Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea. Intervista ad Alessandra Pescarolo

Alessandra Pescarolo ha diretto l’area “Società” dell’Istituto di ricerche socioeconomiche della Regione Toscana (Irpet) e ha insegnato Sociologia e storia della famiglia e Sociologia e storia del lavoro all’Università di Firenze. Nel 2019 ha pubblicato con Viella “Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea”, una nuova storia delle italiane dall’Ottocento a oggi attraverso esperienze e rappresentazioni delle varie figure professionali. L’intervista è a cura di Eloisa Betti e Diego Graziola1.

Il valore del lavoro femminile è un tema affrontato a più riprese nel volume; può spiegarci la sua rilevanza per leggere la condizione lavorativa femminile nell’Italia contemporanea?

Sappiamo bene che il valore assegnato al lavoro di uomini e donne cambia molto nel tempo, all’incrocio fra modelli culturali, relazioni di potere, potenzialità tecnologiche. Il lavoro, il lavoratore, la lavoratrice, sono tutte categorie storiche, che interagiscono con la costruzione di mondi sociali e politici diversi. Come mostra l’esempio del lavoro familiare delle donne i confini di queste categorie variano di conseguenza.

Nel mondo antico, nelle società guerriere e aristocratiche, il popolo si ingegnava in molti modi ma il suo lavoro era considerato indegno dalle élites. Il lavoro delle donne delle classi alte fra le mura domestiche era idealizzato come simbolo di ordine e purezza, ma quello al chiuso degli artigiani era considerato svirilizzante. Anche se donne e uomini del popolo, servi e liberti, lavoravano duramente, e a volte riuscivano ad arricchirsi, il valore del lavoro era rimosso dalla simbologia del potere.

La storia successiva ha rivalutato alcune figure. Nel periodo delle Corporazioni, ad esempio, diritti e protezioni tutelarono il mondo artigiano, rafforzando il potere del maestro, e questo, in senso relativo, accentuò la marginalità femminile. Molto più tardi, nell’Italia di metà Novecento, il lavoro fu iscritto nella Costituzione come valore fondante della cittadinanza, sulla scia delle Carte socialdemocratiche e socialiste del Novecento. Nel dibattito fra i Costituenti si affermò e sembrò prossima a passare la proposta di Aldo Moro, che vedeva nel lavoro una condizione necessaria per l’esercizio dei diritti politici, incluso il voto.

Ma proprio in quel contesto, al centro del “secolo del lavoro”, la persistenza degli antichi valori patriarcali, radicati nel diritto di famiglia, negli interessi e nelle credenze misogine degli uomini e della Chiesa, rese possibile limitare il lavoro femminile anteponendogli l’”essenziale funzione familiare”. Con ciò si ribadiva la cittadinanza dimezzata delle donne, idealizzate come mogli e madri, più o meno sacrificali, ma irrilevanti proprio in quella sfera che la Costituzione legava alla partecipazione politica. Gli stessi padri costituenti cattolici, personalità assolutamente straordinarie, che promossero l’uguaglianza sociale e la centralità del lavoratore/cittadino, ignorarono questi temi al femminile, tacendo il nesso fra dipendenza economica e subalternità: contrastata nel dibattito soprattutto dai socialisti, quest’asimmetria fu superata nel diritto di famiglia solo con gli emendamenti del 1975 al testo fascista del 1942,  e con la legge di parità nel lavoro del 1977.

Quali sono le fasi storiche che ritiene più significative nel lungo cammino delle donne nel mondo del lavoro?

Mi è difficile parlare solo di donne. Anche nel libro ho cercato di inserire la storia del lavoro femminile in una cornice di genere, incrociando la questione del valore delle donne con quella del valore del lavoro in un senso più generale. Come abbiamo visto in alcuni periodi storici anche il lavoro maschile è svalutato. Mentre in altri i diritti del lavoro maschile aumentarono, e in senso relativo le donne divennero più marginali.

