L’emergenza che ha travolto il mondo, lo sappiamo bene, ha chiuso fin da subito le porte dei teatri, e non solo. Dai primi segnali di allarme tutti gli spazi fisici di incontro culturale si sono trovati a chiudere, per primi, i battenti: dai musei alle aule scolastiche ed universitarie, dai cinema alle biblioteche, insieme a tutti i luoghi di fruizione e ricerca, di spettacolo e intrattenimento. Nel mentre le nostre città si preparavano, piazza dopo piazza, strada dopo strada, a stravolgere la propria quotidianità, a riempirsi di spazi vuoti, per entrare in un tempo nuovo e rallentato, talvolta immobile e difficile da decifrare. Anche coloro che si dedicano allo studio, alla didattica, alla ricerca, hanno visto le proprie possibilità fortemente ostacolate, costretti dalla necessità di ripensare a modalità nuove (e talvolta estremamente limitanti) di fruizione e divulgazione del sapere, nell’impossibilità di accedere ad archivi e a materiali di studio. È certamente presto per valutare l’enorme impatto di questi eventi sui percorsi futuri, tanto nell’ambito della cultura quanto in quello più specifico della ricerca e della didattica. Di certo, mai come in questo periodo è apparsa evidente l’importanza dello spazio fisico come luogo necessario di confronto e fruizione, come parte integrante della condivisione: l’aula scolastica, privata delle sue presenze, degli orari e ritualità, dell’interazione umana tra alunni e insegnanti, è forse la conferma più chiara e desolante di quanto il contenuto per quanto valido non possa essere sufficiente, di quanto l’ambiente non sia solo un contenitore ma sia parte del percorso educativo. Proprio nel momento della privazione degli spazi, ne abbiamo scoperto l’importanza fondamentale, non solo in quanto ambienti di lavoro ma come territori indispensabili di confronto ed elaborazione.
Se questo è vero nell’ambito scolastico, dove sarebbe necessario recuperare con forza il valore dello spazio didattico come luogo di socialità ed apprendimento, è indubbio che tutto il mondo della cultura abbia sofferto drammaticamente di questa privazione, benché in modi diversi si sia tentato di non recidere completamente il filo della condivisione utilizzando quando possibile le piattaforme online.
Il teatro è forse lo scenario che più ha messo in evidenza l’enormità di tale mancanza: per sua natura non può esistere palcoscenico senza spettatori, senza corporalità, senza un dialogo tra le parti scandito da una ritualità temporale altrettanto imprescindibile. Il teatro è il territorio per eccellenza della contaminazione e dell’assembramento, e dalle sue voci sono giunte riflessioni importanti per rivendicarne la natura, non mediabile attraverso percorsi altri e fertile invece di potenzialità che le sono proprie1.
L’intuizione della necessità materiale del confronto come elemento decisivo della fruizione del sapere, come occasione irrinunciabile di stimolo reciproco e di crescita, può essere utile per una riflessione ulteriore sulla divulgazione della storia, tanto per quel che concerne la didattica quanto per gli altri ambiti di condivisione, diffusione e scambio che si sono trovati ad essere fortemente limitati dall’emergenza sanitaria. Sulla scia del dibattito di cui questa rivista si fa portavoce propongo il resoconto di una esperienza senz’altro positiva avvenuta negli ultimi anni a Ravenna, alla quale ho avuto occasione di partecipare, risultato di una interazione tra storia e teatro dove il contagio tra diverse competenze ha prodotto idee ed intuizioni. Non si è trattato, lo dico fin da subito, di una relazione paritaria: piuttosto, la storia si è lasciata accogliere dal teatro, ne ha dovuto rispettare i tempi e ha trovato una voce nuova di espressione; il teatro, dal canto suo, ha fatto spazio, ha aperto il suo palco, lo ha offerto alla cittadinanza proponendo un linguaggio diverso da quello abituale. Chi ha preso parte a quest’esperienza ha avuto modo di inoltrarsi in territori altri da quelli noti: il che è sempre premessa irrinunciabile per il dialogo e le nuove idee.
