liri aveva appena interpretato un altro personaggio siciliano nel Bell’Antonio (1960) di Mauro Bolognini, ispirato al romanzo di Vitaliano Brancati, e un seducente giornalista, Marcello Rubini, ne La dolce vita (1960) di Federico Fellini. Anche Stefania Sandrelli (Angela), Daniela Rocca (Rosalia), Leopoldo Trieste (Carmelo Patanè) e Lando Buzzanca (Rosario Mulè) arricchiscono una pellicola che mette in mostra in modo grottesco e accentuato le dinamiche sociali di una Sicilia caricaturale. Siamo agli albori della commedia all’italiana: sdoganato il filone, l’età d’oro andrà dal 1960 al 1963. Come ci ricorda Masolino d’Amico, in La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975,

volendo ricorrere alle cifre, penso di poter assegnare al genere ben 71 titoli tra film interi e film ad episodi nel 1961-71; altri 64 nello stesso periodo gli sono, diciamo così, apparentati, agiscono cioè nella stessa area e più o meno con gli stessi ingredienti, pur senza mostrarne tutti i requisiti fondamentali. E in ben 53 film della prima categoria e 29 della seconda compaiono, insieme o separatamente, i quattro grandi specialisti, ossia Sordi, Gassman, Tognazzi, e Manfredi, più Marcello Mastroianni, che frequenta la commedia in occasioni particolari7.

Ci sarebbero tanti film di estrema importanza di cui parlare, ci limitiamo a citarne alcuni: Il posto di Ermanno Olmi (1961), La marcia su Roma (1962) di Dino Risi, Mafioso (1962) di Lattuada, Una storia moderna – L’ape regina (1963) di Marco Ferreri, Ieri, oggi, domani e Il boom (1963) di Vittorio De Sica, I compagni (1963) di Monicelli. In questa sintetica carrellata sul cinema italiano ai tempi del miracolo economico non possiamo, però, dimenticarci di autori che han dato vita ad una sorta di contro-boom della visione. Cineasti che han intrapreso un percorso originale e fuori dagli schemi attraverso cui hanno raccontato la stessa Italia utilizzando un’ottica diversa, divergente, grandangolare.

 

Il contro-boom: uomini contro

È nell’Italia del trionfalismo per l’Olimpiade del 1960, degli slogan «vai tranquillo», «non si preoccupi», dei palazzinari, delle rivendite automobilistiche, degli strozzini, dei petrolieri, della pubblicità consumistica invasiva, che autori di primissimo ordine registrano la scomparsa di una cultura millenaria, contadina e patriarcale, e l’ascesa della civiltà dei consumi, con gli esiti nefasti che l’imbarbarimento emotivo e materiale ha comportato. Se da una parte gli italiani dei primi anni Sessanta sorridono davanti allo schermo, abbiamo anche l’altra faccia della medaglia della commedia all’italiana: una sorta di contro-boom intrapreso da intellettuali solitari spesso più considerati all’estero che in patria. Se i documentari di Vittorio De Seta avevano raccontato gli isolati territori siciliani e sardi e cristallizzato un mondo perduto, ancestrale, arretrato, Michelangelo Antonioni interpreta le grandi malattie del suo tempo: l’incomunicabilità e l’alienazione. Dopo l’insuccesso commerciale de Il grido (1957) e una parentesi teatrale, torna al cinema con una trilogia che è entrata di diritto nella storia: L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962). I personaggi di Antonioni sono vittime del loro tempo, si imbattono nella fragilità dei loro sentimenti, sono in fuga da loro stessi, soli, inermi di fronte alla mercificazione, ai meccanismi di accumulazione. In quelle città che vengono stravolte urbanisticamente – vedi Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi – e antropologicamente, Pier Paolo Pasolini racconta i nuovi fenomeni nati dall’inurbamento: le difficoltà di vita del sottoproletariato urbano, delle prostitute, dei diseredati, degli emarginati. Sono gli anni di Accattone (1961), Mamma Roma (1962), La ricotta, mediometraggio in Ro.Go.Pa.G. (1963).

Il cinema italiano negli anni del boom è stato estremamente prolifico, rappresenta oggi un’età d’oro dell’arte italiana e difficilmente si potranno rivedere tanti geni della cinematografia operare tutti nel lasso di pochi anni, in contemporanea. Qui abbiamo percorso sinteticamente uno dei molti tracciati della storia del cinema, tanti altri ne restano da intraprendere per continuare il viaggio alla scoperta delle nostre identità e del nostro passato.


Note

1 Cfr. Giancarlo Governi, Totò, vita opere e miracoli, Roma, Fazi, 2017; Franca Faldini, Roma, Hollywood Roma. Totò ma non soltanto, Milano, Baldini & Castoldi, 2017; Alberto Anile, Totalmente Totò. Vita e opere di un comico assoluto, Bologna, Cineteca di Bologna, 2017.

2 Cfr. Alberto Bevilacqua (a cura di), I grandi comici. Le battute, le scene, gli sketch che vi hanno divertito negli ultimi vent’anni, Rizzoli, Milano, 1965.

3 Cfr. Maurizio Grande, La commedia all’italiana, Roma, Bulzoni, 2006, p. 44.

4 Cfr. Silvana Giacobini, Albertone. Alberto Sordi, una leggenda italiana, Milano, Cairo, 2018.

5 Cfr. Enrico Giacovelli, C’era una volta la commedia all’italiana, Roma, Gremese, 2015.

6 Grande, La commedia all’italiana, cit., p. 55.

7 Masolino D’Amico, La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, Milano, Il Saggiatore, p. 152.