Questo avvenne anche nella lunga transizione dall’antico regime al Novecento. Nei codici borghesi ottocenteschi emerse la figura del libero locatore di opere, con la sua illusoria fratellanza con il datore di lavoro, fosse egli un mercante, un imprenditore o un professionista. Poi il capitalismo disciplinò lavoratrici e lavoratori in forme nuove: accentramento in fabbrica, funzionalizzazione dei corpi alle macchine, tempi costrittivi, orari monotoni, sistemi retributivi incentivanti. In una parola alienazione.

Il disciplinamento fu però più pesante al femminile; agli operai si perdonava una maggiore irrequietezza in base all’antica credenza che la virilità fosse incompatibile con la costrizione negli spazi chiusi. In ogni caso l’industrializzazione rafforzò la dipendenza di operai e operaie. In prospettiva la maggiore produttività accrebbe tuttavia i salari operai e la ricchezza dello Stato, permettendo la crescita di fasce di popolazione che non lavoravano: scolari, studenti, ritirati dal lavoro. Di questo quadro fecero parte anche la riduzione degli orari e la lievitazione dei salari. Al femminile la figura dell’addetta alle cure domestiche, poi banalizzata come “casalinga”, assunse nuovi significati.

Ma la storia del Novecento prese vie alternative nei paesi socialisti e in quelli capitalistici. Nei primi l’industrializzazione si accompagnò a una maggior uguaglianza delle donne nella sfera giuridica, pubblica e lavorativa, ma anche a nuove misure di uguaglianza sostanziale. I servizi all’infanzia pensati per il lavoro delle madri divennero diritti costituzionali; al di fuori della vita familiare, più conservativa, la possibilità delle donne di lavorare stabilmente si rafforzò. Nei secondi invece, fin dal primo Novecento, il pensiero socialista – si vedano in Italia gli eloquenti esempi della Kuliscioff e di Turati – condivise con la borghesia il culto della madre, sottratta alla sfera economica e idealizzata in quella morale. La figura popolare della lavoratrice, donna forte che trascina i compagni nella protesta economica e politica, fu sminuita e messa sotto tutela. La domesticità e la separazione delle sfere, legate in passato alle esigenze dell’onore maschile, si diffusero e si riqualificarono in funzione dell’idealizzazione della madre.

E quali le cesure che hanno prodotto mutamenti significativi?

Cesure importanti, in una direzione positiva, sono state quelle prodotte dalle crisi e dalle guerre mondiali, a cui sono seguite tuttavia stagioni regressive. Penso in particolare, come è ovvio, al ruolo assunto dalle donne di città e di campagna nella prima guerra mondiale, con un aumento dei livelli di istruzione, dei salari, delle responsabilità. La spinta ugualitaria nel dopoguerra sfociò nel 1919 nella legge Sacchi, che aboliva l’autorizzazione maritale e apriva alle donne l’accesso alle professioni e ai gradi intermedi della dirigenza pubblica. Ma il progetto di uguaglianza, già incrinato col rientro dei reduci, fallì del tutto con il “ritorno all’ordine” fascista, nel cui ambito un ruolo simbolico cruciale era giocato dalla gerarchia di genere.

Dopo la seconda guerra vi furono avanzamenti – in primo luogo il voto – ma anche regressioni dovute a molte cause: il pesante antimodernismo della Chiesa, l’ulteriore miglioramento dei salari degli operai, che consentivano agli strati qualificati di mantenere la famiglia, l’influenza su un ceto medio in crescita dell’ideale americanizzante di una coppia coniugale polarizzata nei ruoli ma pari nel reciproco riconoscimento. Ma fu di grande importanza l’esodo contadino, sospinto dalle donne, la cui dura etica del sacrificio per la prima volta si incrinò, anche per la consapevolezza del contrasto fra i nuovi ideali affettivi maturati nel mondo urbano e la compressione della loro vita intima. La dura fatica del lavoro, che sottraeva tempo ai figli, e l’umiliante gerarchia di genere, entrarono in conflitto con la scoperta di un mondo più grande di quello contadino.