1. Teatro Rasi, stagione 2018-19: Storie di Ravenna
Le luci si spengono e si fa buio in sala. Come è d’abitudine a teatro, qualcuno avvisa ad alta voce di spegnere suonerie e schermi luminosi, per non disturbare chi è sul palco e gli altri spettatori. Sono le sei del pomeriggio di un giorno feriale, un orario un po’ al di fuori dalle consuetudini del teatro. Quello che si apre sul palco non è, infatti, uno spettacolo in senso stretto, non ci sono attori che recitano una parte, non va in scena una drammaturgia. Si parla di storia, ma non è una conferenza, e non è nemmeno una lettura pubblica. È piuttosto il racconto di una città. Un episodio, una data decisiva, un monumento, sono il punto di partenza attorno a cui si dipanano le diverse voci che vanno avvicendandosi. La scena è oltremodo scarna: qualcuno parla e racconta, accompagnato da qualche immagine proiettata alle sue spalle, mentre su una sedia al lato del palco un attore alterna la sua voce alle altre leggendo brani, citazioni, stralci di documenti. Alla fine, una volta calato il sipario e raccolti gli applausi, platea e palco si ritrovano insieme nell’atrio, dove li attende il momento conviviale dell’aperitivo. Sei date, una al mese, sempre di lunedì alle 18.00: e il successo, in parte inatteso, della stagione 2018 – 2019 ha permesso di riproporre la formula nella stagione successiva, quasi completamente portata in scena prima che l’emergenza sanitaria obbligasse ad annullare l’ultima data prevista.
L’idea era semplice eppure non era scontato il risultato, che è stato anche un esperimento e una volontà di unire percorsi culturali diversi. L’intuizione iniziale è nata in seno al Teatro delle Albe, storica realtà teatrale ravennate che da ormai quarant’anni è fucina di sperimentazioni e interazioni tra linguaggi, capace di indagare nella letteratura classica e nella cultura popolare, e di costruire legami vivaci sia con il proprio territorio che con il mondo2. Alessandro Argnani, codirettore della cooperativa Ravenna Teatro e attore della compagnia, ha immaginato per primo la possibilità di raccontare sul palco la storia della città ed ha voluto coinvolgere due figure di studiosi che sono riferimento nei rispettivi ambiti, ovvero lo storico dell’arte Giovanni Gardini e lo storico contemporaneista Alessandro Luparini, direttore della Biblioteca di Storia contemporanea “Alfredo Oriani” (nonché, per inciso, socio di Clionet e autore di questa rivista). A loro è stata affiancata la voce e l’esperienza di Luigi Dadina, attore tra i fondatori del Teatro delle Albe, che ha fatto da controcanto in ogni puntata leggendo i testi dei documenti e delle citazioni selezionate. Il gruppo così formato, coordinato dalla regia e dalla collaborazione di alcuni attori della compagnia (Alessandro Renda, Roberto Magnani, lo stesso Argnani) ha costruito gli episodi da proporre sulla scena, coinvolgendo di volta in volta altri esperti e studiosi. A nessuno veniva chiesto di recitare, ma di portare sul palco le proprie competenze e i propri studi, rispettando i tempi e le modalità richieste dal teatro. Attorno ad ogni episodio o luogo della città si sviluppava un discorso, pieno di incursioni sia spaziali che temporali: la storia contemporanea è comparsa più volte nel racconto della storia antica e medioevale, passando attraverso le porte dei monumenti e le loro vicende; così come la storia dell’arte sacra e musiva ha fatto capolino tra gli eventi concitati del Novecento: non si è voluto, infatti, proporre la linearità di una lezione di storia, ma piuttosto una serie di racconti, e il racconto è per sua natura ricco di suggestioni, immagini, fili sospesi.
Si è partiti nella prima stagione dalla Ravenna romana per attraversare, passo dopo passo, le vicende di Teodorico e Galla Placidia, la quotidianità dei monaci camaldolesi, la battaglia di Ravenna del 1512 (citata da Ludovico Ariosto, nientemeno), fino ad arrivare alla trafila garibaldina e al referendum del 1946. Un percorso a grandi salti temporali quindi, accomunati però da un unico scenario, quello della città protagonista degli eventi, quasi a intercettare i momenti cruciali in cui la Storia è passata tra le sue strade. Fin dalla prima data, un pubblico curioso e partecipe ha affollato la platea e gli spalti, sempre più numeroso man mano che il passaparola confermava il successo e l’apprezzamento dell’iniziativa.