La cultura borghese e cattolica del male breadwinner, con il suo ideale materno potenziato, trovò in questi sentimenti un terreno fertile. Soltanto i movimenti giovanili, dal sessantotto al femminismo, riuscirono a incrinare quella parità illusoria. Senza quei movimenti dal basso, la posizione delle donne nella famiglia e nel lavoro non sarebbe oggi la stessa.

Rivendicazioni e conflitti: quale soggettività e ruolo delle donne?

La rimozione del ruolo della “donna che comanda”, del ruolo di spinta delle donne nei movimenti di protesta, pur contrastata, per quanto riguarda gli strati popolari in età moderna, dagli studi di E.P. Thompson e Natalie Zemon Davis, è ancora presente fra gli storici dell’età contemporanea. Fino a che la politica non diventò una professione maschile, le donne furono attive e presenti, soprattutto quando il tema della sussistenza si incrociava con quello dello sfruttamento padronale e della pace. Socialisti come Turati, così come la Federazione dei tessili, sono un esempio di una contraddittoria oscillazione fra la stigmatizzazione dell’emotività e dell’irrazionalità femminile, e l’accusa di un’eccessiva passività e inerzia.

Ma il modello della protesta popolare basato sul corteo, con alla testa le operaie, ha continuato a riprodursi al di là di questa svolta. La rivoluzione del febbraio 1917 in Russia nacque da un corteo spontaneo di operaie, che non ne accettarono l’improvvisa disdetta, nel giorno dell’8 marzo russo, data della festa internazionale della donna. Ed era la “rivoluzione buona”, riformista, ancora non egemonizzata dalla leadership leninista. Durante il biennio rosso, nello strato operaio, contadino e popolare che voleva “fare il bolscevismo”, le manifestazioni ripresero questo modello. La soggettività politica femminile era certo in contrasto col ritorno al privato del secondo dopoguerra. Ma essa riemerse negli anni Settanta.

Parità e differenza sono concetti utili anche per una lettura storica della condizione lavorativa femminile?

Sì, naturalmente sono concetti utili. Sappiamo da Thomas Laqueur che la credenza nell’inferiorità femminile si è coniugata a lungo con una visione di genere one sex, secondo cui gli organi sessuali femminili rispecchiavano, ma solo con un pallido riflesso, quelli maschili. Solo più tardi, anticipata dalla cultura illuminista del materno, la scienza ha scoperto il ruolo attivo delle ovaie nella generazione: una sorpresa che ha contribuito ad affermare l’idea della differenza, lanciando il maternalismo e una protezione del corpo femminile dai lavori faticosi, oltre che dal rischio della seduzione. Proprio la nuova cultura della differenza e del ruolo materno delle donne ha offerto loro tuttavia, in Italia come altrove, nuovi spazi di lavoro nell’ambito pubblico, nelle professioni educative e di cura, a partire da quella di maestra.

In ogni caso la storia non mi sembra, nelle sue tendenze attuali, una disciplina adatta a rafforzare l’idea della differenza, perché rifugge dall’essenzialismo e vuole decostruire le rappresentazioni culturali. Non voglio assolutamente svalutare il peso della progressiva differenziazione sessuale che si sviluppa progressivamente nel feto e nella maturazione sessuale successiva, ma buona parte della differenza di genere è derivata da processi culturali che spesso hanno tradito differenze naturali che avrebbero potuto essere lette in modo esattamente opposto, come espressioni di una particolare potenza del corpo femminile. La differenza è stata invece trasformata in inferiorità; grazie a una “profezia che si autoavvera”, e si è fatta reale grazie alle sue conseguenze: la minore istruzione, l’esclusione dai ruoli basati sull’astrazione matematica e filosofica (si pensi alle riforme del ministro Gentile nel periodo fascista), la negazione di lunghissima durata dell’accesso alla sfera pubblica e politica, la riduzione delle capacità entro uno spettro limitato, funzionale al matrimonio e al ruolo domestico.

Ne è nato un circolo vizioso che ha portato acqua a un’idea di differenza contigua a quella di inferiorità. Ribaltare questo concetto in superiorità delle capacità femminili mi sembra un ritorno all’essenzialismo. Ma alcune risorse tipizzate per genere, non la tradizionale pazienza ma, ad esempio, uno sguardo in profondità sulle dinamiche interpersonali, acquisito in una relazione stretta e non formale con altri esseri umani, possano oggi divenire più importanti, in un contesto nel quale il mondo relazionale non è più preordinato e deve essere continuamente costruito.

Il concetto di parità, invece, si afferma in molti momenti storici, ma con voce più forte negli anni della rivoluzione francese e negli anni Settanta. Da allora è la chiave fondamentale, e direi irrinunciabile, della storia e della politica di genere.

Quali sono le forme di lavoro che ritiene più significative per l’analisi del lavoro delle donne nel lungo periodo? E come cambiano nel tempo?

Ritengo particolarmente significativo, e finora poco esplorato, il lavoro delle contadine, con la loro cultura del lavoro tenace, che corre parallela alle rappresentazioni di una femminilità fragile fatte proprie dalla borghesia. Nel libro ho utilizzato vari strumenti, da una lettura attenta dell’Inchiesta Jacini agli stornelli delle giovani contadine del Monferrato, per mostrare lo scarto fra il diffondersi fra le élites del secondo Ottocento di una rappresentazione della figura femminile basata sulla fragilità e la delicatezza, e una subcultura femminile del lavoro, anche più forte di quella degli uomini di campagna.

All’opposto si colloca la debole identità di molte donne di città che non hanno un lavoro fisso ma tanti lavoretti. Le operaie, soprattutto dalla fine dell’Ottocento, iniziano a mostrare un forte attaccamento al lavoro che si intreccia con una richiesta di dignità.

Ma il lavoro che le donne hanno sempre amato è l’insegnamento, nei suoi vari ordini e gradi.

Qual è la rilevanza storica, e ancora contemporanea, del modello del male breadwinner nel contesto italiano?

Nel libro ho utilizzato l’indagine sui tempi dell’ISTAT relativa al 2014 per capire la diffusione degli stereotipi di genere collegati all’ideologia del male breadwinner; ne è emersa una rappresentazione degli italiani abbastanza sorprendente, in termini di condivisione, soprattutto da parte delle persone più anziane, meno istruite, che vivono al Sud, di affermazioni tradizionali sul ruolo della donna nella casa e di quello dell’uomo nel lavoro.

Una fotografia più aggiornata, fornita dal recente rapporto ISTAT sugli stereotipi di genere, mostra un miglioramento. Ė vero che nel complesso il 58% degli intervistati, come media di uomini e donne, condivide qualcuno degli stereotipi suggeriti dal questionario. Ma le affermazioni singole più condivise raccolgono il consenso di consistenti minoranze invece che di maggioranze. Gli stereotipi sui ruoli di genere più comuni sono: “per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro” (32,5%), “gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche” (31,5%), “è l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia” (27,9%). Quello meno diffuso è “spetta all’uomo prendere le decisioni più importanti riguardanti la famiglia” (8,8%). Come nel 2014, le risposte sono più tradizionali al Sud, fra gli anziani, fra gli uomini, fra le persone meno istruite.

Ma nel complesso la situazione è migliorata, in questi ultimissimi anni, forse per l’ingresso fra gli anziani della coorte di coloro che erano giovani ai tempi della rottura sessantottina e femminista. E questa è una conferma dell’importanza di quello spartiacque culturale.

Nel suo libro emergono anche lavori tradizionalmente invisibili, come il lavoro a domicilio e il lavoro domestico. Che ruolo hanno avuto queste forme di lavoro nella storia del lavoro femminile italiano?

Direi che hanno avuto un ruolo importantissimo nella storia del lavoro e dell’economia. Il lavoro a domicilio è stato la radice nascosta della competitività dei distretti industriali. La svalutazione di queste attività dipende da una distorsione fabbrichista dell’analisi economica e storica.