Ravenna è senz’altro una città molto attenta alla propria storia, e la proposta ha certamente potuto attecchire in un terreno già preparato, raggiungendo una collettività molto educata a coltivare una propria memoria civile. Ma noi che lavoriamo nell’ambito della ricerca e della divulgazione sappiamo bene che il pubblico presente alle conferenze e agli eventi culturali a carattere storico tende a ridursi progressivamente, constatiamo come sia sempre più difficile coinvolgerlo ed estendere l’interesse al di fuori di una delimitata fascia di età o di un preciso livello di preparazione. Spesso ci interroghiamo su come scavalcare i territori noti e raggiungere altre generazioni ed altri ambiti di interesse, trovare altre modalità di comunicazione. Per questo il successo di Storie di Ravenna ci ha sorpreso e incuriosito, e ci ha portato intuizioni nuove: tornare a vedere un pubblico trasversale e vario, vedere il coinvolgimento e la partecipazione estendersi di volta in volta, scoprire la continuità di una platea di affezionati presente ad ogni appuntamento, ci ha obbligato a riflettere sui percorsi di divulgazione da intraprendere, nonché sulla natura stessa della narrazione della storia.
L’attenzione rigorosa alle fonti non è mai stata trascurata: gli studiosi presenti sul palco hanno anzi avuto occasione di mostrare documenti e reperti che sono parte del proprio percorso professionale di ricerca. Siamo abituati a condividere a più livelli i nostri studi: con gli altri studiosi, con gli studenti, nella scrittura di articoli scientifici o di testi divulgativi, nelle iniziative pubbliche. Eppure il teatro è uno spazio che ha altre dinamiche, e se si accettano i suoi riti e linguaggi l’interazione tra i due mondi può essere quanto mai feconda. Il palcoscenico obbliga a rispettare i tempi, impone una struttura di regia che non può scivolare né essere improvvisata. Obbliga quindi a costruire una narrazione precisa, il più possibile efficace, che segua anche le suggestioni emotive e che sappia essere chiara quando l’argomento si fa più complesso. Il teatro crea un rapporto diverso con il pubblico, in qualche modo più separato rispetto a quello di un convegno o di una lezione: un pubblico che non interagisce direttamente con chi sta parlando, ma che è allo stesso tempo concentrato ad assorbire ogni parola, come un corpo unico teso verso il palco e quel che racconta. Ogni errore ed incertezza sul palco si amplifica, e non è negli sguardi della platea buia che si possono trovare appigli quando si perde il filo. Ogni volta che si apre il sipario si apre un nuovo rito, di cui tutti i presenti fanno parte: l’evento che si dipana in quel tempo definito è, ogni volta, unico.
Se queste cose le sanno bene coloro che fanno teatro, sono state certamente una novità stimolante per noi studiosi, che credevamo di essere abituati a parlare in pubblico e abbiamo scoperto invece di dover imparare a raccontare il nostro mestiere su altre tracce, in altri spazi. Una volta chiuso il sipario e accese le luci il rito si conclude, la tensione tra palco e platea si allenta: con Storie di Ravenna si è deciso di non disperdere quel momento e di aggiungere alla fine dello spettacolo una degustazione, sempre offerta da un ristorante diverso del territorio. Così che dopo essere usciti dalla sala si creava l’occasione per osservazioni, domande, discussioni informali. Si rimescolavano in qualche modo le carte, chi era appena stato sul palco tornava a dialogare da individuo, magari attorno a un brindisi. Nella dimensione di una piccola città, questo momento di convivialità ha significato ritrovare volti conosciuti e condividere impressioni.
La seconda stagione delle Storie di Ravenna, avviata nell’ottobre 2019, ha confermato il successo della prima ed ha raffinato la forma, nelle prime puntate più improvvisata e col tempo sempre più collaudata e riconosciuta dal pubblico3. La cronologia degli incontri si è presentata questa volta più divaricata tra le due parti, la prima – tre incontri curati da Giovanni Gardini – dedicata ai monumenti artistici della città e alla sua storia antica, la seconda invece, curata da Luparini, direttamente proiettata sugli eventi più turbolenti del Novecento: la Settimana Rossa, la marcia fascista su Ravenna del 1921, mentre l’ultimo incontro, previsto ma non andato in scena, avrebbe dovuto essere dedicato alla liberazione della città. Per questa seconda stagione si è voluto avviare un dialogo, che vogliamo continui in futuro, con le scuole superiori per affrontare insieme ai docenti una riflessione sulla didattica della storia. Anche questa proposta purtroppo solo avviata è rimasta in sospeso a causa della chiusura di scuole e teatri, ma lo consideriamo un punto di partenza per nuovi percorsi da costruire.