Quanto al lavoro domestico, la sua svalutazione è legata all’influenza delle principali teorie economiche otto-novecentesche, che hanno azzerato il valore economico del lavoro di cura, riconducendo la produttività alla sua dimensione quantitativa, derivata dalle economie di scala, alle grandi fabbriche, e negando il valore della produttività qualitativa e dedicata che si sviluppa nei servizi, e in particolare in quello domestico. In quest’equivoco sono caduti esponenti di destra e di sinistra, e perfino il femminismo.

Se e come i divari regionali hanno condizionato il lavoro femminile?

Dove c’è meno occupazione, come nel Mezzogiorno italiano, c’è più tradizionalismo. Gli uomini hanno cercato qui di svolgere tutto il lavoro che c’era, con una forma di razionamento implicito appoggiato ai pregiudizi di genere, che ha ridotto la concorrenza fra poveri e povere, consentendo il raggiungimento di remunerazioni più elevate. A maggior ragione questo ha funzionato per i buoni lavori del settore pubblico: dalla manifattura statale dei tabacchi di fine Ottocento alle occupazioni di bidello e maestro, questi rimangono più a lungo maschili.

Ė interessante anche chiedersi come i divari regionali siano stati condizionati da usi diversi del lavoro femminile. Un esempio importante è quello del lavoro a domicilio: figure di imprenditori contigue a quella antica del mercante imprenditore, nel Centro Nord, grazie all’innovazione di prodotto, lo hanno sganciato dalle produzioni tessili e funzionalizzato alle nuove specializzazioni dei distretti industriali, mentre nel Sud il lavoro a domicilio è rimasto concentrato nel tessile ed è uscito dai circuiti di mercato nel secondo Ottocento, esposto alla concorrenza delle filature e delle tessiture meccanizzate.

Quali scenari, continuità e discontinuità per il lavoro femminile nel nuovo Millennio?

Oggi siamo di fronte a nuove forme di precarietà del lavoro, diverse da quelle del passato perché convivono con alti livelli di istruzione e con una forte soggettività, che fornisce identità e strumenti di mobilitazione alle giovani donne. Ma il lavoro ha nuovamente perso valore, per loro e per i giovani uomini: disoccupazione e bassi salari sono anche al maschile un aspetto doloroso della crisi contemporanea. Come hai raccontato egregiamente nel tuo libro, la precarietà e la frammentazione della tarda modernità hanno indebolito, con la forza politica, la capacità di lavoratori e lavoratrici di vedersi come un soggetto collettivo e di rappresentarsi come risorsa economica cruciale. Come è ovvio alla luce del concreto perdurare del ruolo familiare delle donne, la quota della precarietà femminile, incluso il lavoro part time involontario, è superiore a quella maschile. Ma la concentrazione dei lavoratori nell’industria ha pesato, soprattutto con la crisi industriale nata nel 2008, sulle loro opportunità di occupazione.

Oggi ci troviamo a difendere il lavoro come strumento di coesione sociale, ma nel senso di una durkheimiana solidarietà organica, un collante “freddo” capace di consentire lo scambio di mercato. Ma non ci vediamo più come una comunità di produttori con interessi di classe condivisi. Le relazioni, come ho accennato prima, non sono più strutturate da condizioni comuni, ma devono essere continuamente alimentate da iniezioni di sincerità, serietà, fiducia.

Lavorare produce ancora utilità per gli altri, e dunque offre una sponda contro una disgregazione sociale estrema. Ma nel mercato capitalistico globale, con cui ci confrontiamo, il lavoro ha pochi diritti e una bassa remunerazione. Dovremmo rivalutare, per donne e uomini, i lavori che hanno un’alta produttività qualitativa, dedicata, espressa in condizioni di prossimità; ma non possiamo trascurare quella quantitativa. Questa fornisce importanti quote di ricchezza, che non siamo pronti a trascurare.


Note

1 Nell’immagine di apertura, operaia alla filettatura di un particolare su macchina semiautomatica, Weber, Bologna, aprile 1950 (Archivio fotografico Udi Bologna).