2. Qualche riflessione su storia e racconto
Personalmente sono stata una fedele spettatrice della rassegna, ma anche una studiosa chiamata a partecipare ad alcune delle “puntate” dedicate alla storia contemporanea. Ho sperimentato dunque quella tensione ed emozione di entrare nel palco, avere un tempo definito, di fronte al buio della platea, per raccontare una storia, trasformando in narrazione lo studio, il documento, l’immagine. Alcuni percorsi di “Public History” si sono già cimentati in modi diversi con il teatro, che è un territorio pieno di potenzialità purché lo si riconosca nella sua natura peculiare. Riguardo all’esperienza ravennate penso si possano proporre alcune osservazioni, giacché come studiosi operiamo costantemente nei numerosi punti di contatto tra la ricerca e la costruzione della memoria storica, tra l’analisi e la restituzione, tra gli archivi e le realtà che li hanno prodotti. Elementi e punti di riflessione propri della didattica della storia sono emersi con chiarezza e sono, io credo, conferme da tenere in considerazione per altri e prossimi percorsi di divulgazione.
Innanzitutto credo che in questa esperienza sia stata centrale la possibilità di mettere a confronto competenze diverse. Studiosi di livello e attori di una compagnia teatrale strutturata si sono avvicinati, hanno messo insieme le proprie risorse, ciascuno nel proprio ambito. Questo ha mantenuto alto il livello tanto dei contenuti esposti quanto della resa scenica, curata da chi vive nel teatro e ne conosce le dinamiche. È possibile insomma mettere in scena la storia, coinvolgendo direttamente gli storici, purché non improvvisino: che è una cosa diversa dal portare a teatro il racconto della storia e farne una drammaturgia, come può avvenire all’interno dell’ambito teatrale in senso stretto. L’interazione tra competenze diverse e diverse modalità comunicative permette di allargare lo spazio di azione e di coinvolgere l’attenzione di un pubblico meno uniforme. La trasversalità dei destinatari è garanzia di apertura, nuovi interessi, circolazione di conoscenze.
In questo caso chi ha ideato la rassegna ha voluto puntare su un unico territorio, con l’obiettivo di raccontare Ravenna ai ravennati. La storia locale – e chi si occupa di didattica della storia lo sa perfettamente – offre la possibilità di fare appello a legami emotivi, contribuisce di fatto a costruirne di nuovi, saldando attorno a un episodio, a un luogo attraversato, gli elementi della memoria collettiva. Attraverso il racconto di un territorio lo spazio vissuto prende spessore: il legame con la storia vicina si fa finestra attraverso cui riflettere sui grandi temi della storia generale. Nel caso di Storie di Ravenna senz’altro questo elemento è stato origine del grande interesse suscitato, poiché era proprio la peculiarità ravennate a destare curiosità e dibattito. Ma si è trattato anche di fornire elementi, attraverso il lavoro di studiosi del territorio, per una storia condivisa e complessa della comunità, a cui la rassegna era rivolta. Partire da un elemento concreto, un luogo significativo e vissuto, è un passaggio decisivo (anche se non l’unico possibile) della narrazione della storia, e i territori sono quelli che più vivono la necessità di sentirsela raccontare. Ciò che è valido per l’insegnamento nelle scuole non può essere trascurato quando ci si rivolge a un pubblico più adulto e differenziato.
La restituzione dell’iniziativa è stata senz’altro appagante, non solo per via del pubblico numeroso presente in sala, ma anche per il riscontro che gli esperti coinvolti ne hanno avuto relazionandosi con la città. L’impressione è stata quella di avere raggiunto ambiti più vari, di avere destato curiosità nuove. Il legame tra gli studiosi e la propria città si è in qualche modo rinsaldato. La scelta di unire all’appuntamento teatrale un momento conviviale si è rivelata molto proficua, per le occasioni di scambio e relazione che ha offerto. Inoltre si è deciso di coinvolgere ristoranti di livello, che hanno proposto menù basati su ingredienti e cultura culinaria locale. Così che altre suggestioni si sono andate a unire a quelle proposte in scena.
Questi elementi mi spingono a una considerazione che credo sia da ribadire in particolare in questo momento decisivo nel quale abbiamo attraversato l’esperienza del distanziamento sociale. La condivisione di materiali on line è senz’altro un supporto di grande interesse per la divulgazione culturale, può offrire percorsi didattici e materiali di studio, che se ordinati da studiosi competenti sono una risorsa preziosissima. È necessario però non dimenticare che tale fruizione può essere solo un supporto, l’ausilio di una condivisione che deve avvenire nel concreto dello spazio fisico. Infatti, le ricostruzioni e i materiali forniti da un sito web sono utili solo se si sa come collocarli, se si inseriscono in una struttura già formata, altrimenti si disperdono. Vale per la cultura, per tutti i luoghi che sono stati teatro di dialoghi, scambi, discussioni, e che non possono perdere la loro natura di spazi aperti e frequentati. Vale per l’insegnamento, che deve svilupparsi tra le pareti di una classe, pena perdere tutti gli elementi di socialità, relazione, inclusione che la scuola deve prefiggersi. Vale anche per la divulgazione della storia, poiché per fare fronte alla frammentazione del presente è necessario fare riferimento ad elementi concreti, richiamare l’attenzione sulla complessità delle dinamiche umane, proporre una dialettica che può mantenersi viva solo attraverso il contatto reale. La conoscenza appiattita dallo schermo manca di attenzione, di dialogo, e anche di memoria, perché non permette di dare spessore alle cose: e la storia non è solo una materia di studio ma è anche quella struttura che ci permette di collocarci nel tempo e nello spazio, di misurare la profondità di quello che accade. Questo è possibile soltanto se alcune persone si trovano insieme, in uno stesso luogo, e costruiscono in questo modo un legame. Mi spingo a dire che la cultura stessa si può definire come una serie di legami, con gli altri, con lo spazio, con il proprio passato, con la parola. Il teatro è solo una delle possibilità, che però ci insegna quanto lo spazio fisico e il suo utilizzo sia un protagonista ineludibile di ogni condivisione.
Non sappiamo se l’esperienza di Storie di Ravenna riprenderà il suo corso o se si sia conclusa qui. L’emergenza sanitaria ha lasciato teatri e spazi di fruizione culturale a lungo chiusi e inaccessibili: tuttora mentre scrivo non se ne conosce esattamente il loro destino. In questo caso è la storia umana a dover ancora fare il suo corso e indicare il futuro. Resta il fatto che l’idea che si è provato a mettere in scena ha lanciato nuovi fili, e speriamo, noi tutti che ne siamo coinvolti, che possa suggerire nuovi percorsi. È quanto mai necessario che lo studio della storia non si discosti dalla storia narrata, che è parte fondamentale della sua natura. Solo così può continuare ad essere un patrimonio prezioso da condividere, un testimone da raccogliere, da comprendere, e da tornare a raccontare con nuova voce.
Note
1 Il dibattito sul ruolo del teatro nel futuro ha aperto la strada, necessariamente, a una messa in discussione di alcuni presupposti precedenti all’emergenza. Segnalo a tal proposito la rivista on line di arti sceniche «AltreVelocità», e in particolare Lorenzo Donati, Il teatro d’ora in poi. Stati d’agitazione permanente (27 aprile 2020) https://www.altrevelocita.it/il-teatro-dora-in-poi-stati-dagitazione-permanente/.
2 Sul Teatro delle Albe e la sua storia rimando alla descrizione sul sito: https://www.teatrodellealbe.com/ita/curriculum.php?id=1; si veda anche il recente lavoro dedicato a uno dei fondatori nonché drammaturgo della compagnia: Maria Dolores Pesce, Marco Martinelli: un drammaturgo corsaro, Spoleto, Editoria & spettacolo, 2018.
3 Federica Angelini, Quando gli storici entrano in scena: il segreto di un successo non scontato, «Palcoscenico. Guida alle stagioni dei teatri di Ravenna a provincia», 2019-20.